venerdì 19 Aprile 2024

La Turchia usa armi chimiche contro i curdi? Nessuno ha intenzione di verificarlo

Non si fermano le denunce dei curdi riguardo l’utilizzo di armi chimiche da parte della Turchia, l’ultima durante una manifestazione venerdì scorso di fronte l’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche (OPCW) all’Aia, Paesi Bassi. Il Partito dei lavoratori curdi (PKK) ha invitato più volte le organizzazioni internazionali ad indagare sulla questione. Secondo rapporti dell’HPG (ala militare del PKK) sarebbero oltre 300 i casi in cui la Turchia avrebbe utilizzato armi chimiche contro le forze curde nella regione del Kurdistan Iracheno. Dall’inizio dell’anno, nei combattimenti oltre 100 guerriglieri dell’HPG sono rimasti uccisi, di cui 38 come diretta conseguenza dell’utilizzo di gas chimici da parte dei turchi. Il PKK, a conferma delle accuse, ha pubblicato tramite l’agenzia di stampa Firat News Agency (ANF) video di gas che fuoriescono da tunnel utilizzati come protezione dai raid aerei turchi, autopsie e testimonianze di sopravvissuti. Inoltre, secondo fonti locali, negli ultimi mesi oltre 500 civili nella regione di Behdînan, una delle zone più colpite dai combattimenti, sono dovuti ricorrere a cure mediche a causa di questi gas. 

A giugno, Malin Björk, eurodeputato del Partito della sinistra svedese, per portare attenzione sulla questione aveva presentato un’interrogazione scritta a Josep Borrell, vicepresidente della Commissione europea e alto rappresentante dell’Unione europea per gli affari esteri e la sicurezza. Borrell, che aveva risposto all’interrogazione ad ottobre, ha ribadito l’ostilità dell’UE al PKK (ostilità utile, probabilmente, a non infastidire il presidente turco Erdogan, e comodamente accantonata quando i curdi combattevano contro i terroristi dello Stato Islamico – ISIS – in Siria e Iraq), affermando che l’Europa considera il partito come “un gruppo coinvolto in atti terroristici nell’ambito delle misure restrittive dell’UE”. Sebbene Borrell, abbia confermato che la Turchia sia militarmente attiva nel nord dell’Iraq, ha comunque respinto le accuse, dichiarando: “che non erano state presentate segnalazioni di attacchi chimici confermati.” 

I Curdi sono una popolazione di origine iranica. La loro regione storica è il Kurdistan (“terra dei Curdi”), il cui territorio è attualmente diviso tra Turchia, Iran, Iraq, Siria, Armenia e Azerbaigian. La parte più estesa del Kurdistan si trova però in Turchia, dove vivono circa 13 milioni di Curdi. Le tensioni tra il governo di Ankara e il PKK risalgono alla metà degli anni ’80 quando il partito decise di intraprendere la lotta armata per ottenere l’indipendenza della regione. Il conflitto da allora non si è quasi mai fermato, ad eccezione di brevi periodi in cui le parti erano riuscite a sottoscrivere un cessate il fuoco. Dal luglio 2015, le ostilità tra il PKK e il governo di turco sono riemerse a causa dei bombardamenti turchi che colpirono le posizioni del PKK in Iraq, nel mezzo della battaglia dei curdi contro l’ISIS. Le pressioni politiche da parte della Turchia hanno fatto sì che il PKK venisse inserito nell’elenco delle organizzazioni terroriste prima dagli Stati Uniti (nel 1997) e poi dall’Unione Europea (nel 2001). Con il pretesto della lotta al terrorismo negli anni, la Turchia ha potuto reprimere la resistenza curda nel quasi totale silenzio della comunità internazionale.

È preoccupante infatti che queste denunce non abbiano ancora dato origine a un’indagine indipendente da parte della comunità internazionale. Considerando che l’uso di armi chimiche è vietato dal Protocollo di Ginevra del 1925. Mentre la Convenzione sulle armi chimiche entrata in vigore nel 1997 e di cui la Turchia è firmataria, richiede a tutte i paesi che hanno firmato la convenzione, di distruggere le proprie armi chimiche e di consentire agli altri Stati firmatari la possibilità di richiedere un’ispezione in qualsiasi momento. Da qui appunto nasce l’invito del partito curdo alla comunità internazionale di richiedere l’apertura delle indagini.

Tuttavia, è risaputo, che l’utilizzo di armi chimiche – come altri aspetti delle relazioni internazionali – dipendono non tanto da che utilizzo ne fai, ma da chi sei. Quando il regime siriano nel dicembre 2012 fu’ accusato di utilizzare armi chimiche la notizia fece velocemente il giro del mondo. Mentre le accuse contro la Turchia difficilmente vengono menzionate nei media. Le prime segnalazioni riguardo all’utilizzo di tali armi da parte del governo turco risalgono alla fine degli anni ’80. Nel 2010, anche la nota rivista tedesca Der Spiegel aveva investigato sulla questione. Mentre nel 2018, segnalazioni simili erano pervenute da parte dell’Osservatorio siriano per i diritti umani (SOHR), organizzazione non governativa con sede nel Regno Unito che monitora il conflitto in Siria. Secondo SOHR, ad Afrin, proiettili utilizzati dalla Turchia e dalle fazioni sue alleate avevano lasciato (stando ai referti medici) diverse persone con difficoltà respiratorie e altri sintomi riconducibili all’utilizzo di armi chimiche. Accuse che vennero poi semplicemente respinte dagli Stati Uniti come “estremamente improbabili”.

Appare quindi evidente la volontà politica da parte della comunità internazionale di non voler investigare tali accuse per non infastidire il governo di Ankara. La Turchia è un membro strategico della NATO (è infatti nell’alleanza atlantica il secondo esercito in termini numerici dopo gli Stati Uniti) ed anche un importante partner commerciale per molti paesi europei. Inoltre non si può non menzionare l’uso politico fatto dal presidente Erdogan dei migranti siriani. Il governo turco non ha avuto remore nell’utilizzare persone che scappavano dalla guerra in Siria come uno strumento politico con cui ottenere concessioni e mettere pressione all’Europa.

[di Enrico Phelipon]

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