mercoledì 30 Aprile 2025

La mappa delle infiltrazioni mafiose nei Comuni italiani

Il legame tra mafia e amministrazioni locali è una delle grandi piaghe che affligge il nostro Paese, le cui origini risalgono al periodo dell’Italia postunitaria. Il fenomeno si è sviluppato soprattutto a partire dal secondo dopoguerra, quando lo Stato e le ingerenze di forze straniere si servirono del fenomeno mafioso anche per orientare e dirigere la politica della penisola. È nota, infatti, la profonda compenetrazione tra Stato e mafia, soprattutto a livello locale, che ha permesso il prosperare dei diversi clan, i quali hanno progressivamente assunto sempre maggiore potere sul territorio. Da anni le amministrazioni locali rappresentano, sia a nord che a sud, l’ambito più esposto alle infiltrazioni mafiose. La sottovalutazione del fenomeno, nonché il suo diretto appoggio da parte di alcune fazioni politiche per diverse finalità, hanno fatto sì che l’infiltrazione della criminalità organizzata all’interno degli enti pubblici diventasse strutturale o sistemica e non un mero elemento occasionale. Soprattutto negli ultimi decenni il cambio del modus operandi delle organizzazioni criminali, che va di pari passo alla loro espansione al di fuori dei confini geografici tradizionali, ha determinato una crescente e apparentemente inarrestabile penetrazione all’interno delle amministrazioni. Messa in secondo piano la violenza, la criminalità organizzata ha promosso la corruzione a strumento principale attraverso cui perseguire affari illeciti e infiltrarsi negli apparati statali. Una trasformazione delle modalità operative funzionale ad allargare il campo di azione sia geograficamente (penetrando il nord Italia), sia economicamente (introducendosi nei settori degli appalti, dello smaltimento rifiuti e, oggi sempre più, della sanità e dell’assistenza). La criminalità organizzata ha dunque cambiato i suoi metodi di finanziamento affiancando, e in parte sostituendo, ai vecchi meccanismi di approvvigionamento illeciti – come l’estorsione e il commercio di stupefacenti – le attività imprenditoriali fino al punto di assumere il nome di mafia imprenditrice.

Le origini dei rapporti tra mafia, politica e istituzioni locali

[Il memoriale della strage di Portella della Ginestra.]
L’origine storica del rapporto tra mafia e istituzioni politiche locali va individuata nella seconda metà dell’Ottocento. Si sviluppò inizialmente nel sud Italia, dove era diffusa l’abitudine dei clan malavitosi di intrattenere fitti rapporti con gli esponenti politici soprattutto durante le campagne elettorali. Poté consolidarsi perché, da un lato, onorevoli e amministratori locali ne negavano l’esistenza stessa: «la mafia non esiste, è un’invenzione dei giornalisti» ripetevano spesso politici e giudici, come ricordava anche Giovanni Falcone; dall’altro, gli stessi che ne negavano pubblicamente la sussistenza, la sostenevano attivamente sottobanco. In questo modo una parte non irrilevante del sistema di potere italiano non solo non combatté la mafia dalle origini, ma contribuì al suo sviluppo, permettendone l’infiltrazione all’interno degli apparati amministrativi.

Uno dei primissimi dossier sul fenomeno è quello che riguarda il dottor Gaspare Galati, un medico siciliano che gestiva il Fondo Riella, un’azienda agricola di quattro ettari che produceva limoni e mandarini vicino Palermo. Il guardiano del Fondo, Benedetto Carollo, faceva parte della mafia dell’Uditore la quale basava il suo potere sulla gestione del racket della protezione di limoneti, costringendo i proprietari terrieri ad accettare i suoi uomini come fattori, guardiani e intermediari. Questi incassavano poi il 20-25 % del prezzo di vendita dei prodotti. Galati, dopo avere denunciato più volte le azioni intimidatorie di Carollo – che aveva anche tentato di uccidere il nuovo guardiano assunto dal medico siciliano – si rese conto che c’era una profonda compenetrazione e complicità tra la cosca, la polizia e le istituzioni. Il dossier fu poi consegnato ad una Commissione Parlamentare d’inchiesta che indagava sullo stato dell’ordine pubblico in Sicilia: l’inchiesta si svolse nell’estate del 1875 e fu la prima nella storia a fare emergere i rapporti tra mafia e istituzioni locali.

