giovedì 16 Ottobre 2025

Soldi, riti e tratta: cos’è realmente la mafia nigeriana

Il nostro Paese è conosciuto in tutto il mondo per avere partorito le organizzazioni mafiose più celebri e potenti, cullandone lo sviluppo per decenni. Cosa Nostra, Camorra e ‘Ndrangheta hanno rivoluzionato il crimine globale, incamerato miliardi, mietuto vittime civili e istituzionali, entrando in contatto con alti organi dello Stato e procedendo a una progressiva espansione in vaste aree di Paesi esteri. Eppure, nel pressoché totale silenzio mediatico, negli ultimi decenni sta parallelamente imperversando nelle regioni dello stivale una organizzazione criminale potente, estremamente ramificata, violentissima, che arriva da fuori: la mafia nigeriana.

Origine e sviluppi

Il fenomeno che oggi in Italia possiamo chiamare “mafia nigeriana” ha origini molto lontane nel tempo. Tutto parte dall’universo delle Confraternite, chiamate cults, che animarono la vita delle Università nigeriane tra gli anni ’50 e gli anni ’80 del secolo scorso. Nate con l’obiettivo di rivendicare il potere del popolo nero in aperta condanna dell’apartheid, dopo la crisi petrolifera e il colpo di Stato del generale Ibrahim Babangida del 1983, alcune di esse finirono per strutturarsi in vere e proprie cellule criminali (spesso imitando le mafie italiane), introducendo il Vodoo tra i propri rituali caratteristici.

Nella cornice dei flussi migratori degli anni ’80 che, per la prima volta, traghettarono nel nostro Paese un vasto numero di nigeriani, possiamo iscrivere l’attività embrionale dei cults in Italia, che crearono cellule operative in collegamento con la ‘casa madre’ presente in Nigeria. Dapprima, il loro raggio di azione si concentrò nelle regioni del Nord, per poi svilupparsi nel centro-Sud (in particolare in Campania) ed allargarsi alle isole.

Sono ormai numerosissimi i clan nigeriani che hanno messo le radici nel Bel Paese. Molto temibili sono, ad esempio, Pyrates, i Vikings, i Maphite. Ma i gruppi più ramificati e potenti risultano essere, senza dubbio, i Black Axe e gli Eiye.

I black axe

Nati alla fine degli anni ’70 presso il Campus universitario di Benin City, negli ultimi decenni i Black Axe si sono espansi anche sul territorio italiano, concentrando le loro attività in Piemonte, Campania, Puglia e Sicilia. Caratterizzati, anche nel vestiario, dai colori nero, bianco ed oro, il loro simbolo è quello delle asce che formano una x (da cui deriva il saluto tra gli affiliati, che incrociano gli avambracci). Fondamentale per il clan è anche la numerologia: al centro di tutto sta il 7, che oltre a richiamare il simbolo dell’ascia, rimanda alla data della fondazione della confraternita, avvenuta il 7 Luglio ’77.

La struttura del cult è gerarchica e piramidale e l’organizzazione è dotata di organismi legislativi ed esecutivi, oltre che di tribunali interni deputati a dirimere le controversie. L’elezione dei capi è basata su regole specifiche e, per entrare nei suoi ranghi, è obbligatorio pagare una “tassa” all’associazione criminale.

Per cercare di sottrarsi all’attenzione dei magistrati e delle forze dell’ordine, con un escamotage gli affiliati si presentano all’esterno come appartenenti al New Black Movement, il “movimento per la liberazione del nero africano dalla moderna dominazione coloniale dei bianchi”, associazione benefica ufficialmente riconosciuta e dotata di un proprio statuto.

Ogni “succursale” della Black Axe nigeriana presente negli Stati ‘colonizzati’ prende il nome di Zone. Da essa dipendono i Forum, ovvero le cellule basiche del clan presenti nelle singole città.

