venerdì 29 Marzo 2024

Il fast fashion al Parlamento Europeo, tra disappunto e proposte di legge

Pensare che il sistema moda possa cambiare solo grazie all’impegno delle persone, disposte a mettere in discussione e dare una svolta alle loro abitudini di consumo, è utopico. E alquanto riduttivo. Ci vuole un approccio sistemico, dove tutti gli attori coinvolti (istituzioni comprese) lavorano per raggiungere gli obiettivi comuni prefissati: rispetto dell’ambiente, rispetto delle persone, trasparenza. Parole e discorsi si sprecano spesso sull’argomento, non sempre supportati da azioni concrete o prese di posizione importanti, decise veramente a dare una svolta a questo settore. 

Eppure, lo scorso 31 maggio, il Parlamento Europeo riunito a Strasburgo, ha votato con 600 voti su 705, contro il fast fashion, o meglio, a favore di “Un’industria della moda che deve trasformare le sue pratiche dannose e rispettare i diritti sociali e l’ambiente”. La nuova norma per i prodotti tessili racchiude una serie di raccomandazioni per combattere la moda usa e getta, quella che porta alla discarica o a essere inceneriti quintali di abiti ogni giorno. 

Tanti i temi messi in campo, dalla necessità di una progettazione ecocompatibile a monte, fino al divieto di distruzione dei capi invenduti o restituiti; dalla direttiva sui rifiuti, che deve includere obiettivi utili per la raccolta, riutilizzo e riciclo del materiale tessile, fino all’introduzione di regole specifiche per fermare il greenwashing e permettere alle persone di fare scelte ponderate grazie alla disponibilità di maggiori informazioni. Ma anche una spinta concreta alla CSR (Corporate Social Responsabiliy, responsabilità sociale d’impresa) e affinché siano rispettati i diritti umani, quelli che sono quotidianamente calpestati in numerose fabbriche produttrici dislocate lungo tutta la catena di fornitura. 

Il testo prevede che le aziende dell’Unione Europea saranno ritenute direttamente responsabili delle violazioni dei diritti, umani e ambientali, che avvengono nelle aziende dei propri fornitori. Ovunque essi siano. Basta lavarsi le mani e fare finta di non vedere o sapere: ognuno sarà tenuto a controllare, identificare e porre rimedio ad aspetti critici, quali compensi inadeguati, lavoro minorile, sfruttamenti, impossibilità di ricorrere a rappresentanza sindacale o ricatti. Per fare ciò, oltre ad imporre ai fornitori un codice di condotta da sottoscrivere e firmare, sarà introdotto un piano operativo di “prevenzione, affinché certe pratiche non occorrano più (o comunque siano intercettate in tempi utili). 

Il fine ultimo di tutte queste proposte è quello di obbligare (per legge) produttori e grandi aziende di moda ad agire in modo più sostenibile. Consci del fatto che il pianeta e le persone sono più importanti dei profitti dell’industria tessile. Rimane da chiedersi se l’industria in questione sia d’accordo con quest’ultima affermazione…

La regolamentazione, però, è ancora in cammino (da marzo 2022) verso la sua versione definitiva, che dovrebbe arrivare entro la fine dell’anno (dopo che la versione approvata dal parlamento sarà passata nuovamente all’esame del Consiglio dell’UE e della Commissione dell’UE). 

Fast vs Slow

Nel frattempo che il Parlamento Europeo prova a regolamentare chi nella moda va troppo veloce, a Parigi, durante Change Now, evento dedicato a cercare soluzioni per la tutela del pianeta, si è puntata l’attenzione su chi s’impegna da qualche tempo per una moda lenta (che di fast fashion se ne parla sempre troppo, ma di slow fashion sempre troppo poco). Durante quest’occasione, i rappresentanti di dieci città europee, si sono riuniti per sottoscrivere la Dichiarazione Slow Fashion. Tra gli obiettivi di questo documento c’è la volontà di far emergere la moda lenta grazie ad operazioni di sensibilizzazione e valorizzazione di tutte quelle imprese che operano in maniera etica e responsabile. Imprese innovative che spesso si trovano in sofferenza per colpa di una concorrenza sleale o per mancanza di sostegni e sovvenzioni (che sistematicamente finiscono nelle mani sbagliate, o comunque di chi usa la sostenibilità come facciata). È proprio su questi che la dichiarazione fa leva, sottolineando la necessità di avere agevolazioni per queste attività a “impatto positivo”, creatrici di posti di lavoro locali e ideatrici, spesso, di nuovi modelli di business orientati alla circolarità e al non spreco. Anche in questo caso, per raggiungere i suoi obiettivi, la Dichiarazione Slow Fashion spinge affinché siano istituiti regolamenti nazionali e internazionali, con l’applicazione di norme particolarmente stringenti come il divieto di pratiche commerciali scorrette o l’aggiustamento delle emissioni di carbonio alle frontiere. Stringere con regole più ferree da una parte, agevolare e premiare chi già si adopera per una moda differente dall’altra.

L’importante, per vedere un cambiamento rilevante, è lavorare in sinergia, collaborando.

Perché certe crepe non si rattoppano con un po’ di stucco buttato qua e là: spesso è necessario buttare giù e ricostruire da capo, possibilmente su nuove fondamenta. E per farlo, è bene essere tanti, uniti e coordinati.

[di Marina Savarese]

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