L’informazione, specie quella italiana, è sotto molti punti di vista una vittima. I carnefici assumono spesso la forma della politica o, come nel caso emblematico delle questioni ambientali, dell’una o l’altra multinazionale. Se a muovere i fili sono le grandi aziende, l’arma utilizzata è la sponsorizzazione pubblicitaria, non a caso, una delle principali fonti di finanziamento della stampa mainstream. I cinque quotidiani italiani più diffusi – Corriere della Sera, La Repubblica, Il Sole 24 Ore, Avvenire e La Stampa – da sempre concedono una quantità di spazio imponente alle pubblicità di industrie tutt’altro che innocenti in termini di emissioni di gas serra. Delle 266 inserzioni pubblicitarie rilevate nei primi quattro mesi dello scorso anno, ben 152 hanno riguardato compagnie energetiche, 94 il comparto dell’automotive, 17 il settore delle crociere e 3 quello dell’aviazione. Non dovrebbe sorprendere che questi stessi giornali, di riflesso, trattino il tema della crisi ecologica in modo superficiale e distorto.
L’industria fossile inquina anche l’informazione italiana
Secondo un’indagine dell’organizzazione Greenpeace, i quotidiani elencati pubblicano in media due articoli al giorno che accennano al tema della crisi climatica, ma i testi che trattano esplicitamente il problema sono meno della metà. Senza contare che, negli articoli che affrontano l’argomento, sono comunque le aziende il soggetto che ha più voce in capitolo, più di esperti, scienziati e organizzazioni ambientaliste. In generale poi, il tema ecologico risulta contestualizzato perlopiù nella sfera economica e politica, mentre in misura decisamente minore viene trattato come un problema ambientale e sociale. Arriviamo quindi alle responsabilità. Che le attività delle grandi aziende petrolifere siano la principale sorgente di gas serra è ad oggi innegabile ma, in ben 528 articoli esaminati, le compagnie petrolifere sono menzionate tra i responsabili della emissioni solo due volte. «Grazie alle loro generose pubblicità, che spesso non sono altro che ingannevole greenwashing, le aziende del gas e del petrolio inquinano anche il dibattito pubblico e il sistema dell’informazione, impedendo a lettori e lettrici di conoscere la gravità dell’emergenza ambientale che stiamo vivendo», ha dichiarato Giancarlo Sturloni, responsabile della comunicazione di Greenpeace. Va però sottolineato che il tema della crisi climatica, ormai da tempo, non vive più nell’ombra. Ad allarmare, piuttosto, è che viene alla luce in modo deformato. In sostanza, il problema non è più quanto se ne parla, ma come.
L’informazione ambientale italiana è quasi solo greenwashing
Parlare di ambiente dovrebbe significare sensibilizzare la popolazione sulle tematiche ecologiche. Bisognerebbe ad esempio spiegare come le bellezze naturali del Pianeta e la biodiversità che esso ospita siano sotto minaccia proprio a causa del sovrasfruttamento del territorio e delle risorse, dell’inquinamento e, in generale, dell’attuale modello socioeconomico capitalista. Fare informazione ambientale, in pratica, dovrebbe significare portare l’ecologia (la scienza figlia della biologia) nelle case della popolazione, di modo che quest’ultima possa comprendere realmente il tema e le sue cause, essendo portata ad agire.
In Italia, invece, la comunicazione mediatica sembra avere un solo obiettivo al riguardo: raccontare i mirabolanti presunti progressi sostenibili delle aziende che sponsorizza. Emblematico in questo senso il caso dell’agenzia Adnkronos che, specie scorrendone la sezione sostenibilità, sembra essersi convertita nell’ufficio stampa di grandi aziende del settore energetico, agroalimentare ed infrastrutturale. Al limite dell’assurdo vi sono poi le gesta del Corriere della Sera, il più diffuso quotidiano nazionale. Questo, in occasione della Giornata Mondiale dell’Ambiente del 2020, arrivò al punto di andare in stampa su carta verde con la prima pagina incorniciata da due inequivocabili e ben visibili Cani a sei Zampe. Proprio così. ENI, l’azienda italiana più impattante sul clima e l’ambiente, tra le 90 multinazionali responsabili del 50% del riscaldamento globale, ha fatto da sponsor speciale al Corriere della Sera nell’ambito della Giornata dedicata alla sostenibilità e l’ecologia.
Se non è greenwashing questo, cosa lo è?