La forza fisica è il prerequisito richiesto a tutti i componenti del cult. Nella fase di Orientation, in cui l’adepto si prepara all’ingresso nell’organizzazione, egli viene pestato da una serie di “picchiatori”. Per essere giudicato meritevole dell’affiliazione, l’uomo deve passare dal vaglio di un “Ministro della difesa” (il quale dirige miliarmente le Zone e coordina i picchiatori) e dello Chama Black Axe, che è il capo del consiglio dei saggi. Se lo step viene superato, si può procedere con il rito vero e proprio, che prevede l’ingerimento di una sostanza a base di droghe, a cui viene accompagnata la declamazione, da parte dell’adepto, di una formula di obbedienza molto simile a quella che caratterizza il rito della punciuta dentro Cosa Nostra: “Se io dovessi tradire l’organizzazione Black Axe, ciò che sto bevendo in questo momento mi ucciderà”. Dopo aver subito l’ennesimo pestaggio, l’uomo percorrerà in ginocchio un certo tragitto e sarà formalmente affiliato dall’head, il capo nazionale.

Gli Eye

L’universo simbolico di riferimento degli Eiye, nati nell’ateneo nigeriano di Ibadan, è quello degli uccelli e del cielo. Infatti, i colori che caratterizzano questo cult sono il blu del firmamento e il rosso degli occhi delle aquile. Per salutarsi, gli affiliati si stringono le dita delle mani, unendo i pollici verso l’alto o verso il basso. Secondo le relazioni della Direzione Investigativa Antimafia, questo gruppo è presente in molte regioni dello stivale, da Nord a Sud, e le città in cui risulta più attivo sono quelle di Torino, Brescia, Verona, Padova, Castelvolturno e Napoli. L’organismo che gestisce gli affari della confraternita sul territorio di ogni nazione in cui si è diramata è denominato Aviary, da cui dipendono i Nest, che costituiscono le sezioni provinciali o locali del clan. Anche nel caso degli Eiye il rito di iniziazione prevede atti violenti: l’adepto deve bere un cocktail di sangue ed acqua, per poi venire percosso dai picchiatori dopo essere stato denudato.

L’inferno della tratta

Grazie alla grande espansione territoriale di cui sono stati protagonisti e delle rotte transnazionali che hanno inaugurato, questi cults si sono ritagliati un ruolo di grande rilievo nel traffico di stupefacenti e, in parallelo, nella tratta esseri umani, nel favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e nello sfruttamento della prostituzione. Il che, in Italia, quasi sempre Paese di primo approdo, ha sortito danni e sofferenze incalcolabili.

La tratta di esseri umani a scopo di sfruttamento sessuale, principale business della mafia nigeriana, si svolge su tre livelli: il reclutamento, il trasporto e il vero e proprio sfruttamento sul territorio.

Al centro di tutto, vi è il ruolo e la figura degli “agenti di viaggio”, che reclutano le giovani ragazze, il più delle volte ‘agganciate’ tramite familiari, amici di famiglia e datori di lavoro. In questa fase, come ha ricordato l’UNODC, “solitamente, le vittime vengono convinte a migrare attraverso l’inganno o attraverso pressioni esercitate dall’ambiente in cui vivono”. Nella maggior parte dei casi, esse provengono da famiglie molto numerose, in cui povertà endemica e disoccupazione fanno da padrone e rendono la scelta quasi obbligata: “Molte di noi vengono da situazioni di estrema povertà e di mancanza di istruzione […] significa non avere scelta, non avere opportunità. Significa non rendersi neppure conto della mancanza di diritti e delle ingiustizie che si subiscono […] c’è quasi una totale mancanza di consapevolezza”. Le ragazze, infatti, “non si sentono neppure vittime” e “non concepiscono i loro sfruttatori come dei criminali”: queste le parole dell’ex vittima di tratta Okoedion Blessing.

Il viaggio viene finanziato grazie al cosiddetto “sistema del debito”. A pagarlo è infatti uno sponsor, che spesso coincide con la figura della Madame (nella maggior parte dei casi, un ex vittima di tratta che gioca un ruolo centrale in tutte le fasi del processo o almeno nell’ultima). Il debito, che la ragazza espierà attraverso gli introiti del suo lavoro, viene contratto per mezzo di un giuramento che si svolge prima della partenza, che è officiato da un capo religioso e vede la partecipazione della vittima, dei testimoni e degli sponsor. Il sincretismo religioso è lo strumento cardine che permette di legare inscindibilmente il destino della vittima alla volontà dei suoi sfruttatori: per mezzo dei riti vodoo, si convince la ragazza che l’eventuale rottura del patto-giuramento provocherà non solo la sua malattia o morte, ma anche quella dei suoi familiari rimasti in Nigeria.

