Miliardi e miliardi di alberi da piantare per salvare il pianeta dal riscaldamento globale. Questa la bella promessa avanzata da numerose multinazionali nell’ambito del World Economic Forum, la fondazione senza fini di lucro “impegnata a migliorare la condizione del mondo”. Un’ambizione, quella di riforestare la terra, apparentemente lodevole che tuttavia cela diversi lati oscuri. Primo fra tutti quello di gettare fumo negli occhi. L’intenzione di mettere a dimora miliardi di nuovi alberi, infatti, potrebbe allontanarci dal veder chiaramente la vera necessità: abbandonare immediatamente le fonti fossili. Senza contare poi che la misura non ha affatto il pieno sostegno della comunità scientifica, oltreché nasconde impatti sociali tutt’altro che scontati.
Non basta piantare alberi per salvare il mondo
«L’affermazione che piantare nuovi alberi sia la soluzione più efficace per il clima è semplicemente scorretta dal punto di vista scientifico ed è pericolosamente ingannevole». Così nel 2019 un gruppo di ricercatori ha smontato la tesi avanzata dallo scienziato Jean-François Bastin e colleghi secondo cui piantare una grande quantità di alberi fosse “la soluzione attualmente più efficace contro il cambiamento climatico”. Riforestare è indubbiamente una buona cosa, ma che sia risolutivo è tutto un altro paio di maniche. In primo luogo, perché la possibilità di piantare così tanti alberi da riuscire a riassorbire l’enorme quantità di anidride carbonica prodotta dai paesi industrializzati è semplicemente un’utopia. Infatti, le critiche non sono rivolte alla capacità delle specie arboree di mitigare il cambiamento climatico, bensì al vedere questa opzione come ad una soluzione miracolosa. «Piantare alberi rallenterebbe il riscaldamento del pianeta – hanno guarda caso precisato anche altri scienziati – ma l’unica cosa che potrà salvare noi e le generazioni future dal pagare un alto prezzo in termini di denaro, di vite umane e di danni alla natura è una riduzione rapida e significativa delle emissioni di anidride carbonica derivante dall’utilizzo dei combustibili fossili, che deve essere portata a zero entro il 2050». Eppure l’iniziativa di mettere a dimora miliardi di alberi è sempre più sulla bocca di tutti. In primis su quella dell’industria fossile che la vede come una comoda occasione per fare ambientalismo di facciata continuando così indisturbata a portare avanti le proprie attività climalteranti. Basti pensare, ancora una volta, ad Eni, l’azienda italiana in assoluto più impattante le cui promesse di dar vita a nuove foreste sono all’ordine del giorno. Ma non è la sola, al suo greenwashing si unisce quello di tante altre multinazionali che finora hanno dimostrato tutto fuorché di aver a cuore l’ambiente. Nestlé, ad esempio. Quella che, ad oggi, è ancora tra le prime compagnie del settore alimentare piu responsabili della deforestazione globale ha deciso di piantare 200 milioni di alberi all’interno e intorno alle fattorie da cui trae le sue materie prime. Meglio di niente, no? No: l’impatto va, in ogni caso, ridotto a monte, soprattutto considerando la storica lista di fallimenti legati a progetti di questo tipo.
Una truffa dagli impatti sociali imprevedibili
In nome della conservazione non si fa sempre del bene. Dalle comunità indiane Khadia sfrattate per far posto ad una Riserva per le tigri, alle popolazioni “pigmee” camerunensi perseguitate perché accusate di bracconaggio: non sono pochi infatti i casi in cui i diritti dei popoli indigeni sono stati calpestati con la scusa della protezione della natura. La storia ora rischia quindi di ripetersi. «Siamo particolarmente preoccupati perché Ursula Von Der Leyen ha annunciato che la Commissione Europea stanzierà 250 milioni di euro per proteggere le foreste del Bacino del Congo. Temiamo – ha commentato Survival International – che questo consisterà essenzialmente nella creazione di più Aree Protette in una regione in cui gli abusi su larga scala commessi contro i popoli indigeni nel nome della conservazione sono tragicamente già ben noti e documentati». In occasione della Cop26, infatti, sebbene si sia parlato dell’importante ruolo dei popoli indigeni nel contrasto alla crisi climatica, le parole non trovano sempre un pieno riscontro nei fatti. Stati e filantropi sono perfino arrivati a stanziare 1,7 miliardi di dollari a loro favore, in quella che però appare una mossa meschina e menzognera. «Accogliamo di buon grado i tentativi genuini di sostenere i diritti dei popoli indigeni alle loro terre e riconoscerli come migliori custodi dei loro territori. Tuttavia – ha aggiunto Survival – abbiamo diverse perplessità rispetto a questi proclami: il diavolo sta nei dettagli e molto dipenderà da come questi soldi verranno realmente gestiti e spesi. Sarà importante capire per esempio quanto dell’impegno finanziario annunciato siano fondi nuovi, e quanto sarà destinato semplicemente all’implementazione di progetti di compensazione di carbonio tramite le foreste, che storicamente hanno sempre fallito».
Piantare tanto e male fa più danni che altro
Le soluzioni basate sulla natura hanno un senso. Conservare e riqualificare i sistemi ecologici è efficace, indispensabile ed economicamente meno dispendioso di qualsivoglia infrastruttura volta a catturare l’anidride carbonica. La crisi climatica sarà infatti risolta solo se, da un lato, la transizione energetica alla rinnovabili verrà portata pienamente a termine e, dall’altro, se riusciremo a recuperare quanti più ecosistemi degradati possibile senza distruggerne di nuovi. Ma, specie in quest’ultimo caso, ogni azione va fatta con cognizione di causa. Piantare tanto e male, ad esempio, fa più danni che altro. Ogni territorio ha una propria vocazione ambientale, pertanto, andranno sempre messe a dimora le specie giuste al posto giusto. Nel farlo poi, sono necessarie pazienza, risorse e supporto scientifico. Solo quest’ultimo, infatti, è in grado di dettare linee guida che favoriscano una corretta riqualificazione ecologica. Tra l’altro spesso, se le cose sono fatte correttamente, è sufficiente ricreare delle condizioni ideali affinché la natura faccia poi il suo corso. Mentre piantare tanti alberi senza coerenza ecologica e senza gli adeguati accorgimenti è tutt’altro che benefico. Ed anche qualora le foreste siano in linea con le potenzialità vegetazionali locali, va ricordato che queste non rappresentano il massimo grado di diversificazione ambientale. La condizione che consente di ospitare il maggior numero di specie, difatti, è quella determinata da un grado di disturbo intermedio. Ciò non significa che riforestare non serva a nulla, piuttosto, indica che ciò vada fatto solo nel modo corretto e dove è realmente necessario. E soprattutto senza disturbare chi già custodisce, per di più senza bisogno di mirabolanti progetti, circa l’80% delle biodiversità mondiale.
[di Simone Valeri]
Il “verde” cresce spontaneamente…. con l’aumento di CO2.
Grazie, molto interessante, è da anni purtroppo che ce la raccontano con i “certificati verdi”, dobbiamo davvero provare a riprenderci in mano questo problema se vogliamo provare a risolverlo sul serio.