sabato 27 Aprile 2024

Cosa cambia dopo la risoluzione ONU per il cessate il fuoco a Gaza

Nel pomeriggio di ieri, 25 marzo, per la prima volta dall’inizio dell’aggressione israeliana a Gaza, il Consiglio di Sicurezza ONU ha approvato una risoluzione che chiede il cessate il fuoco nella Striscia di Gaza. Il testo è passato con 14 voti a favore e una astensione, quella fondamentale degli Stati Uniti, che hanno rinunciato ad esercitare il diritto di veto, divenendo così la prima risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite che chiede una tregua quantomeno provvisoria, a quasi sei mesi dall’inizio dell’aggressione e dopo più di 32 mila vittime civili tra i palestinesi. Nel testo, i 15 membri del Consiglio si limitano a chiedere un cessate il fuoco fino alla fine del Ramadan, la festività sacra per l’Islam che terminerà il 9 aprile, e un più ampio accesso agli aiuti umanitari, oltre al rilascio di tutti gli ostaggi ancora nelle mani di Hamas. Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, ora più isolato politicamente che mai, ha reagito con immediato sdegno al fatto che gli Stati Uniti non abbiano posto nuovamente il veto sulla risoluzione, mentre Washington dal canto suo ha commentato che il provvedimento non è vincolante e ha cercato di minimizzarne la portata. In realtà. il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha potere pressoché illimitato in caso di violazione della pace. Al contrario di quanto affermato da Washington, le sue risoluzioni sono vincolanti non solo per tutti gli Stati membri del Consiglio, ma anche per tutti i Paesi che aderiscono alle Nazioni Unite.

Se il Consiglio di Sicurezza decide qualcosa (dall’imposizione di sanzioni a quella di una tregua), l’ordine deve essere portato a termine. Tuttavia, le difficoltà nel mettere in pratica quanto stabilito emergono per via dello scontro con il principio di sovranità nazionale, considerato pressoché inviolabile. Nel corso degli anni, d’altronde, Israele si è dimostrato sistematicamente sordo a ogni richiesta dell’ONU che chiedeva di interrompere le proprie politiche espansionistiche in Palestina, a partire da quelle che dichiaravano illegali gli insediamenti in Cisgiordania. E la “comunità internazionale” non ha mai preso iniziative sostanziali per farle rispettare. Tuttavia se in passato era l’Assemblea dell’ONU a condannare Israele (ovvero il consesso dove siedono tutte le nazioni e le risoluzioni vengono adottate a maggioranza semplice, senza avere carattere esecutivo), ora l’intimazione a cessare il fuoco arriva dal più importante Consiglio di Sicurezza (dove siedono Cina, Francia, Regno Unito, Russia, USA e altri 10 membri a rotazione) le cui risoluzioni hanno valore di legge internazionale e sono vincolanti.

Sabri Saidam, membro del Comitato centrale di Fatah, ha definito la bozza «un passo nella direzione giusta che porta alla fine del massacro in corso in Palestina» e aggiunto che «il consenso di cui siamo stati testimoni oggi dovrebbe aprire la strada al pieno riconoscimento dei tanto attesi diritti dei palestinesi e all’indipendenza dello Stato di Palestina». Dichiarazioni simili sono state rilasciate anche dal ministero degli Affari Esteri palestinese. Hamas, che ha accolto con favore la risoluzione, ha però anche fatto sapere ieri sera che manterrà la sua posizione originaria in merito al rilascio degli ostaggi, che prevede la richiesta di un cessate il fuoco permanente e un ritiro militare completo di Israele, richieste che Tel Aviv ha già bollato più volte come irricevibili – sottolineando che la campagna militare su Gaza continuerà anche se verranno rilasciati tutti gli ostaggi. Alcuni mezzi di informazione ebraici, riporta il Times of Israel, avrebbero riportato che Gerusalemme sarebbe disposta ad ammorbidire la propria posizione nell’ambito dei negoziati in corso a Doha e a rilasciare qualche centinaio di prigionieri palestinesi in più rispetto a quanto previsto, ma per il momento le possibilità di accordo rimangono basse. In ogni caso, la conseguenza immediata della decisione dell’ONU di ieri è stato lo stop ai colloqui tra Washington e Tel Aviv in merito all’invasione militare di terra di Rafah.

Secondo quanto spiegato da alcuni analisti ad al Jazeera, un primo passo importante per l’effettiva messa in pratica della risoluzione sarebbe il blocco del trasferimento di armi verso Israele da parte degli Stati Uniti. Proprio in queste ore, infatti, il segretario di Stato USA Blinken ha incontrato il ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant, al quale ha ribadito il sostegno nella lotta per contrastare Hamas e l’opposizione ad una operazione di terra a Rafah, la citta situata nella parte meridionale della Striscia di Gaza dove al momento si rifugiano circa un milione e mezzo di sfollati palestinesi. Secondo alcuni media israeliani e americani, citati da al Jazeera, i due avrebbero dovuto anche discutere della consegna, da parte degli Stati Uniti, di una lunga lista di armi desiderate da Israele.

Il cambiamento della politica degli Stati Uniti, principale alleato di Israele, nei confronti di Tel Aviv è in ogni caso sempre più evidente. All’inizio dell’offensiva contro Gaza, Washington aveva infatti dichiarato esplicitamente di non avere intenzione di sostenere un cessate il fuoco, mentre la scorsa settimana sono stati proprio gli Stati Uniti ad avanzare una proposta di tregua di circa sei settimane, che prevedesse la protezione dei civili con l’aumento della fornitura di aiuti umanitari e un accordo sugli ostaggi tra Israele e Hamas. La bozza, affossata poi da Cina e Russia, conteneva anche disposizioni in merito agli sforzi diplomatici per un cessate il fuoco permanente.

Il mancato veto alla risoluzione di ieri non segna necessariamente una frattura tra Israele e gli Stati Uniti (che solamente lo scorso novembre avevano approvato un pacchetto da 14 miliardi di dollari di aiuti a Israele per combattere Hamas). Dal canto suo, Netanyahu ha dichiarato di avere intenzione di ignorare la risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Ora starà alla cosiddetta comunità internazionale l’onere di dimostrare di saper fermare le velleità espansionistiche di Tel Aviv.

[di Valeria Casolaro]

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