Comunicare è una delle strategie ecologiche alla base della sopravvivenza e del successo di una specie. Avvalendosi di strumenti più o meno complessi, ogni entità biologica lo fa a modo proprio. L’Homo sapiens, da sempre, sfrutta la lingua. Per definizione, stiamo parlando di una “forma storicamente determinata attraverso il quale gli appartenenti a una comunità si esprimono e comunicano tra loro mediante l’uso di un determinato linguaggio, ovvero un insieme di segni scritti e/o parlati”. Una descrizione sicuramente utile, questa fornita dal linguista Gian Luigi Beccaria, tuttavia semplifica di molto il concetto. Difatti definire cos’è una lingua, o quali caratteristiche rendano un preciso modo di comunicare tale, è ancora una sfida aperta. Basti pensare che il database Ethnologue, nel quale è contenuta la conoscenza relativa al patrimonio linguistico dell’umanità, oggi stima l’esistenza di 7.168 lingue, mentre nel 2009 ne contava 6.912. Indubbiamente, in quasi 15 anni, sono stati raffinati i metodi di classificazione, ma una variazione di oltre 250 entità linguistiche conferma anche quanto le lingue e il concetto stesso di lingua siano mutevoli.
Certo è che la diversità linguistica umana, frutto di migliaia di anni di evoluzione e coevoluzione, è allo stato attuale notevole. Allo stesso modo è altrettanto sicuro che le oltre settemila lingue oggi note non sono uniformemente parlate dagli abitanti umani del globo. Il 97% della popolazione mondiale, infatti, parla appena il 4% delle lingue conosciute. In altre parole, il restante 3% dell’umanità parla il 96% delle lingue esistenti. Di conseguenza, anche in termini di distribuzione geografica il quadro è ben lontano dall’essere omogeneo. Circa il 43% delle lingue totali è parlato in Asia e nell’area dell’Oceano Pacifico, il 27% in Africa, il 13% nelle Americhe e meno del 4% in Europa e nel Medio Oriente. Il risultato è che circa cinquemila lingue, oltre il 70% del totale, si concentrano in soli 22 Paesi. Comunque si vogliano leggere questi dati, chiaro è che il linguaggio umano è, forse più di ogni altra cosa, multipolare. Nonostante il colonialismo prima e la globalizzazione poi, l’elevata diversità linguistica sopravvissuta fino ai nostri giorni conferma infatti la spiccata resilienza del sistema di comunicazione degli esseri umani.
Anche le lingue rischiano l’estinzione
Nel contesto dei mutamenti globali, tuttavia, non si può non menzionare il rischio di estinzione cui anche le lingue umane sono sottoposte. Oggi, circa il 42% delle lingue è considerato in pericolo, mentre il restante 58% è ritenuto stabile. Una lingua – secondo il sistema di misurazione di vitalità EGIDS – è stabile quando tutti i bambini di una determinata comunità continuano a impararla e ad utilizzarla. Se questo non è più vero, allora una lingua stabile viene considerata a rischio. A detta dell’Atlante delle lingue in pericolo, negli ultimi 70 anni, almeno il 4% è già scomparso. Inevitabilmente, le dinamiche imperialiste e geopolitiche hanno infatti sottoposto diverse popolazioni umane, specie quelle indigene, a più di una pressione, al punto da alterarne irreversibilmente il modo di comunicare. Oggi, per lo stesso principio, oltre 500 lingue vanno considerate a serio rischio di estinzione.
