domenica 28 Aprile 2024

L’Egitto a tredici anni dalla rivoluzione tradita di piazza Tahrir

Cairo, 25 gennaio 2011. Sui social, alcuni attivisti egiziani hanno organizzato una manifestazione antigovernativa. È prevista per quel giorno, con ritrovo in piazza Tahrir, snodo centrale della capitale egiziana. Nel mondo arabo si respira aria di cambiamento. Sono passate poche settimane da quando, il 17 dicembre 2010, Mohamed Bouazizi si è dato fuoco a Sidi Bouzid, in Tunisia. Protestava contro la confisca delle merci e il ritiro della licenza. Il suo gesto sarà la scintilla che accenderà un’ondata di rivolte popolari, che si spanderanno presto a macchia d’olio per tutto il Nordafrica: è quella che chiameranno “la primavera araba”. Lo scrittore siriano Shady Hamadi lo ha descritto come il momento che «ha cambiato la nostra storia moderna», pari alla Rivoluzione parigina del 1789. Quel «grido di libertà» è presto arrivato fino in Egitto. Esattamente un mese dopo, il 17 gennaio 2011, Abdel Hameed, proprietario di un ristorante, si cosparge di benzina e si dà fuoco di fronte al Parlamento egiziano. Protesta perchè il sistema governativo di assegnazione del pane non tiene conto delle famiglie numerose, e la sua non ne riceve abbastanza. Le proteste egiziane sembrano per la prima volta cariche di un vero potere rivoluzionario, in grado di ribaltare l’ordine costituito e crearne uno nuovo, che restituisca il potere al popolo. Oggi, a 13 anni di distanza, di quel momento non rimangono che le speranze infrante e le promesse tradite.

Il 25 gennaio in piazza Tahrir ci sono 25 mila persone. Altre migliaia si accalcano, poco a poco, in altre zone della città. È una folla arrabbiata, che chiede la riforma dell’intero sistema politico e sociale. La protesta, inizialmente pacifica, si trasforma presto in uno scontro aperto tra cittadinanza e forze militari. Il regime di Hosni Mubarak, in vigore da ventinove anni (e in procinto di diventare una “repubblica monarchica”, col passaggio di consegne al figlio Gamal), non regge a tre settimane di sommosse e l’11 febbraio il presidente rassegna le dimissioni. Il Paese sembra sul procinto di scrivere una nuova pagina della sua storia. Ben presto, tuttavia, diventa chiaro che quella prospettiva non è che illusoria. Nel giro di due anni, dopo un governo di transizione, un presidente (democraticamente eletto) destituito e il reinsediamento del potere militare, l’8 giugno 2014 sale al potere il militare Abdel Fattah al-Sisi. Il suo è un governo autoritario, che reprime violentemente il dissenso e fa ampio uso dell’intimidazione politica e giudiziaria. L’uso strumentale della religione ha una dimensione centrale e si insinua in ogni aspetto della vita pubblica, in primo luogo nella politica. Tre anni dopo la rivoluzione che sembrava aver riscritto le sorti dell’Egitto, nulla è cambiato e il Paese è scivolato in una crisi economica e sociale che non accenna a migliorare.

Nei dieci anni in cui al-Sisi è stato al potere, il debito pubblico egiziano è cresciuto di quattro volte, sfiorando il 90% del PIL. La crisi economica, con la ripetuta svalutazione della valuta locale e l’inflazione galoppante (al 36,4% nel novembre 2023) ha spinto diverse aziende a chiudere i propri negozi ed abbandonare il Paese. Progetti faraonici quali la costruzione della Nuova Capitale Amministrativa sono stati accantonati per mancanza di fondi, mentre patrimonio storico e fabbriche sono stati messi all’asta, così come due isolotti del Mar Rosso, venduti all’Arabia Saudita, e le immense terre agricole delle valli del Nilo, ora di proprietà degli Emirati Arabi. Persino il Canale di Suez è stato aperto agli investimenti privati, pur di far fronte alla carenza di valuta. Le elezioni presidenziali, inizialmente previste per la primavera 2024 (e che hanno visto la vittoria schiacciante di al-Sisi) sono state anticipate allo scorso dicembre proprio per poter anticipare la messa in pratica delle riforme economiche necessarie per mantenere il Paese a galla. In questa situazione, il 30% della popolazione (ovvero 35 milioni di cittadini, su un totale di circa 105 milioni) vive al di sotto della soglia di povertà.