Ancora prima, nel 1867, il questore di Palermo, Giuseppe Albanese, affermò che i capi mafia si potessero utilizzare a tutela della sicurezza: l’idea era quella di collaborare con i mafiosi in modo da utilizzarli per procacciare voti e, all’occorrenza, come agenti di polizia ufficiosi. In cambio, si poteva offrire loro un concreto aiuto per controllare i loro nemici. Successivamente si scoprì che Albanese era un colluso. Arrivando alla prima metà del Novecento, invece, la strage di Portella della Ginestra – avvenuta il primo maggio 1947 – è considerata “la matrice di tutti gli avvenimenti di criminalità politica che si sarebbero svolti e intrecciati in Italia in oltre un quarantennio” ed è avvenuta con l’intreccio tra mafia locale, forze reazionarie dell’isola e pezzi dello Stato. Quel giorno si festeggiava la Festa dei Lavoratori e circa 2000 persone, per lo più contadini, si erano radunate nella vallata in provincia di Palermo per manifestare in sostegno dell’occupazione delle terre incolte e in opposizione allo strapotere dei latifondisti. Secondo lo stesso autore della strage, il bandito Salvatore Giuliano, l’eccidio era stato compiuto in funzione politica per fermare la rapida ascesa del comunismo tra le masse popolari.

Durante il processo emerse come nella sparatoria fossero coinvolte alcune importanti personalità politiche nonché il governo americano. Vennero infatti indicati “alcuni esponenti politici italiani e del governo degli Stati Uniti che avrebbero fornito armi e sostegno economico e logistico agli autori della strage”. A testimoniarlo furono diversi imputati nel processo sull’eccidio, tra i quali Antonino Terranova. Quest’ultimo “denunziò come organizzatori della strage l’onorevole Bernardo Mattarella [padre dell’attuale Presidente della Repubblica, ndr], l’onorevole Tommaso Leone Marchesano e il principe Gianfranco Alliata”. La fornitura di armi da parte degli Stati Uniti venne inoltre confermata dall’agente americano Michel Stern. La profonda compenetrazione tra mafia e politica è dunque confermata fin dalle origini del fenomeno mafioso. Oggi a cambiare non sono gli obiettivi – controllo del territorio e speculazione – ma solo le forme: la malavita si è trasformata e ha relegato allo stretto necessario l’uso della violenza per mimetizzarsi nella società civile operando così indisturbata grazie al metodo della corruzione. Quest’ultima è il primo segnale per individuare una potenziale penetrazione mafiosa, mentre, di contro, un’amministrazione pubblica che agisce in modo efficiente e trasparente rappresenta già di per sé un argine fondamentale a qualunque infiltrazione criminale.

Mafia e appalti

Il settore degli appalti è quello prediletto dalle organizzazioni mafiose in virtù della movimentazione di denaro che è in grado di produrre e per questo motivo è quello che ha permesso alla criminalità organizzata di fare un determinante salto di qualità. Gli appalti sono divenuti centrali negli affari delle mafie per via della loro capacità di piegare agli interessi della malavita proprio quelle regole pensate per favorire la concorrenza e la sana competizione tra imprese. Istituti come il subappalto, l’avvalimento, le associazioni temporanee o i consorzi si sono spesso mostrati un utile strumento per favorire l’infiltrazione mafiosa. Il boicottaggio della gara, per prolungare il contratto in essere, o le offerte di comodo – consistenti in un innalzamento artificioso dei prezzi di aggiudicazione – sono alcune delle condotte anomale che possono indicare l’esistenza di un cartello illecito fra imprese.

