venerdì 26 Aprile 2024

Utopia, cioè il non luogo

Due immagini. La prima è da un quadro inglese del Settecento, di Thomas Gainsborough, se non ricordo male: un pittore, con il cavalletto sulle spalle, cammina su un sentiero di campagna, dove è andato per riprendere un paesaggio dal vivo. Intorno a lui alberi, siepi e campi. Atmosfera romantica. La seconda è dalla sequenza iniziale del film Le mani sulla citt di Francesco Rosi, 1963: due personaggi, nella periferia di una città, Napoli, discutono su una speculazione edilizia che li coinvolge. Uno dice: «Dove va la città?» E l’altro risponde: «Va dove la mandiamo noi».

[T. Gainsborough – Paesaggio boschivo]
Siamo agli antipodi. Come se nel primo caso la solitudine evocasse la piena disponibilità della natura, una certa aura rituale, dove il paesaggio, la persona e la sua attività artistica, il suo modo di vedere, facessero parte di uno stesso copione. E invece, nel film, ci fosse chi decide il destino di altri, e le città fossero appunto progettazioni di destini, costruzioni di vissuti senza alternative.

Ma anche attorno ai due speculatori lo spazio parla di lontananze, di una civiltà abitata che deve ancora formarsi, che attende nuovi confini, altri orizzonti. Quando poi Rosi farà vedere i chiassosi bassi di Napoli, allora l’orizzonte si capovolgerà, si farà denso, inquietante, aggressivo. E si capirà che il potere lavora su due fronti: apparentemente condivide gli stessi spazi urbani, dove mette in scena e istituisce, finché ci riesce, il suo gradevole arredo, ma in realtà si muove altrove, nel condizionamento e nel tornaconto.

La nostra attenzione immaginaria si sposta allora verso le strade, verso la polvere dei sentieri e delle città, per usare una bella espressione di Pierre Sansot (dal suo libro Passeggiate, trad. it. Pratiche 2001): “La strada implica un tragitto da percorrere secondo un determinato ritmo. La vibrazione, il vibrato la modulano. La vivacità, la gravità, la mobilità consentono di vedere un paesaggio e lo definiscono nella sua essenza più intima”.
Soltanto se si cammina nelle città si riesce a capire di che cosa stiamo parlando, finché semplicemente ci si sposta, è il traffico a dominarci e a dominare la scena.
[Fotogramma tratto da “Le mani sulla città” di F. Rosi – 1963]
La città è lo strumento di paragone dello spazio della modernità. Se sei in campagna o in piccoli centri è perché sei lontano dalla città, se sei in un giardino o in un parco è come se avessi sottratto spazio al cemento, se il tuo habitat respirasse e il tuo vissuto si arricchisse di jogging, sguardi rilassanti, lontananza dal traffico.
A Göteborg, in pieno centro, sono entrato in uno di quegli orti sociali dove le persone tengono in vita le loro minuscole porzioni di terra coltivata. Ma mi hanno spiegato che non si è soli, che una volta alla settimana ci si ritrova per capire che cosa può servire, se ci si possono scambiare ortaggi e frutta. Ha scritto bene Marc Augé (Nonluoghi, trad. it. Eleuthera 1993), la città è il luogo dell’altro. Se i luoghi antropologici creano una socialità organica, ancora carica di parole e di mediazioni, i cosiddetti “non luoghi” producono una “contrattualità solitaria”, esigono soltanto determinati comportamenti prestabiliti, ci fossilizzano nella esecuzione di compiti prefissati, come se fossimo sempre davanti a bancomat, o a qualcosa di simile, facendoci sentire insieme soli e parti di una folla.
Le recenti progettazioni urbane normalmente implicano soltanto socialità di transito, centri commerciali dove è quasi interdetto prendere la parola, come autogrill dove si chiedono e si trovano sempre le stesse cose.
Sembra definitivamente allontanarsi l’idea di piazza, di incontro casuale, di aggregazione spontanea, quella per intenderci che nella nostra civiltà è stata espressa dalle culture dei paesi e dei piccoli centri ma anche da alcune città, ad esempio Venezia, come metteva in scena Goldoni: una commedia umana che ha bisogno di voci, di pettegolezzi, di confidenze, surrogate ora dai social, spesso impietosi, dove il potere è quello di influencer, troppo spesso manipolatrici e manipolatori.
Così parliamo ad esempio di ambiente non perché sentiamo questa esigenza, perché condividiamo bisogni e aspettative, perché discutiamo su differenti soluzioni ma perché c’è qualcuno che si muove sulla scena dei media a raccontarcelo, a spiegarci che finora non abbiamo capito nulla. E compiendo inevitabilmente un demoniaco salto profetico in avanti, quello di farci temere senza farci sperare. Il potere ha bisogno di proiezioni, è artefice della dimenticanza.
In realtà dobbiamo lavorare per una nuova forma di utopia, non la classica utopia (non-luogo anch’essa!) che istituisce spazi circoscritti, autosufficienti, immersi nel benessere, in un mondo privilegiato, quelli in cui si vive una vita sociale rinnovata, in cui vengono rappresentate società trasparenti che non dissimulano nulla dei propri meccanismi, con una legislazione ideale in grado di rigenerare la vita sociale, ad esempio mediante le feste, luoghi di sensibilità diffuse (si veda B. Baczko, L’utopia, trad.it. Einaudi 1978).
Qualcosa di tutto questo permane nella società dei consumi, quanto meno come tratto superficiale, illusorio. Ma l’utopia di cui stiamo parlando è quella che vede uomini e donne in cammino, non ancorati alla attuale disponibilità di risorse, non vincolati alle elaborazioni statistiche di qualche ente sovranazionale, non prigionieri di sguardi sovranisti, non considerati come destinatari inconsapevoli di qualche potere più o meno occulto.
Parliamo di una umanità in cammino perché memore dei suoi lontanissimi progenitori, perché consapevole dei mezzi tecnologici ma innamorata della semplicità, di un ordine comprensibile, di spiegazioni alla portata di tutti.
Di conseguenza, qualsiasi considerazione o intervento sull’ambiente potrà essere efficace sul lungo periodo, sempre che lo voglia, soltanto se sarà in grado di creare una continuità di bisogni e di visioni con l’umanità delle origini che rispettava la natura, che si metteva in ascolto dei suoi segreti.
La scienza si è affermata nella modernità per i suoi successi nel limitare l’aggressione delle malattie, per le sue scoperte in campo biofisico ma le storture di una storia di domini e di sfruttamenti ha portato a far coincidere tragicamente l’epoca delle grandi scoperte scientifiche con quella delle guerre e degli stermini.
Mettiamoci dunque alla ricerca di nuovi alleati non di nuovi complici. Per un compito differente, quello che, ad esempio, nella saggezza zen fa dire che la felicità o è di tutti o non è di nessuno, non dimenticando il monito di Karl Popper: non ci potrà mai essere un organismo statale che determini quale debba essere la felicità per ognuno.
L’ambiente potrà essere il prossimo terreno di prova di questa nuova forma di utopia.
[di Gian Paolo Caprettini – semiologo, critico televisivo, accademico]

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