Nel complesso, poche dominano e, come nel caso dell’inglese o del cinese, sono destinate a rivestire un ruolo sempre più centrale nella comunicazione umana globalizzata. Tuttavia, per quanto abbattere le barriere comunicative tra tutti gli esseri umani del pianeta possa apparire in un certo senso attrattivo, perdere una lingua significa perdere un patrimonio culturale unico e insostituibile. «L’estinzione di una lingua – ha spiegato Matteo Santipolo, docente di Didattica delle lingue moderne all’Università di Padova – comporta una perdita di valori che quella lingua è in grado di trasmettere, e che altre lingue non sono in grado di fare. Va dunque presa in considerazione anche la questione etico-culturale: ogni lingua è un unicum, non solo in termini strutturali ma anche, e direi soprattutto, in termini culturali. Ogni lingua è veicolo di una diversa visione del mondo, quella che in filosofia viene detta weltanschauung. Quindi quando una lingua muore, muore anche una precisa visione del mondo. A mio parere, le lingue andrebbero salvate e valorizzate proprio in questa prospettiva».
Nell’atto pratico le cose sono però ben più complesse. Infatti – ha aggiunto Santipolo – «l’unico modo per mantenere viva una lingua è che questa venga effettivamente utilizzata da chi la parla e sia strumento di comunicazione nella quotidianità e nei contesti ufficiali». Le stime non sono rosee: entro il prossimo secolo oltre l’80% delle lingue si potrebbe estinguere. Secondo le stime più pessimistiche, la diversità linguistica umana sarà quindi rappresentata da appena 600-800 idiomi, di cui la gran parte nazionale o di origine coloniale. Per quanto l’allarmismo da una parte aiuti a favorire maggiori sforzi per invertire la rotta, non vanno però trascurate le tendenze attuali al multipolarismo e il potenziale effetto benefico in termini di conservazione linguistica.
Il valore delle lingue indigene
I fattori esterni condizionano la lingua che parliamo, la quale a sua volta dà forma al mondo che ci circonda. Il sapere culturale, l’ambiente naturale e l’Io umano si condizionano reciprocamente da millenni. La lingua, a sua volta da questi plasmata, è oggi la massima espressione di tale interdipendenza. Una lingua è quindi anche un deposito di conoscenza, tuttavia, sempre più rado. Nel mondo occidentale e tecnologico, tale funzione appare difatti sempre più erosa. Non si può dire altrettanto nel caso delle popolazioni indigene, per le quali il sapere tradizionale è ancora fortemente preservato nella ricchezza semantica delle loro lingue. Non sorprende quindi che la comunicazione orale indigena sia generalmente più complessa e segua degli schemi decisamente meno prevedibili.
Ad esempio, la lingua !xóõ, una degli idiomi parlati dai boscimani del deserto del Kalahari, possiede oltre 160 tipi di suoni, mentre l’inglese ne usa appena 42. Tali caratteristiche intrinseche, combinate a decenni di colonizzazioni, persecuzioni ed emarginazione, hanno fatto sì che oggi le lingue indigene siano proprio quelle più a rischio. A complicare le cose c’è poi il fatto che a parlarle siano spesso comunità remote e che molte non hanno una forma scritta. A dirla tutta, circa la metà delle lingue del mondo non ha una forma scritta. «Le lingue non scritte sono ricche nella tradizione orale – scrive l’organizzazione Survival International, impegnata nella tutela delle lingue indigene – storie, canzoni, poesie e rituali tramandati di generazione in generazione rimangono straordinariamente coerenti e affidabili nel corso del tempo. Gli scienziati stanno rinvenendo sempre più prove di eventi, accaduti migliaia di anni fa, che sono stati documentati e preservati nella narrazione indigena, raccontati e conservati in modo affascinante nel corso di centinaia di generazioni». Un’ulteriore conferma di quanto il linguaggio umano sia estremamente variegato e tutt’altro che limitato alla parola parlata. Ad esempio, vi sono lingue africane prodotte dal suono di tamburi tradizionali, ci sono inoltre ben settanta lingue indigene che vengono esclusivamente fischiettate.
