E come potevamo noi cantare con il piede straniero sopra il cuore, fra i morti abbandonati nelle piazze sull’erba dura di ghiaccio, al lamento d’agnello dei fanciulli, all’urlo nero della madre che andava incontro al figlio crocifisso sul palo del telegrafo? Alle fronde dei salici, per voto, anche le nostre cetre erano appese, oscillavano lievi al triste vento.
Quest’anno la Pasqua e l’anniversario della Liberazione cadono vicini e la poesia di Quasimodo mi pare intercetti tutti e due i giorni attraverso la Pietà della madre e del figlio.
Forse è sbagliato aggiungere parole perché Quasimodo stesso, da poeta dei tempi arcaici, in attesa di una piena libertà, lascia la sua cetra muta tra i salici, gli alberi che amano lo scorrere dell’acqua, cioè del tempo.
Una cetra mossa appena da quel vento che svolge il suo ruolo anche nel culmine della Passione, come un richiamo alla morte che non è stata vana.
Lasciamo ognuno al canto lieve del proprio cuore, perché ogni sentimento, ogni dolore, ogni passione abbia la propria voce, la propria ragion d’essere.
Senza nulla aggiungere se non l’intensità stupefatta di ciò che completamente non possiamo comprendere.
Come ogni vero sacrificio che si riempie di futuro, di un tempo giusto, senza limiti, come se la perdita contenesse una promessa.
La Corte Suprema degli Stati Uniti ha sospeso l’espulsione di presunti membri delle gang venezuelane, decisa dall’amministrazione Trump in base a una legge del 18esimo secolo. «Il governo è tenuto a non espellere alcun membro della presunta classe di detenuti fino a nuovo ordine di questa Corte», è stato scritto dai giudici nell’ordinanza. Trump aveva invocato l’Alien Enemies Act del 1798 per avviare l’espulsione dei migranti venezuelani accusati di appartenere alla gang Tren de Aragua, prima di espellerli in un carcere di massima sicurezza a El Salvador.
Nella Striscia di Gaza, non fa che aumentare il clima di terrore prodotto dagli attacchi dell’esercito israeliano: dall’alba di ieri, almeno settanta civili sono morti a causa dei continui raid dell’IDF, che hanno colpito case e campi profughi, falciando vite in ogni angolo del territorio, da Gaza City fino a Rafah. Mentre i corpi si accumulano nei corridoi degli ospedali ormai senza letti, il Programma Alimentare Mondiale delle Nazioni Unite ha avvertito che il sistema di aiuti umanitari è sull’orlo del collasso e la carestia incombe. In quello che è da mesi un teatro degli orrori, dove l’acqua è un miraggio e i generatori rimangono spenti, due milioni di persone sono ridotte a ostaggi affamati, privi di medicine e protezione.
Da nord a sud, l’esercito israeliano ha intensificato i bombardamenti: fonti mediche Palestinian Health Ministry riferiscono di colpi d’artiglieria e sortite aeree letali non solo nella già martoriata Gaza City e nel settore settentrionale, ma anche a Khan Younis e Rafah. Il personale sanitario ha riferito all’emittente Al Jazeera di ambulanze costrette a fermarsi per mancanza di carburante, di ambulatori trasformati in obitori e di bambini denutriti. I valichi restano chiusi da sei settimane: aiuti alimentari e medicinali marciscono oltre i confini. «Non è una guerra, è un assalto senza freni a persone inermi», scrive Jack Khoury sull’organo di stampa israeliano Haaretz, definendo «fuorviante» l’uso della parola “guerra” e ribadendo che Israele ha fatto dei civili di Gaza «ostaggi di uno strumento di pressione basato su fame e sete». Dal 18 marzo, 420mila persone sono state costrette a spostarsi di nuovo a causa delle evacuazioni sul 69% del territorio. Ieri, oltre settanta tra uomini, donne e bambini sono stati uccisi: tra questi, sette membri della famiglia Nassar a Zeitoun, sei a Khan Younis e dieci in un’unica abitazione a Bani Suheila.
Intanto, le organizzazioni umanitarie lanciano un grido d’allarme sui massacri perpetrati dall’esercito dello Stato Ebraico e dalla fame patita dal popolo palestinese. Le cifre sono agghiaccianti: oltre 51mila palestinesi uccisi finora e centinaia di operatori umanitari tra i caduti – almeno 400 soccorritori e 1.300 sanitari secondo l’ONU – spesso a causa di attacchi che non risparmiano nemmeno convogli e ospedali. Il raid domenicale sull’Al‑Ahli Arab Hospital, parzialmente operativo nel Nord, ha costretto la struttura a chiudere i reparti di terapia intensiva. Dopo diciotto mesi di conflitto e un assedio totale di sei settimane, il 95% delle 43 organizzazioni umanitarie internazionali e palestinesi ha dovuto ridurre o sospendere i servizi dalla fine del cessate il fuoco del 18 marzo.
