lunedì 2 Dicembre 2024

Prima i cittadini, poi la città

Quello del titolo non è uno slogan politico ma il risultato di una considerazione etimologica. La parola italiana “città” deriva dal latino civitas, ma civitas a sua volta deriva da civis, “cittadino”. Prima dunque viene il cittadino, segue poi la città, con una precisazione che il glottologo Émile Benveniste ha mostrato molto bene nel suo articolo Due modelli linguistici della città (1970, trad. it. in Problemi di linguistica generale, II, Il Saggiatore, Milano). Il civis non è esattamente l’abitante di una città ma, spiega Benveniste, «è civis per me colui per il quale io sono civis». Essere cittadino allora vuol dire esserlo io per qualcuno che, a sua volta, lo è per me; essere cittadino significa trovarsi e riconoscersi in una reciprocità, non in una appartenenza.

Ne deriva una situazione antropologica che l’urbanizzazione indiscriminata ha calpestato, cancellando questa originaria matrice di socializzazione, la quale tuttavia alcune attività di vicinato, di solidarietà, di reciproco aiuto negli spazi urbani, non soltanto di periferia, stanno valorizzando.

Per di più, la vecchia opposizione città/campagna non esiste più e vi è tendenzialmente un’unica struttura sociale, con qualche margine in più per la familiarizzazione e l’amicizia che si possono riscontrare nei centri minori lontani dalle città, nelle cittadine o nei paesi di una certa dimensione.

Affermava qualche anno fa lo storico medievista Jacques Le Goff, «il cittadino è ormai dovunque. La città ha perso il ruolo di un tempo, deve trovarne uno nuovo. Deve definirsi in opposizione a qualcos’altro in un mondo che si avvia a diventare tutto uguale. Il nuovo ruolo sarà culturale: bisogna rifondare le vecchie città proprio partendo dalla loro singolarità in un mondo omogeneo».

Ma la città non può essere un museo, aggiungeva Le Goff in questa intervista (pubblicata ne L’Europeo, n. 12, 2009). Non può essere un museo perché non può ridursi a meta di ondate turistiche. Cultura deve invece significare, per chi vi abita, memoria condivisa, memoria di tradizioni, di origini ma anche attività simbolica di integrazione, di moltiplicazione di reali occasioni di incontro, di partecipazione, cioè di vera reciprocità, lungo una costante rimodulazione dell’identità della città.

Circa vent’anni prima avevo seguito Le Goff in una videoconferenza organizzata dall’Università di Bologna, dove si domandava «se la telematica non contribuisca anche a certe forme di distruzione della città. Mi sembra che la telematica spinga nella direzione della dilatazione urbana a cui stiamo assistendo, sulla spinta di quello che l’automobile e la televisione hanno prodotto, mettendo fine all’opposizione plurisecolare tra cultura urbana e cultura rurale» (La città: dallo spazio storico allo spazio telematico, a cura di P. Bonora, Seat, Torino 1991). Sembra in particolare che «l’ingegneria del traffico abbia soppiantato l’urbanistica: la rete stradale e quella dei trasporti su rotaie… finiscono col costituire l’elemento urbano di maggior rilievo teorico e concettuale» (J. Rykwert, L’idea di città, Einaudi, Torino 1981). 

I tentativi di dar forma all’ambiente dell’uomo non devono in ogni caso farci dimenticare il modello arcaico della fondazione delle nostre città occidentali, marcate dal mito del labirinto, a partire dallo schema elementare romano del cardo e del decumano, i due assi portanti perpendicolari della rete stradale che venivano rappresentati con il simbolo di una croce inscritta in un cerchio, il cerchio delle mura. In questo archetipo è racchiuso il tema di base dell’incrocio, l’incontro, lo scambio. Il tema declinato in custodia e difesa, da una parte, in ospitalità e reciprocità dall’altra.

Le città, inoltre, possono avere una personalità: molti riconoscono in Milano, Berlino, Casablanca, Detroit, Lima, Capetown, Tokyo dei tratti caratteriali ma questa personalizzazione non deriva semplicisticamente da come sono i suoi abitanti, tra di loro indifferenziati, quasi non esistessero differenze tra «la città dei ricchi e la città dei poveri», titolo di un noto pamphlet di Colin Ward (1996). Tuttavia anche questa importante definizione mi pare superata, benché continui a imperversare la «religione dei valori del mercato». 

Sono intercorsi troppi interventi per vanificare le linee mobili dello spazio-tempo, troppi programmi di omologazione, di alienazione, di spersonalizzazione. Diventa sempre più urgente pensare: tu sei il mio civis, io non sono il tuo nemico

[di Gian Paolo Caprettini]

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