Così, al fine di sensibilizzare sull’importanza di questo patrimonio linguistico unico, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha proclamato il decennio internazionale delle lingue indigene per il periodo 2022-2032. Non è infatti più accettabile limitare le possibilità di una popolazione di utilizzare la propria lingua, il che, tra l’altro, comporta la collaterale limitazione di numerose libertà, tra cui quella di espressione, di pensiero e di opinione, nonché impedisce l’accesso all’istruzione, alla salute, all’informazione, alla giustizia e ad un’occupazione dignitosa. Inoltre – come ha sottolineato il presidente dell’Assemblea generale ONU, Csaba Kőrösi – «dal momento che le popolazioni indigene custodiscono la stragrande maggioranza della biodiversità esistente al mondo, perderne le lingue significherebbe perdere anche conoscenze chiave per lo sviluppo di soluzioni innovative per la tutela della diversità biologica e per combattere la fame e i cambiamenti climatici».
Tutelare le lingue significa tutelare la biodiversità
Il 75% delle proprietà medicinali di circa 3.500 piante presenti in Amazzonia, Nord America e Nuova Guinea è noto in una sola lingua. A metterlo nero su bianco di recente sono stati dei ricercatori dell’Università di Zurigo, i quali hanno quindi sottolineato che, se le lingue delle comunità indigene dovessero sparire, verrebbe meno un sapere in grado di favorire un uso sostenibile delle risorse naturali, oltreché utile a definire nuove strategie di conservazione. Non a caso, secondo un’analisi pubblicata nel 2017, il 70% delle lingue parlate nel mondo è ubicato in luoghi del pianeta ricchi di diversità biologica. La ricerca, allo stesso modo, ha evidenziato quanto il declino della ricchezza linguistica e culturale sia correlato alla perdita di specie. In sostanza, ci sarebbe un legame tra la conservazione della biodiversità e la capacità dell’uomo di far convivere lingue e culture diverse.
Emblematico è il caso della Nuova Guinea, uno dei principali punti caldi della Terra sia a livello biologico che linguistico. Questa ospita infatti la terza maggiore foresta tropicale del pianeta, la quale sostiene circa l’8% della biodiversità totale conosciuta. Allo stesso tempo, l’isola preserva una diversità linguistica, quindi culturale, unica al mondo: solo in Papua Nuova Guinea si contano ancora 839 lingue parlate. Ad ogni modo, tale legame è evidente un po’ ovunque. Nel complesso, già nel 2012, fu sottolineato che nei 35 hotspot di biodiversità della Terra si parlano circa 3.200 lingue, quasi la metà della ricchezza linguistica totale. Non sorprende quindi che, proprio in occasione del Decennio Internazionale delle Lingue Indigene, si punterà presto a combinare le strategie di difesa della biodiversità con quelle di tutela e rivitalizzazione delle lingue indigene. D’altronde, è stata la stessa Convenzione sulla diversità biologica a riconoscere, già da decenni, il ruolo chiave della cultura indigena nella protezione delle specie animali e vegetali. Ognuna delle parti contraenti – si legge nell’articolo 8 del trattato internazionale del 1992 – “rispetterà, preserverà e manterrà le conoscenze, le innovazioni e le prassi delle comunità indigene e locali che incarnano stili di vita tradizionali rilevanti per la conservazione e l’uso sostenibile della diversità biologica, e favorirà la loro più ampia applicazione con l’approvazione e il coinvolgimento dei detentori di tali conoscenze, innovazioni e prassi, incoraggiando un’equa ripartizione dei benefici derivanti dalla loro utilizzazione”.
A distanza di oltre 30 anni, nonostante i contrastanti interessi economici e politici, la direzione intrapresa oggi rimarca questi principi. E in questo contesto, una rinnovata multipolarità socioeconomica può solo che fare del bene. Un quadro geopolitico diversificato potrebbe infatti tutelare la diversità in modo più efficiente, sicuramente, più di quanto la progressiva tendenza all’omogeneizzazione culturale non abbia fatto negli ultimi secoli.
