sabato 27 Luglio 2024

Sulla questione migratoria il problema è l’Unione Europea

Nella tarda serata di martedì 8 novembre, il Governo Meloni ha acconsentito a far sbarcare sul territorio italiano tutti i migranti soccorsi nei giorni precedenti nel Mediterraneo, bloccati su quattro navi guidate da ONG. Prima dell’ok definitivo, l’esecutivo si è a lungo opposto alla discesa dei rifugiati sulla terra ferma, riprendendo in mano quella strategia dei “porti chiusi” messa in campo dall’ex ministro degli Interni e attuale Ministro dei Trasporti, Matteo Salvini.

Il processo decisionale dell’Amministrazione è stato graduale ed è cambiato più volte. È partito da un “no” categorico, che il governo si è sentito legittimato a rifilare alle ONG per via, come ha spiegato Pagella Politica, di un’interpretazione sbagliata delle norme che ad oggi regolano a livello internazionale l’immigrazione e il recupero delle persone in mare. Secondo il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, appoggiato da Salvini, se le imbarcazioni di salvataggio battono bandiera tedesca, per fare un esempio, è il Paese corrispondente a doversi far carico dell’accoglienza dei migranti. In altre parole, dopo aver abbandonato il mezzo con cui è arrivato in Europa, se il migrante mette piede su una nave francese, è la Francia che deve farsi carico dell’ospitalità di quella persona. «Dove dovrebbe andare una nave norvegese? Semplice, in Norvegia», ha ribadito Salvini.

Che gran casino le leggi europee

Corretto, in parte. È vero che, come stabilito nel 1982 dalla Convenzione delle Nazioni unite sul diritto del mare, le navi rappresentano di fatto un’appendice dello Stato di cui portano bandiera, e che, come dice un regolamento UE (Regolamento di Dublino, art. 13) quando il richiedente asilo, proveniente da un Paese terzo, varca illegalmente via mare, terra o aerea la frontiera di uno Stato UE, allora è quest’ultimo che deve farsi carico della domanda di protezione internazionale. Tuttavia, come riportato alla memoria da Pagella Politica, nel 2017 Nicola Carlone, all’epoca Contrammiraglio della Guardia costiera italiana, ha spiegato durante un’audizione parlamentare che il Regolamento di Dublino vale solo dal momento in cui i migranti sbarcano su terraferma (e non quando sono in mare, quindi).

La pluralità di normative, trattati e accordi rende comunque gli sbarchi confusionari, e fa sì che spesso i Governi gli si appellino in maniera sbagliata, consapevolmente o meno. Per orientarsi in questo caos, tendenzialmente in mare il punto di riferimento rimane la Convenzione di Amburgo del 1979, secondo cui gli sbarchi devono avvenire nel primo (per vicinanza) porto sicuro disponibile. Va da sé che a priori vanno esclusi Paesi come la Libia (e più in generale quelli del Nord Africa) per via di condizioni di vita piuttosto difficili e una certa instabilità politica all’interno del territorio. Alla fine, per le persone soccorse nel Mediterraneo, ad esempio, è piuttosto facile che sia designata come meta “protetta” una città italiana (ed è qui che entra in gioco il Regolamento di Dublino sopra citato).

Il linguaggio di Piantedosi: sbarco selettivo e carico residuale

Nonostante tutto, il Governo italiano ha comunque ribadito di non avere il dovere di accoglienza, per via della storia della bandiera. Almeno fino a quando Piantedosi non ha optato per uno il cosiddetto «sbarco selettivo», dovuto a un decreto interministeriale, spiegandolo in questo modo: «Le persone che hanno i requisiti possono sbarcare, ci facciamo carico di chi presenta problemi di ordine assistenziale e umanitario senza derogare al fatto che gli obblighi di presa in carico competono allo Stato di bandiera». Per far scendere anche il «carico residuale» – definizione orrenda con la quale il ministro ha definito le persone “sane” costrette a rimanere a bordo, si è dovuto aspettare ancora un po’. Infatti la Geo Barents, approdata domenica nel porto di Catania con 572 migranti, aveva potuto far scendere solo la metà delle persone. Lo stesso era accaduto sulle altre navi.