Molti potrebbero replicare affermando che, in realtà, ENI è impegnata nella transizione energetica e sta investendo molto in essa. Tuttavia, a distanza di due anni, il Cane a Sei Zampe ha raggiunto il guadagno record di ben 20,4 miliardi di euro quasi esclusivamente grazie a progetti legati all’estrazione fossile. In pratica, l’azienda si vende come green (più del 55% delle sponsorizzazioni di ENI parlano di sostenibilità e ambiente) ma continua ad aumentare i propri investimenti nel settore del petrolio e del gas. Senza parlare poi di Plenitude, la stella nascente di ENI, nonché suo braccio sostenibile, definita dagli ambientalisti come l’illusione perfetta dato che più della metà delle sue attività riguardano comunque il gas. Nel complesso, è come se per ogni euro investito in transizione energetica, il Cane a sei Zampe ne investisse 15 nell’espansione delle fonti fossili. La manipolazione mediatica, tra l’altro, va poi persino oltre le sponsorizzazioni. Basti pensare che ENI, come tutti gli altri colossi fossili, era consapevole degli impatti che le sue attività avrebbero avuto sul Pianeta, ma non ha avvertito la popolazione, ha nascosto ciò che sapeva, ha negato il problema e ha ostacolato gli sforzi per risolverlo. In quest’ultimo caso, ad esempio, è appurato che le principali aziende del petrolio e del gas hanno pagato fior di quattrini per alimentare lo scetticismo sui cambiamenti climatici. Hanno finanziato, oltreché direttamente degli istituti di ricerca, delle vere e proprie campagne di disinformazione affinché la responsabilità delle loro attività nel cambio del clima venisse sminuita. Una delle indagini più recenti ha ad esempio rilevato che un campione di realtà legate al settore dei combustibili fossili ha speso circa quattro milioni di dollari per pubblicità in Meta allo scopo di diffondere, prima e durante il ventisettesimo Vertice sul Clima, affermazioni false e fuorvianti sulla crisi climatica.
Generalizzando si omette la realtà
Nel contesto della disinformazione, di particolare rilievo è il lavoro del quotidiano La Verità che, lo scorso 30 luglio, ha pubblicato una lunga intervista sul cambiamento climatico all’agronomo Luigi Mariani. Per farla breve, secondo l’esperto non climatico, permettere all’industria di continuare con le proprie emissioni, non solo non sarebbe un problema, ma sarebbe addirittura conveniente per l’umanità e le specie tutte. Caso vuole che, poche pagine oltre l’intervista in questione, il quotidiano diretto da Maurizio Belpietro ospitava la pubblicità a tutta pagina di quello che è considerato il più grande emettitore italiano di gas serra: di nuovo, la multinazionale petrolifera ENI. Due giorni dopo, La Verità ha poi deciso di dedicare un’intera pagina direttamente alle ragioni dell’industria degli idrocarburi, intervistando sul cambiamento climatico il petrofisico Andy May. Dal suo curriculum vitae, disponibile in rete, non è difficile apprendere che May, dal lontano 1974 e fino alla pensione, ha sempre lavorato per l’industria del gas e del petrolio, occupandosi anche di estrazione con la tecnica della fratturazione idraulica: una procedura devastante per l’ambiente e fortemente sospettata di causare terremoti. Tra gli ex datori di lavoro di May figura anche la Exxon Mobil, multinazionale petrolifera americana che è il quarto emettitore di anidride carbonica a livello globale. Non dovrebbe sorprendere che, nell’intervista, il petrofisico abbia negato con granitica convinzione che esistano prove del fatto che l’industria che gli ha dato da mangiare per tutta la vita abbia una qualche responsabilità nel cambiamento climatico in atto.
In sintesi, se alcuni quotidiani negano il problema, altri lo ammettono ma scelgono di non mettere mai nel mirino quelli che sono i reali colpevoli dell’aumento delle emissioni: ovvero le industrie fossili, cui vanno sicuramente aggiunte almeno quelle degli allevamenti intensivi. Sui principali media, infatti, il cambiamento climatico ha sempre cause genericamente antropiche. Una definizione in parte vera che però, di fatto, non significa nulla. Dare la colpa all’uomo, significa mettere tutti sullo stesso piano: i super ricchi che si spostano in jet privato con i lavoratori che non hanno i soldi per sostituire la vecchia auto, oppure gli amministratori delegati delle aziende fossili con i leader dei popoli indigeni. La disparità è evidente. E non solo in termini di responsabilità, ma anche in termini di vulnerabilità agli impatti della crisi climatica. È dimostrato che gli individui meno abbienti anche di nazioni del primo mondo, così come i paesi più poveri del globo, subiscono in modo più devastante le conseguenze di cambiamenti climatici a cui hanno contribuito poco o nulla. In fondo, dare la colpa a tutti significa non darla a nessuno: una narrazione perfettamente utile a tutta quella élite economico-industriale che, da decenni, emette impunemente gas serra e numerose sostanze nocive.
[di Simone Valeri]