Si è chiusa a Nizza la terza Conferenza delle Nazioni Unite sull’Oceano, un appuntamento cruciale per il futuro del Pianeta che ha riunito oltre 60 capi di Stato e di governo e complessivi 15.000 partecipanti tra esperti, rappresentanti di ONG, scienziati e attivisti. Il bilancio, come spesso accade in questi grandi vertici multilaterali, è fatto di promesse solenni e slanci ambiziosi, ma soprattutto di contraddizioni, ritardi e pesanti assenze. Tra queste, quella dell’Italia, presente formalmente ma di fatto assente nelle decisioni strategiche e contraria a qualsiasi potenziale positivo passo in avanti.
«La scienza è chiara, i fatti sono evidenti: abbiamo il dovere di mobilitarci», ha affermato con fermezza il presidente francese Emmanuel Macron in apertura dei lavori. E in effetti, il quadro tracciato dagli esperti non lascia spazio a esitazioni: oceani surriscaldati e acidificati, inquinati da plastica e sostanze chimiche, svuotati dalla pesca eccessiva, devastati dalle attività industriali e minacciati dalla nuova frontiera delle estrazioni minerarie profonde. Il futuro della salute marina è in pericolo e con esso quello dell’equilibrio climatico, della sicurezza alimentare globale e dell’economia di milioni di persone. Eppure, nonostante l’urgenza, il risultato finale della Conferenza è stato definito dalle stesse Nazioni Unite come «una promessa fragile, ma condivisa». Il Piano d’azione di Nizza, cuore politico dell’incontro, è un documento non vincolante che ribadisce l’obiettivo “30×30”, proteggere il 30% degli oceani entro il 2030, e raccoglie oltre 800 impegni volontari da parte di governi, agenzie ONU e società civile.
Tra le iniziative più concrete spicca quella dell’Unione Europea, che ha annunciato lo stanziamento di un miliardo di euro per finanziare 50 progetti incentrati sulla tutela degli ecosistemi marini, la pesca sostenibile e la ricerca scientifica. Un terzo dei fondi sarà dedicato ad attività in aree particolarmente vulnerabili, e 40 milioni andranno al programma Global Ocean, che si avvicina alla soglia di ratifica con il supporto di quasi 60 Paesi. La Polinesia francese, dal canto suo, si è impegnata a creare la più grande area marina protetta del mondo. La Germania ha lanciato un piano per la bonifica delle munizioni nei mari del Nord, mentre la Spagna ha istituito cinque nuove aree marine protette. Nuova Zelanda, Indonesia, Canada e Panama hanno aderito a nuove alleanze internazionali, mentre 95 Paesi hanno firmato una dichiarazione congiunta per un trattato globale contro l’inquinamento da plastica.
Proprio la plastica è stata uno dei temi centrali del vertice, con un forte appello a concludere con successo i negoziati per un trattato internazionale vincolante che dovrebbe trovare un punto di svolta a Ginevra, nel prossimo round di agosto. Sul fronte pesca, l’attenzione è andata all’accordo sui sussidi dannosi promosso dall’Organizzazione Mondiale del Commercio, ratificato da oltre 100 Paesi, ma che per l’entrata in vigore richiede ancora una decina di adesioni. In questo contesto, il WWF ricorda che senza la fine dei sussidi alla pesca illegale e sovrasfruttata non sarà possibile garantire la sostenibilità a lungo termine delle risorse ittiche. Altrettanto centrale il dibattito sul deep sea mining, l’estrazione di minerali dai fondali oceanici per cui 37 Paesi hanno chiesto una moratoria, alla quale l’Italia ha scelto di non aderire. La richiesta di fermare queste attività, considerate «la minaccia emergente più pericolosa per gli oceani» secondo Greenpeace, resta priva di una convergenza globale. L’estrazione mineraria dai fondali oceanici profondi, in nome della transizione energetica, rischia di distruggere ecosistemi ancora poco conosciuti ma fondamentali per l’equilibrio del pianeta. Le attività di estrazione potrebbero infatti generare danni irreversibili a habitat che impiegano millenni a rigenerarsi, mettendo in pericolo specie rare e aumentando il disturbo e l’inquinamento nelle profondità marine. Il presidente del Consiglio dell’UE António Costa – in rappresentanza di tutti gli Stati membri dell’Unione – ha però sostenuto per la prima volta la moratoria sull’estrazione mineraria in acque profonde. Gli Stati Uniti, assenti al vertice, sembrano invece intenzionati ad accelerare lo sfruttamento minerario dei fondali, aprendo la strada alla compagnia The Metals Company, con una mossa unilaterale che preoccupa gli osservatori internazionali. Forse anche per non scontentare gli alleati d’oltreoceano, l’Italia ha scelto nel complesso un profilo di basso livello, non ha presentato nuove iniziative, né ha firmato alcuno degli accordi chiave. Manca ancora la ratifica del Trattato sulla biodiversità marina in alto mare, uno strumento promosso in questi giorni a Nizza e considerato fondamentale per raggiungere l’obiettivo del 30% di oceani protetti. Dei 60 Paesi necessari per l’entrata in vigore dell’accordo, hanno firmato in 51. L’Italia non è tra questi. «Il nostro Paese è ben lontano dal raggiungere il target del 30% entro il 2030 – spiega Valentina Di Miccoli di Greenpeace Italia – e meno dell’1% dei mari italiani è oggi davvero protetto da misure efficaci». Secondo dati del National Biodiversity Future Center, solo il 15,5% delle nostre aree marine gode di una qualche forma di tutela, ma le ONG denunciano che molte di queste sono “parchi di carta”, prive di regolamenti vincolanti o controlli reali.
In definitiva, la Conferenza di Nizza ha rilanciato l’urgenza di proteggere gli oceani, producendo però come al solito deboli impegni a causa del mancato slancio politico. I nodi cruciali, come l’entrata in vigore del Trattato sulla biodiversità marina in alto mare, la moratoria sull’estrazione mineraria e un trattato vincolante contro l’inquinamento da plastica, restano così sospesi. Il multilateralismo sembra resistere, ma con fatica, in un contesto geopolitico segnato da tensioni e nazionalismi. Per l’Italia, questa era un’occasione per assumere un ruolo attivo in una sfida globale che riguarda anche il Mediterraneo. Invece, ha scelto il silenzio o l’opposizione. La non-pervenuta Roma resta quindi ai margini di un dibattito che non può più permettersi ritardi. Perché, come ha ricordato il presidente del Costa Rica, co-ospite del vertice, «l’oceano ci sta parlando, sta a noi decidere se ascoltarlo davvero».