Nell’ultima relazione al Parlamento dell’Autorità nazionale anticorruzione, solo a titolo di esempio, si fa riferimento “a oltre tremila segnalazioni pervenute in tema di irregolarità negli appalti o nell’esecuzione delle grandi opere”. L’interesse della criminalità organizzata nel campo dei lavori pubblici, tuttavia, non è nuova, ma risale almeno agli anni Novanta: uno dei casi più noti al riguardo è quello del ciclo del cemento. In Sicilia, imprese controllate da Cosa nostra che si erano aggiudicate gli appalti, impiegavano cemento depotenziato nella costruzione di edifici e infrastrutture. La pratica ha comportato numerosi crolli in tutta l’isola e in altre regioni d’Italia: strade, ponti, viadotti, ferrovie, gallerie, case, centri commerciali e perfino scuole, ospedali e commissariati sono a rischio crollo perché costruiti con poco cemento e molta sabbia al fine di ottenere maggiori profitti.

La prima indagine al riguardo (risalente al 1991 e denominata Mafia e Appalti) ha contribuito a far luce sul legame mafia-politica-imprenditoria. Essa nacque dalla collaborazione tra Giovanni Falcone, il colonnello Mario Mori e il capitano Giuseppe De donno, ma è stata contrastata a tutti i livelli sia dagli ambienti mafiosi, che dalla politica e da alcuni personaggi della stessa procura di Palermo. L’ordinanza, infatti, fu congelata per 5 mesi dal procuratore capo di Palermo, Pietro Giammanco, che sosteneva l’inutilità dell’inchiesta. Quest’ultima fu data agli avvocati degli indagati, a politici e mafiosi di modo da avvisare gli interessati così che potessero scappare. Su 45 richieste di custodia cautelare di mafiosi, noti imprenditori nazionali, progettisti, faccendieri e un paio di politici palermitani, ne furono eseguite solo 5.

L’informativa Mafia e Appalti rivelava l’esistenza di un comitato d’affari illegale, riportando i nomi di società e persone coinvolte: il riferimento centrale per la gestione illecita di tutte le gare pubbliche in Sicilia era Angelo Siino, arrestato il 9 luglio 1991 e non a caso soprannominato “ministro dei Lavori pubblici” di Cosa Nostra. Siino – che divenne successivamente collaboratore di giustizia – spiegò che da un certo momento in poi Cosa Nostra non si accontentò più di estorcere tangenti, ma cominciò a fare aggiudicare gli appalti a imprese a lei sottomesse. Dirigevano gli appalti Salvatore Riina, Bernardo Provenzano, Antonino Buscemi, Giuseppe Lipari, Giovanni Bini (responsabile della Calcestruzzi Spa del gruppo Ferruzzi), Antonino Reale, Benedetto D’Agostino e Agostino Catalano (amministratore della Reale Costruzioni e consuocero di Vito Ciancimino). Nonostante Paolo Borsellino avesse deciso di approfondire l’indagine, il 22 luglio del 1992 Pietro Giammanco controfirmò la richiesta di archiviazione dell’inchiesta, eseguita il 14 agosto. Un fatto che fornisce un altro indizio di come la mafia abbia potuto prosperare grazie alla disattenzione – e talvolta alla connivenza vera e propria – di parte dei poteri pubblici.

La normativa sullo scioglimento dei Consigli comunali e provinciali per infiltrazione mafiosa

[Raffaele Cantone è un magistrato e saggista italiano.]
Sull’onda di alcuni sanguinosi fatti di cronaca nera avvenuti in provincia di Reggio Calabria nel 1991, fu introdotto il decreto-legge n. 164 (art. 1 del 31 maggio 1991 che ha aggiunto l’art. 15 bis alla legge n. 55 del 19 marzo 1990) che prevede la sospensione degli amministratori locali sottoposti a procedimento penale per il reato di favoreggiamento e per quelli sottoposti a misure di prevenzione in quanto indiziati di appartenere a una associazione della criminalità organizzata.

