«È tutta una finzione. Hossam ha inscenato la propria morte». È il 26 marzo 2025 quando l’account X Gazawood, che conta oltre 80.000 follower, accusa di messinscena la morte di Hossam Shabat, reporter di Al Jazeera ucciso nel nord di Gaza da un drone dello Shin Bet, il servizio segreto interno israeliano, e dall’esercito, secondo cui si sarebbe trattato di un «terrorista di Hamas». Nonostante le conferme, i video e le testimonianze, Gazawood ha ipotizzato che Shabat non fosse effettivamente morto, ma che si fosse trattato di una “finzione”.
A Gaza si muore davvero, ma c’è chi trasforma i cadaveri e il sangue in una teoria del complotto travestita da “fact-checking”. Dietro gli schermi si consuma una guerra parallela a quella vissuta tra le macerie, dove le bombe non cadono dal cielo, ma si insinuano nei feed dei social, tra video virali, meme e accuse di montatura e simulazione. Una ragnatela di dubbi volta a disumanizzare le vittime palestinesi e a negare il genocidio in corso.
Le origini di Gazawood
Gazawood è una costola di Pallywood, un neologismo coniato nei primi anni Duemila da ambienti filoisraeliani, che fonde “Palestina” e “Hollywood” per descrivere quella che, secondo loro, sarebbe una strategia sistematica da parte dei palestinesi di inscenare o manipolare episodi di violenza, morti tra i civili e distruzioni, allo scopo di sensibilizzare l’opinione pubblica occidentale. Secondo questa teoria del complotto — da cui è poi derivata Gazawood — esisterebbe una sorta di Hollywood palestinese che produrrebbe contenuti di propaganda per conto di Hamas. Ogni immagine proveniente da Gaza o dalla Cisgiordania sarebbe in realtà il frutto di un copione recitato a favore di telecamera da “crisis actors”, orchestrato in uno studio televisivo.
Il termine nasce nel 2005 con il documentario dello storico statunitense Richard Allen Landes, docente all’Università di Boston, Pallywood: According to Palestinian Sources (Pallywood: secondo le fonti palestinesi). L’obiettivo dichiarato è dimostrare una manipolazione mediatica da parte palestinese fin dalla Seconda Intifada.
Questa teoria del complotto compare per la prima volta con il celebre caso della morte di Mohammad al-Durrah, un ragazzino di 12 anni colpito a morte al checkpoint di Netzarim. La tragedia venne ripresa da un cameraman palestinese, e il filmato di 59 secondi fu trasmesso dal canale francese France 2 il 30 settembre 2000, con il commento del veterano franco-israeliano Charles Enderlin. Nel video si vedono Mohammad e suo padre Jamal rannicchiati dietro a un cilindro di cemento, mentre intorno a loro si odono spari. Pochi secondi dopo, le immagini mostrano il corpo del bambino steso a terra, insanguinato. Le immagini crude furono trasmesse in tutto il mondo, e il bambino divenne un simbolo delle rivolte palestinesi della Seconda Intifada, cominciate soltanto da un paio di giorni.
A causa di alcuni tagli, però, il video venne considerato da alcuni blogger e dal governo israeliano come falso, divenendo così terreno di scontro. Nel 2013 il premier israeliano Benjamin Netanyahu presentò un report interno secondo cui non era stata l’IDF a sparare al giovane palestinese. Nel suo documentario, Landes pone in dubbio persino l’autenticità del filmato e ipotizza che al-Durrah non sia stato affatto ucciso.
La vicenda ha dato vita a teorie complottiste, alimentate soprattutto dalla destra israeliana. Da quel momento in poi, ogni rappresentazione dello strazio civile palestinese è stata contaminata da sospetti di recitazione. E con la guerra in corso, sono tornate a proliferare sui social network le teorie del complotto di Pallywood. Secondo un’analisi del gruppo d’inchiesta della BBC, dal 7 ottobre su X la parola “Pallywood” ha registrato il picco più alto nel numero di citazioni degli ultimi dieci anni.
Nel frattempo, su TikTok, influencer israeliani hanno sfruttato i trend più popolari per dileggiare le sofferenze palestinesi. Una delle vicende accusate di essere una farsa risale al 13 ottobre 2023, quando il Jerusalem Post, su X, ha incolpato Hamas di aver inscenato la morte di un bambino di quattro anni a Gaza usando una bambola. Il post è stato immediatamente rilanciato da diversi esponenti politici e diplomatici dello Stato ebraico, ma era tutto falso: il quotidiano ha dovuto rimuovere l’articolo e chiedere pubblicamente scusa.

È stato poi il turno dell’attacco aereo avvenuto nel cortile dell’ospedale al-Aqsa il 14 ottobre 2024, dove era allestita una tendopoli di sfollati. Il raid, verificato da diversi media e con filmati circolati online, è stato accusato di essere un falso, e che le immagini diffuse da giornalisti e civili fossero state create ad hoc. Tra le centinaia di post pubblicati da Gazawood e Pallywood, troviamo anche il caso della giornalista palestinese Bayan Abu Sultan, che in una notizia ripresa da Libero era stata accusata di aver inscenato il fatto di essere stata vittima di un attacco israeliano a Gaza.
Obiettivo: negare la realtà dei fatti
La strategia non è nuova: negare, delegittimare, isolare emotivamente, dubitare di tutto fino a non credere più a nulla. Nel caso di Gaza, si tratta di un processo su scala industriale con l’obiettivo di dimostrare che non è avvenuto nulla, mentre ogni vittima si trasforma in una persona sospetta. E non è un dettaglio: il mondo che guarda, se non vede, finisce per non empatizzare. Acconsente. Giustifica. Ogni immagine di bambini, ogni frame di ospedali distrutti, diventa elemento di propaganda bellica antipalestinese. Il risultato è una vittoria morale per chi orchestrava l’attacco: se non esiste empatia, non esiste colpa.
Sul profilo social di Hossam Shabat, il 208º giornalista ucciso da Israele a Gaza citato in apertura di questo articolo, è comparso un messaggio dopo il suo omicidio: «Se state leggendo questo, significa che sono stato ucciso – molto probabilmente preso di mira – dalle forze di occupazione israeliane. […] Non smettete di parlare di Gaza. Non lasciate che il mondo distolga lo sguardo».

Chi si volta dall’altra parte, o addirittura nega la realtà, costruisce un muro tra le vittime e l’opinione pubblica. In quella somma di pixel e commenti che trasudano odio, viene cancellato il nome dell’uomo sotto le macerie, della madre con un bambino in braccio, del giornalista assassinato.
L’indifferenza ai morti è un’altra forma di morte. Chi nega il genocidio – negando bombardamenti, bambini uccisi, intere famiglie sbriciolate – commette un crimine che non ha bisogno di bombe, e che si nutre di superficialità e ignavia: basta una tastiera, un account social, una foto fuori contesto e milioni di spettatori.
Grande Enrica … Giornalista vera ….