[di Simone Valeri]
Residente da trentasette anni in un Paese straniero – benché vicinissimo geograficamente e culturalmente al nostro – ho vissuto in prima persona e con tutto me stesso il complesso e articolato ma necessario ed inevitabile processo di acculturazione alla lingua, agli usi e costumi e alla cultura del Paese ospitante. Inevitabile, perché a detta acculturazione – indipendentemente dalla sua intensità e pervasione – contribuiscono giorno per giorno semplici azioni come il fare la spesa, ascoltare i giornali radio, la vita sociale ecc. Necessario, non solo perché dopo soltanto un anno con il francese ho iniziato a lavorare in ambito culturale, ma perché da sempre considero la proprietà di linguaggio imprescindibile strumento della propria, articolata e ricca, espressività e quindi della mia sacrosanta e vitale libertà di pensiero, ovvero LIBERTA’ tout court a sua volta espressione e, oserei dire, specchio della mia individualità. Una libertà che mi ha anche portato a temere seriamente di perdere definitivamente le mie radici – ovvero la mia identità italiana – laddove invece l’acquisito bilinguismo (partendo da zero, cioè imparando il francese via via) mi consente di esprimermi e pensare agevolmente nelle due lingue, di praticare anche un inglese fluente e di rimanere intellettualmente molto attivo.
Racconto questa mia fondamentale e anche sofferta ma, ripeto, ricchissima esperienza perché credo di essere riuscito a trarre il meglio anzi addirittura a trascendere quell’esperienza quotidiana che, nelle sue varie forme, coinvolge oramai popoli ed individui dell’intero pianeta ed in particolare quelli come il nostro, perennemente in bilico tra le vestigia di un gloriosissimo e prestigioso passato che oggi ancora rivendichiamo come vetrina della nostra particolare identità (la Grande Bellezza e altri simili “tormentoni”) E lo tsunami dell’ipermodernità che travolge a appiattisce tutto quello che trova nel suo passaggio.
Il risultato è, a mio avviso, evidente benché, a quanto sembra, non interessi a nessuno rilevarne la presenza; magra consolazione, non è limitato al solo Bel Paese benché da noi tale fenomeno sia oramai endemico e praticamente patologico.
Mi riferisco a quell’immaginario collettivo ed individuale che, dal dopoguerra in poi, è stato linguisticamente (e quindi, culturalmente) contaminato dallo storytelling pubblicitario e televisivo, incollando il cittadino-utente-telespettatore alla magia narcotica ad alienante dello schermo, suppellettile che si è prima installato nel salotto buono per ritrovarcelo ora come propaggine degli arti superiori e del cervello.
In tale contesto, continuare ad illudersi che l’Italia sia ancora il Paese della lingua di Dante è una balla colossale, un delitto perpetrato a danni propri e della collettività tutta, una delle tante minch…..che circolano proprio in virtù dell’avvenuta distorsione tra la realtà e la sua rappresentazione.
E’ il Paese del Mondo Buono.
Articolo molto interessante che sollecita riflessioni anche sulla situazione e sul futuro della nostra bellissima lingua, espressione di un patrimonio storico e culturale immenso. L’ impoverimento delle lingue nella società globalizzata, purtroppo, è un fatto. Fanno riflettere le parole del professor Santipolo sulla questione etico-culturale e sulla perdita di valori che comporta l”estinzione di una lingua.
L’avvento dei sistemi di traduzione basati sulla IA sta portando un colpo mortale alle lingue imperiali. Andiamo verso un mondo in cui ognuno parlerà e studierà, se vuole, ciò che meglio crede. Bisognerà capire come riciclare tutti coloro che lavorano nel settore, traduttori, interpreti, insegnanti…
E intanto prosegue il depauperamento dell’italiano a favore del pidgin inglese, che per fortuna gli italiani imparano spesso in modo approssimativo. Noto per fortuna che spesso la nostra indolenza mette i bastoni fra le ruote ai satanisti del NWO.