L’articolo di legge è poi entrato a far parte del testo unico degli enti locali (decreto legislativo n. 267/2000 art. 143). Esso prevede che “fuori dei casi previsti dall’articolo 141, i consigli comunali e provinciali sono sciolti quando, anche a seguito di accertamenti effettuati a norma dell’articolo 59, comma 7, emergono elementi su collegamenti diretti o indiretti degli amministratori con la criminalità organizzata o su forme di condizionamento degli amministratori stessi. […] Lo scioglimento del consiglio comunale o provinciale comporta la cessazione dalla carica di consigliere, di sindaco, di presidente della provincia e di componente delle rispettive giunte, […] nonché di ogni altro incarico comunque connesso alle cariche ricoperte”. In seguito alla promulgazione della legge in questione, negli ultimi 22 anni sono stati sciolti per mafia ben 377 consigli comunali. Inoltre, l’articolo 143 ha recentemente subito delle modifiche per rispondere ai rilievi mossi dalla dottrina e dal mondo politico-istituzionale riguardanti la responsabilità per lo scioglimento non soltanto degli organi di governo locale ma anche degli organi di gestione amministrativa-finanziaria-contabile; l’incandidabilità degli amministratori ritenuti responsabili dello scioglimento e le figure dei commissari che vanno a sostituire gli organi di governo locale, per via della loro preparazione e dei loro poteri.

Questi punti sono stati integrati con il nuovo articolo 143 e seguenti, modificato dalla legge n. 94/2009, il cosiddetto pacchetto sicurezza approvato durante il governo Berlusconi IV. Tuttavia, all’articolo 143 modificato sono state mosse delle critiche specialmente riguardo agli elementi che sono ora richiesti per giungere allo scioglimento: quest’ultimi, infatti, snaturerebbero lo strumento legislativo (di prevenzione sociale) rendendo più difficile l’attuazione della legge per prevenire o reprimere penetrazioni della mafia negli enti locali. Tanto che, al riguardo, il giudice di cassazione, Raffaele Cantone, ha affermato che «la riforma del 2009, che ha modificato lo scioglimento degli enti per infiltrazioni mafiose ha indebolito moltissimo l’istituto; i comuni che vengono sciolti sono molti meno e in gran parte di quei casi il TAR sta annullando tutti gli scioglimenti». Il riferimento all’incandidabilità degli amministratori coinvolti, invece, è criticato a causa di un iter talmente complesso da far risultare la misura più un’operazione di facciata che reale.

In conclusione, si può affermare che il fenomeno mafioso esiste e può prosperare solo grazie alle complicità che riesce a costruirsi all’interno delle istituzioni: a ben guardare la compenetrazione tra le due realtà – politica e mafiosa – è da sempre così stretta che tracciare una netta linea di demarcazione è impossibile. Fin dal caso di Giuseppe Albanese, infatti, si può constatare come molte personalità appartenenti a gruppi mafiosi svolgessero ruoli importanti all’interno dell’amministrazione pubblica. Di conseguenza, va preso atto che quello malavitoso è un fenomeno intrinseco della Repubblica italiana che si può estirpare faticosamente solo attraverso una pulizia radicale del cosiddetto stato profondo nonché con lo scioglimento di alcune massonerie, anch’esse profondamente coinvolte e collegate al fenomeno mafioso a fini di controllo e orientamento sociopolitico.

[di Giorgia Audiello]

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2 Commenti

  1. Se le commistioni politica-mafia datano da due secoli, non dovremmo sottovalutare la legalizzazione della mafia in Italia, da parte della CIA che, nello sbarco di Sicilia del 1943 delle truppe americane, fu inviato anche il grande mafioso americano, Lucky Luciano, che nonostante la sua condanna a oltre 30 anni di carcere in USA, fu liberato – appunto – dalla CIA affinché l’armata americana consegnasse a tutte le istituzioni politiche delle principali città, dal Sud al Nord dell’Italia, un biglietto con il nome indicato da Luciano, di chi doveva essere eletto a sindaco della città.
    Luciano fu onorato con la medaglia al valore civile per aver “reso servizio nobile agli USA” e fu rimandato a Napoli dove visse fino alla sua morte, indisturbato nel il suo ingente traffico di droga, proveniente dagli Stati Uniti. A buon intenditore.

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