Il “grande viaggio” che porterà le vittime in Italia è lungo, faticosissimo, psicologicamente e fisicamente massacrante, pieno di tappe e trappole. Se ne occupano una serie di “figure di collegamento” tra gli Stati di transito, solitamente il Niger e la Libia, dove le ragazze vengono rinchiuse in “connection house”. Lì i migranti sono incarcerati, picchiati e torturati: varie testimonianze di minorenni ci raccontano di “stupri finalizzati all’iniziazione prostituzionale coatta” e addirittura a “farle rimanere incinte in modo che lo sbarco possa diventare sicuro e protetto dalla Guardia Costiera italiana”. Gravidanze che, ovviamente, saranno forzatamente interrotte dalle madame, spesso con l’utilizzo di specifici medicinali, prima che le ragazze siano messe in strada. Una volta arrivate in Italia, le tantissime vittime minorenni (sapientemente istruite prima di partire) sono costrette a mentire sulla propria età, al fine di essere trasferite in centri di accoglienza per adulti, dai quali è molto più facile scappare per mettersi nelle mani delle madame. Giunte nelle bettole in cui soggiorneranno per lavorare, le ragazze vengono mantenute in uno stato di segregazione e private di ogni mezzo utile per comunicare con i propri parenti. Gli sarà, di fatto, impedito qualsiasi contatto esterno a quello della comunità africana locale di riferimento. Gli ingenti ricavi del lavoro delle ragazze permettono alle madame di ottenere in maniera rapida il plusvalore dell’investimento iniziale e, dunque, di utilizzare parte del ricavato come investimento per l’arrivo di nuove ragazze. Un riciclo continuo.

Dopo avere espiato il loro debito, le ragazze sono lasciate libere, ma la mancanza di una rete di sostegno e di denaro le porterà solitamente a rimanere nel circuito dello sfruttamento, collaborando con le madame o gestendo autonomamente altri nuclei di ragazze dopo essersi da queste emancipate. Insomma, in pochi anni una logica infernale le trasforma da vittime in “carnefici”. Così, mentre le sfumature tra il bene e il male si fanno sempre meno chiare, la mafia olia il marchingegno.

Una mafia in più

Dal 2000 in avanti, in Italia, si sono incasellate moltissime indagini e operazioni di polizia contro la criminalità nigeriana. Eppure, la prima sentenza che ha sancito l’appartenenza di una serie di esponenti dei cults (nello specifico, 36 individui affiliati ai Black Axe e agli Eiye) ad una associazione criminale di tipo mafioso è stata emessa soltanto nel 2010 dal Tribunale di Torino, per poi essere seguita a ruota da molte altre pronunce in diverse città. Ma, se il nostro Paese si è (faticosamente) dotato nel tempo di un efficace sistema legislativo contro il crimine organizzato e di numerosi organi antimafia, nonché del regime carcerario speciale del 41-bis per i mafiosi, l’Europa appare su questo versante ancora profondamente arretrata: non esistono altri Stati europei con un impianto simile né è stata ancora partorita una direttiva antimafia comunitaria. Un gran problema per fronteggiare una mafia che opera ormai su scala internazionale.

La verità che ci consegnano le indagini e le relazioni delle autorità preposte in Italia è sempre più chiara: la fruttuosa attività dei clan nigeriani riesce a coesistere accanto a quella delle mafie nostrane. A volte i membri dei cults si sobbarcano le attività illegali che creano più allarme sociale (come spaccio e prostituzione) e dunque risultano funzionali alla criminalità organizzata autoctona; altre volte hanno la capacità di ritagliarsi uno spazio di autonomia grazie alla specializzazione conseguita in determinati circuiti illegali, in particolare sfruttando la connessione del settore del traffico di esseri umani con quello degli stupefacenti e stringendo fertili rapporti con i cartelli turchi e colombiani. Consapevoli che evitare il conflitto sia l’unica strada percorribile per restare nell’ombra e agire indisturbati.

[di Stefano Baudino]

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