In Puglia il salario minimo nei lavori pubblici diventa legge. Con la sentenza n. 188 del 16 dicembre, la Corte costituzionale ha respinto il ricorso del governo contro la legge regionale che fissa a nove euro lordi l’ora la soglia minima di retribuzione negli appalti pubblici. Le censure sollevate da Palazzo Chigi sono state dichiarate inammissibili, consentendo l’entrata in vigore di una norma che lega l’accesso alle gare al rispetto di un livello salariale minimo. Un passaggio che assegna alla Puglia un primato nazionale e riporta al centro il tema del lavoro povero, sullo sfondo di un vuoto legislativo statale che continua a pesare come una frattura politica e istituzionale.
La legge regionale n. 30 del 2024 entra così a pieno titolo tra le misure di contrasto al lavoro sottopagato, stabilendo che le imprese aggiudicatarie di appalti regionali debbano garantire ai lavoratori una retribuzione minima tabellare non inferiore a nove euro l’ora. Il cuore della decisione della Consulta sta proprio qui: la Regione non interviene sulla disciplina generale dei rapporti di lavoro, materia riservata allo Stato, ma fissa criteri di qualità sociale per l’uso di risorse pubbliche. In altre parole, la Puglia decide come spendere i propri fondi e a quali condizioni, legando l’accesso agli appalti al rispetto di una soglia salariale ritenuta dignitosa. Una scelta che, secondo i giudici, non viola la contrattazione collettiva né l’assetto costituzionale delle competenze.
Dal punto di vista politico, la sentenza viene rivendicata come una vittoria simbolica e sostanziale. Il presidente uscente della Regione Puglia, Michele Emiliano ha definito la sentenza una “vittoria importantissima”. Per la giunta regionale è la conferma di una linea che punta a contrastare il lavoro povero, particolarmente diffuso proprio nel settore degli appalti, dove la competizione al ribasso sui costi spesso si traduce in salari insufficienti. La Puglia si presenta in tal modo come laboratorio di una politica del lavoro alternativa all’inerzia nazionale, dimostrando che esistono margini di intervento anche senza una legge statale sul salario minimo, tema da anni al centro del dibattito ma sistematicamente rinviato.
Nei Paesi dell’Unione Europea la maggior parte degli Stati membri dispone di un salario minimo nazionale, mentre in Italia la materia è rimasta appannaggio della contrattazione collettiva tra parti sociali e non vi è una soglia minima generale stabilita per legge. La scelta pugliese mostra una strada possibile: usare la leva degli appalti pubblici per fissare standard minimi e impedire il dumping salariale. Nei prossimi mesi la sfida sarà l’applicazione concreta della norma, tra controlli, adeguamenti contrattuali e resistenze del mondo imprenditoriale. Intanto, il segnale è stato lanciato: se lo Stato non decide, le Regioni possono cominciare a farlo.