Le migrazioni sono diventate uno strumento politico

Quello del nuovo Governo Meloni è stato un approccio molto criticato in tutta Europa. Sono state soprattutto Francia e Commissione Europea a rivolgergli i commenti più duri. Ma la verità è che la libertà di fare un po’ a tutti come gli pare è frutto soprattutto di una politica confusa e non coesa. Gianandrea Gaiani, consigliere al fianco di Salvini per le politiche di sicurezza fra il 2018 e il 2019, intervistato dal Sussidiario, ha espresso il suo pensiero a riguardo (tra l’altro sostenuto da non poche persone): «Ai maggiori Paesi europei fa comodo che l’Italia continui ad essere l’approdo di tutti i traffici illegali di esseri umani che ci sono nel Mediterraneo. Vuol dire che Germania e Norvegia non vogliono prendersi quelle persone. Quindi è una decisione politica. E così le Ong raccolgono clandestini nelle acque tunisine, libiche, a volte maltesi e dirigono verso l’Italia».

Una cosa è certa: il fenomeno migratorio si è trasformato in uno strumento politico di propaganda, controllo e metodo di valutazione, soprattutto perché, come dicevano, su questo l’UE non ha una politica estera unitaria né meccanismi automatici di solidarietà tra gli Stati, non avendo ancora riconosciuto un principio in realtà ovvio: chi parte dalle coste africane punta l’Italia, la Grecia o la Spagna semplicemente perché sono la porta d’ingresso all’Europa. È un problema che si ripresenta ciclicamente e che, altrettanto ciclicamente, porta alle stesse conclusioni: nessuna. Non basta dotarsi di un sistema di sorveglianza dei confini (l’European border surveillance system attivo in UE) fornito di droni, aerei, sensori e rilevamento satellitare per individuare i fenomeni di immigrazione illegale. Non è questa la cooperazione di cui gli Stati hanno bisogno e soprattutto non è la via migliore per contribuire a garantire la protezione e la salvezza della vita dei migranti. Piuttosto «è importante proseguire in questa linea di collaborazione europea con gli Stati più esposti per la loro collocazione geografica, così da trovare una soluzione condivisa e comune» come ha detto la premier Giorgia Meloni dopo l’offerta della Francia di far sbarcare le persone a bordo della Ocean Viking sul suo territorio.

I numeri oltre la propaganda

Meloni ha principalmente ragione su due cose: che è essenziale la cooperazione degli Stati a mancare e che l’Italia è geograficamente collocata in una zona particolarmente strategica per gli sbarchi. Ma i numeri raccontano una realtà diversa su punti sostanziali della nostra percezione dell’Italia come terra assediata dalle richieste di asilo. Probabilmente la sua vicinanza all’Africa – e il fatto di condividerci un mare – contribuisce a imprimere nell’immaginario collettivo ogni sbarco sul territorio, più di quanto accade altrove. Sembra, in altre parole, che tutti i migranti arrivino solo sulle nostre coste e che siamo noi a dovercene fare carico senza l’aiuto di nessuno. Punto primo: chi sbarca in Italia, non rimane necessariamente in Italia (anzi spesso il Paese è solo un tramite per arrivare altrove).

Secondo i dati Eurostat – l’ufficio statistico dell’Unione europea – nel 2021 delle 537mila persone che hanno chiesto asilo in UE, più di 148mila lo hanno fatto in Germania (in base alla popolazione locale, uno ogni 561 abitanti). Dopo di lei, al secondo posto, la Francia (con quasi 104mila, uno ogni 652), poi la Spagna (oltre 62 mila) e in quarta posizione l’Italia, con 45.200 richiedenti asilo (uno ogni 1.308). Se considerati il numero di richiedenti asilo rispetto agli abitanti del paese, la situazione cambia. L’Italia è quindicesima, e lascia la vetta a Cipro, che nel 2021 ha accolto un richiedente asilo ogni 68 abitanti.

Per fornire invece una panoramica più ampia e precisa e sul lungo termine, nel periodo tra il 2012 e il 2021 è sempre stata la Germania ad accogliere il maggior numero di rifugiati (2,3 milioni di richieste di asilo), seguita da Francia (con più di 850mila) e Italia, che su un arco di tempo più ampio guadagna una posizione collocandosi al terzo posto (con 592 mila richiedenti). Dopo di lei Svezia, Spagna e Grecia.

