sabato 20 Aprile 2024

Cinque agenti sono stati condannati nel primo processo in Italia per tortura

Sono stati condannati per i reati di tortura, falso e minaccia aggravata 5 agenti di Polizia penitenziaria che, l’11 ottobre del 2018, avrebbero messo in atto un pestaggio ai danni di un detenuto tunisino nel carcere di Ranza, a San Gimignano, durante un caotico trasferimento di cella. Il collegio del Tribunale di Siena presieduto dal giudice Simone Spina, dopo quasi 7 ore di camera di Consiglio, ha stabilito per loro pene comprese tra i 5 anni e 10 mesi e i 6 anni e mezzo di detenzione, nonché sanzioni pecuniarie e risarcimenti che superano la cifra di 50mila euro a testa.

La vicenda rappresenta un tassello importante della storia giudiziaria del nostro Paese, dal momento che il procedimento è stato il primo in Italia in cui – accanto a lesioni, minaccia e falso ideologico – si è contestato il reato autonomo di tortura a componenti delle forze dell’ordine, che nella decisione finale dei giudici è stato confermato e ha assorbito quello delle lesioni. Per gli stessi fatti, nel febbraio 2021 altri 10 agenti erano stati condannati in abbreviato a pene dai 2 anni e 3 mesi ai 2 anni e 8 mesi.

L’inchiesta da cui è scaturito il processo è emersa grazie alle segnalazioni delle educatrici della casa circondariale, le quali avevano raccolto le testimonianze di altri detenuti. “Gli hanno abbassato i pantaloni, è caduto e hanno continuato a picchiarlo, sentivo le urla”, si legge in una delle testimonianze agli atti. L’accusa ha parlato di “aggressione ingiustificata” e di un “trattamento al detenuto disumano e degradante”: al centro dell’indagine, un video di 4 minuti e 32 delle telecamere interne che ha ripreso il pestaggio.

“Leggeremo con attenzione gli argomenti a sostegno della decisione di condanna – ha dichiarato l’avvocato Fabio D’Amato, legale di un ispettore superiore –. Adesso c’è solo amarezza, perché ritenevamo nel corso dell’istruttoria di aver portato elementi tali da rimettere in discussione almeno il reato di tortura. Usciamo scontenti ma lasciamo la parola ai gradi successivi di appello per dimostrare la buona fede e la bontà di un operatore stimato da tutti come il mio assistito”.

Il reato di tortura, presente dal 2017 all’interno del codice penale con l’introduzione dell’art. 613-bis, riguarda “Chiunque, con violenze o minacce gravi, ovvero agendo con crudeltà, cagiona acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico a una persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza, ovvero che si trovi in condizioni di minorata difesa”, punendolo con la reclusione da 4 a 10 anni “se il fatto è commesso mediante più condotte ovvero se comporta un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona”. La pena si alza da 5 a 12 anni ove i fatti siano “commessi da un pubblico ufficiale o da un incaricato di un pubblico servizio, con abuso dei poteri o in violazione dei doveri inerenti alla funzione o al servizio”. Ci si è dunque allontanati dall’ottica della Convenzione Onu, che inquadra la tortura come un crimine proprio di un pubblico ufficiale, inserendo una serie di restrizioni non previste nel trattato.

Da anni, sul punto, va in scena uno scontro rovente tra forze politiche di diverso colore. Mentre il Pd si è sempre intestato l’introduzione del reato di tortura, le forze della sinistra radicale lo hanno invece bollato come “debole” e “inefficace” rispetto alla sua applicazione pratica. I principali attori della compagine di centro-destra la pensano invece in maniera diametralmente opposta. Un anno dopo l’entrata in vigore della legge, la leader di Fdi Giorgia Meloni, ora Presidente del Consiglio, presentò addirittura due proposte di modifica al fine di trasformare la tortura da reato a circostanza aggravante e aumentare le pene per i reati di minaccia o resistenza a pubblico ufficiale. «Gli agenti sono stati mortificati», aveva commentato, sostenendo che per loro fosse sufficiente un «insulto per rischiare pene fino a 12 anni». Sulla stessa linea il leader leghista Matteo Salvini: «Ormai lo sport preferito da alcuni detenuti è la denuncia immotivata di violenza o tortura da parte di donne e uomini in divisa – aveva dichiarato nel 2019, promettendo ai poliziotti del Sap di abolire il reato di tortura –. Bisogna rivedere quella normativa perché c’è l’avvocato a gratis, all’infinito, non per i poliziotti ma per i delinquenti. Quando torniamo al governo dobbiamo rivedere questa legge perché non si può lavorare col terrore». Sarà il tempo a dirci se Meloni e Salvini, che ora occupano da alleati gli alti scranni dell’Esecutivo, vorranno davvero tener fede a queste promesse, riportando indietro le lancette del diritto e contravvenendo alle sentenze della Corte europea dei diritti umani (CEDU) che più volte, prima del 2017, aveva chiesto all’Italia di approvare leggi adeguate a punire, e quindi prevenire, gli atti di tortura commessi dalle forze dell’ordine

[di Stefano Baudino]

 

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1 commento

  1. Si vergogni l’analfabeta. Se avesse avuto lui gli avvocati d’ufficio, ora sarebbe dove merita, in un Paese civile: in galera.
    E la ducetta con la.Fiamma ancora benn accesa ed in evidenza abbia un sussulto di umanita’: Nessuno tocchi Caino, IGNORANTI BIFOLCHI

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