Come se non bastasse, nel Paese continua a respirarsi un pesante clima repressivo. Tra ottobre e novembre, in previsione delle elezioni presidenziali, circa 200 persone sono state arrestate per aver diffuso volantini contenenti “notizie false”, aver messo in atto presunti atti di terrorismo o aver preso parte a manifestazioni non autorizzate. Quando queste ultime hanno luogo, poi, l’esercito non esita a utilizzare proiettili veri per disperdere chi vi prende parte. Decine sono i cittadini che si trovano in condizioni di detenzione preventiva, per una o più delle accuse prima citate. Sono almeno 60 mila i prigionieri politici rinchiusi nelle carceri egiziane, per frasi pubblicate sui social o accuse simili: il dato, tuttavia, è incerto, perchè il governo si rifiuta di fornire dati precisi in merito alla popolazione detenuta. Di recente, l’Egitto ha iniziato a condurre le udienze per il rinnovo della detenzione tramite videoconferenza, aumentando l’isolamento dei prigionieri e limitando la possibilità che possano emergere eventuali abusi e violenze loro inflitti.

Eppure, a fronte di tutto ciò, al-Sisi gode dell’appoggio delle potenze occidentali, Stati Uniti ed Unione Europea in primis. Il motivo ufficiale è non destabilizzare ulteriormente la regione. Il motivo ufficioso giace al largo delle coste egiziane, e ha la forma di imponenti giacimenti di gas.

Hamadi ha scritto che, a seguito di una rivoluzione, bisogna vigilare attentamente affinchè ad essa non segua la restaurazione. La responsabilità di tale compito, nel caso delle rivoluzioni arabe, spettava tanto alla popolazione quanto ai governi occidentali. Un compito del quale, in Egitto, nessuno si è fatto carico. Il risultato è oggi sotto gli occhi di tutti.

[di Valeria Casolaro]

L'Indipendente non riceve alcun contributo pubblico né ospita alcuna pubblicità, quindi si sostiene esclusivamente grazie agli abbonati e alle donazioni dei lettori. Non abbiamo né vogliamo avere alcun legame con grandi aziende, multinazionali e partiti politici. E sarà sempre così perché questa è l’unica possibilità, secondo noi, per fare giornalismo libero e imparziale. Un’informazione – finalmente – senza padroni.

Articoli correlati

1 commento

  1. Tono direi completamente sbagliato da servi degli Imperialisti, se in famiglia accettammo di diventare Cavalieri di Gerusalemme quando questa era dell’Egitto, non significa che siamo disponibili ora, arrangiatevi ma cambiate tono che l’esercito Egiziano è molto, ma molto più forte di quello Italiano, questi sono i fatti su cui basare le vostre parole.

Iscriviti a The Week
la nostra newsletter settimanale gratuita

Guarda una versione di "The Week" prima di iscriverti e valuta se può interessarti ricevere settimanalmente la nostra newsletter

Ultimi

Articoli nella stessa categoria

Grazie per aver già letto

10 dei nostri articoli questo mese.

Chiudendo questo pop up potrai continuare la lettura.
Sappi però che abbiamo bisogno di te,
per continuare a fare un giornalismo libero e imparziale.

Clicca qui e  scopri i nostri piani di abbonamento e supporta
Un’informazione – finalmente – senza padroni.

ABBONATI / SOSTIENI