La verità è che nessuno si fida dell’UE

Insomma, ponendo la questione, come ha fatto l’esecutivo, sul piano di chi ospita più migranti, i dati smentiscono le impressioni. Ma il punto non è questo. Il clima generale di sfiducia che ormai da anni vige sulle istituzioni europee è emblematico, così come il fatto che il Consiglio, l’organo più alto in materia di decisioni UE, non è mai riuscito a far passare una riforma (spesso per mancanza di unanimità) che cambiasse davvero le cose. Nel 2015, ad esempio, la Commissione europea ha proposto di istituire l’Agenda europea sulla migrazione, una specie di programma strutturato per creare strumenti in grado di durare nel tempo e di intervenire su questioni cruciali come la gestione delle frontiere esterne e il sistema di asilo.

L’Agenda, tra le altre cose, conteneva anche un ambizioso piano di redistribuzione dei migranti accolti da Italia e Grecia (circa 100 mila) nel resto dell’UE. Gli stati membri, su votazione, avevano deciso di accettare sul proprio territorio una quota di persone su base volontaria, concordata tra singoli stati (quindi senza una percentuale fissa e alcun obbligo), appellandosi al principio di solidarietà. Il programma fu un fallimento: molti stati, infatti, non rispettarono gli accordi presi. Lo stesso avvenne nel 2017, quando l’ennesima proposta del Parlamento (questa volta per introdurre la responsabilità condivisa tra vari Paesi nella gestione delle domande d’asilo) fu bocciata dal Consiglio.

Quindi qual è la soluzione? Il primo passo potrebbe essere quello di rivedere il regolamento Dublino (quello secondo cui è il primo Paese su cui mette piede il migrante a dover gestire la sua richiesta d’asilo), come si cerca di fare da anni, per distribuire equamente la gestione dei migranti su scala europea. Continuando a lasciarlo così com’è la pressione della gestione delle domande continuerà a ricadere su pochi stati membri e i richiedenti asilo non potranno scegliere uno stato diverso da quello d’arrivo in cui far processare la richiesta.

La sua revisione metterebbe d’accordo destra e sinistra ma, come ha evidenziato in passato la parlamentare europea Elly Schlein, ad oggi Vicepresidente della Regione Emilia-Romagna, la Lega non è stata presente a nessuna delle 22 riunioni di negoziato svoltesi fino al 2018. A questo punto è lecito chiederselo: che quella dei migranti non si sia ridotta per davvero solo a mera strategia politica?

[di Gloria Ferrari]

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2 Commenti

  1. Quel che è certo, perché sotto gli occhi di tutti è il degrado ecologico degli ambienti naturali con il massiccio inquinamento di acqua, terra e aria con sostanze tossiche, in primis, per l’essere umano. Dunque, al di là dell’ “emergenza climatica”, la distruzione degli ecosistemi è innegabile. Allo stesso tempo, proprio perché non dobbiamo dividere il mondo in bianco e nero o ridurre tutto ad un codice binario di zero e di uno, non si può che comprendere gli enormi dubbi che le persone si pongono su mirabolanti progetti, promesse utopiche, approcci paternalistici e forzature di linguaggio. A maggior ragione quando il “cambiamento” dovrebbe essere portato da chi la situazione da cambiare l’ha creata: in altre parole, quando la soluzione al problema viene proposta proprio da chi questo problema lo ha generato. Risulta quindi lecito coltivare dubbi e resistenze rispetto alla narrazione di coloro che adesso sostengono lo “sviluppo sostenibile” ma che hanno guidato il mondo insostenibile fatto di sfruttamento della natura e dell’uomo, da cui hanno tratto immensi profitti. Quindi, perché il potere capitalistico, dopo decenni nei quali ha ostinatamente negato ogni problema ecologico dato dal sistema produttivo e contrastato ogni azione per l’ambiente, ora “picchia” così costantemente sullo “sviluppo sostenibile” affinché si risolvano i problemi ecologici? Strutture come la Alliance of CEO Climate Leaders rendono chiaro l’obiettivo: generare elevati rendimenti dalle attività a minori emissioni. È questa l’anima green di quella che le élite chiamano Quarta rivoluzione industriale. Cucinare una nuova torta miliardaria, pagata dagli Stati e quindi dai cittadini, le cui fette saranno spartite dai soliti colossi del capitalismo finanziario ed estrattivo.

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