giovedì 28 Marzo 2024

I diritti dell’immaginario. Il Paese di Cuccagna

Ci sono necessità dell’immaginario, ci sono diritti simbolici, prima di tutto a verità non ufficiali. L’utopia alimentare, ad esempio. In un mondo segnato da carestie, allarmi energetici e insidie sulla qualità degli alimenti, compreso l’insensato commercio di prodotti lontani migliaia di chilometri a fronte di disponibilità locali di pari o migliore qualità, si persegue, anche con innegabile gusto e piacere, il ricorso a una centralità delle simbologie culinarie e delle attività e dei saperi che ruotano attorno al cibo.

È stato l’Illuminismo, soprattutto con Condorcet, a mettere in campo l’assimilazione tra l’utopia e l’idea di progresso, in epoche precedenti, invece, si marcavano le nette differenze, nel presente, non in un tempo a venire, fra realtà ordinaria, quotidiana e sogno alternativo. Basti pensare alla questione dell'”altra verità”, quella non ufficiale, di cui tratta Michail Bachtin (1965, L’opera di Rabelais e la cultura popolare, trad. it. Einaudi 1979) e che contrassegna nel tardo Medioevo e nel Rinascimento il ruolo delle immagini grottesche, del basso corporeo a fronte dell’alto spirituale, dove era la piazza, in quanto luogo socializzante, a costituire un mondo unico e compatto, in cui tutti i discorsi “erano permeati dalla stessa atmosfera di libertà, di schiettezza, di familiarità”.

In generale, varie sono le ragioni per le quali si può parlare di utopia. Intanto perché le utopie fungono da connessione fra pratica e sogno, illuminando certi aspetti della realtà e occultandone altri (Baczko), poi perché esse si esprimono mediante “esperienze comunitarie che si propongono di rigenerare la vita sociale”; e ancora in quanto le utopie aspirano a “una vita quotidiana rinnovata” esercitando una immaginazione sociale, una “rappresentazione globale… di una società diversa, opposta alla realtà sociale esistente”.

Si aggiunga poi la presenza nell’utopia di una tensione alla speranza, di una volontà di rigenerazione, di un orizzonte iniziatico di rinascita che dai tempi della Nuova Atlantide di Francesco Bacone (1627) viene sicuramente stimolato dai progressi della scienza e dall’idea che questa possa, insieme alla tecnica, trasformare la natura e le sue leggi ancestrali assicurando a tutti benessere e abbondanza. Utopia fortemente necessaria oggi, quando la scienza appare servile più che liberatrice.

Un antico esempio emblematico in questo senso è quello del Paese di Cuccagna. Lontano, meraviglioso paese, quello di Cuccagna, erede del mito classico dell’Età dell’oro; di quest’ultimo si hanno remote tracce già in una tavoletta sumerica risalente a circa 4000 anni fa, dove si cantano i tempi “in cui non c’era né paura né terrore, perché mancavano i serpenti, gli scorpioni, i leoni” – e non è difficile credere che non si intendesse parlare soltanto di animali ma anche di uomini che meritavano quelle similitudini.

Straordinario paese, Cuccagna, in qualche modo versione popolaresca del Paradiso terrestre, che si installò nell’immaginario europeo nel tardo Medioevo, e che trovò il suo fulgore all’indomani della scoperta dell’America. Cristoforo Colombo era attratto dalle leggende pagane che collocavano vicino al polo artico un popolo felicissimo, gli Iperborei, che muoiono soltanto quando sono sazi della vita, e così, quando descrisse le isole scoperte oltre Atlantico parlò di terre i cui alberi non pèrdono mai le foglie e dove gli usignoli cantano anche nei mesi invernali.

“Là la gente non è mica vile” canta un poemetto cinquecentesco sul Paese di Cuccagna: “quattro Pasque ci sono in un anno, quattro vendemmie, ogni giorno è festa o domenica, la Quaresima cade ogni vent’anni ed è così piacevole digiunare che tutti lo fanno di buon grado”.

L’Italia nel Rinascimento non è soltanto la patria dei massimi pittori ma è anche il paese della fame (titolo di uno stupendo libro di Piero Camporesi) e così Cuccagna è la grande utopia collettiva del ventre che si fa capanna, compensatrice delle frustrazioni indotte dal sistema socio-economico, contraltare delle feste cortigiane, sede, temporaneamente sovversiva, della liturgia comunitaria della tavolata aperta a tutti, teatro di gozzoviglie, gioia delle mascelle e delle danze spensierate che il celebre quadro di Bruegel proclama come una felicità popolaresca, condivisa e appagante.

Terra dove chi meno lavora più guadagna, dove – come nella contrada di Bengodi di cui scrive Boccacio nel Decameron (giornata VIII, novella 3) – “eravi una montagna tutta di formaggio parmigiano grattugiato” e nella quale le salsicce servono a legare le vigne e a portare a spasso i cani, dove la Fontana della giovinezza rende chi lì si bagna vittorioso contro il tempo. Là c’è un fiume in cui scorre vino e sul palo di ogni vite, sostiene la storia di Campriano contadino, c’è un tordo già cotto “con un’arancia sotto il piè” e poi torte e marzapani “acconci in modi strani”. Il mio amato Tomaso Garzoni così si esprime, dopo aver apparentato i nuovi grandi maestri del ventre, alle onorate professioni di medici e avvocati: “Gli illustrissimi Panigoni di Cuccagna se ne vanno superbi et alteri perché sono capi delle dispense, padroni delle cantine, soprastanti delle cucine, reggenti de’ salami, agozzini del presciuto, capitani della grassa, e i maestri giustizieri delle polpette, a’ quali si deve per necessità ogni rispetto, perché altramente la minestra sarà da Filosofo, il potacchio da Anabattista, la piatanza da spazzacamino, la torta da hortolano…”

[di Gian Paolo Caprettini]

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