«Due milioni di persone a Gaza, la maggior parte delle quali sfollate e senza reddito, dipendono interamente dagli aiuti alimentari», ha scritto ieri sulla piattaforma il Programma Alimentare Mondiale dell’ONU, evidenziando che «mentre le scorte diminuiscono e i confini restano chiusi, Gaza ha bisogno di cibo subito». I CEO di Save the Children e di altre undici ONG hanno sottolineato che «questa è una delle peggiori catastrofi umanitarie della nostra generazione». «Non possiamo dare alcun aiuto se non ci si garantisce la sicurezza», denunciano le organizzazioni, che segnalano almeno 9mila pallet di rifornimenti bloccati al di fuori di Gaza. Le ONG aggiungono che le nuove regole israeliane su visti e registrazione delle ONG – definite dal Segretario generale ONU «una pericolosa limitazione degli aiuti fino all’ultima caloria e chicco di farina» – rischiano di mietere altre vittime, impedendo di fatto qualsiasi intervento indipendente.
Intanto, il governo Israeliano ha definitivamente gettato la maschera sui suoi piani per Gaza. Lo ha fatto il ministro della Difesa israeliano, Israel Katz, che ha delineato una politica «chiara e inequivocabile» imperniata su alcuni punti fondamentali: occupare in maniera permanente la Striscia e bloccare tutti gli aiuti umanitari alla popolazione, proseguendo nel mentre con bombardamenti ininterrotti. Con il pretesto di creare una «zona cuscinetto» tra i palestinesi e gli insediamenti israeliani illegali, l’IDF (Israel Defence Forces, l’esercito israeliano) «non abbandonerà le zone bonificate e conquistate», ha detto Katz. Allo stesso tempo, al fine di esercitare pressioni su Hamas, verranno bloccati tutti gli aiuti umanitari, mentre saranno condotti «attacchi continui contro i terroristi di Hamas e le infrastrutture terroristiche». Come svelato pochi giorni fa da Haaretz, che aveva pubblicato i progetti fino ad ora rimasti segreti del governo di Netanyahu, il 16% dell’enclave sarà infatti destinato a diventare una «zona cuscinetto», nella quale le case dei palestinesi (o quel che ne rimane) saranno completamente rase al suolo e sarà vietato del tutto il ritorno dei legittimi proprietari. Contemporaneamente, sarà creato un corridoio, situato nel mezzo della Striscia, che permetterà a Israele di «controllare il traffico sulle strade strategiche, che sono al centro dei negoziati con Hamas».
Tito Livio, duemila anni fa, scriveva: «La guerra si nutre da sola». Questa massima suona ancora attuale, in un mondo segnato a varie latitudini da conflitti che si auto alimentano in una spirale fatta di interessi territoriali, economici e politici. Ma dal punto di vista economico la macchina bellica necessita di costanti fondi: solo nel 2023 la spesa globale destinata alla ricerca e alla produzione di armi, al mantenimento degli eserciti e – in generale – a quello che vine chiamato con un certo gusto dell’ossimoro “settore della Difesa”, ha toccato un nuovo record, superando i 2200 miliardi di dollari. A rendere possibile il mantenimento di questa colossale macchina ci sono innanzitutto le banche, senza i cui prestiti e investimenti il settore collasserebbe su sé stesso. Mentre alcuni istituti finanziari si impegnano per una finanza etica, molte delle banche più influenti, anche nel nostro Paese, continuano infatti a finanziare l’industria bellica, alimentando conflitti che destabilizzano intere regioni. È dunque essenziale esplorare il ruolo delle cosiddette “banche armate”, analizzando dati, strategie e implicazioni di un settore che incide direttamente sulla vita di milioni di persone. E anche capire quale scegliere se non si vuole essere complici del finanziamento bellico.
Il finanziamento dell’industria bellica
Il termine “banche armate” si riferisce agli istituti finanziari che forniscono supporto economico all’industria degli armamenti, sostenendo e facilitando la produzione e il commercio di armi attraverso vari strumenti finanziari. Questo fenomeno solleva questioni etiche e politiche, poiché il settore bancario non si limita a intermediare capitali, ma influenza direttamente lo sviluppo dei conflitti globali. Le banche armate contribuiscono al settore degli armamenti attraverso una serie di meccanismi, in primis quello dell’erogazione di prestiti, fornendo capitali ai produttori di armi e consentendo a tali aziende di investire in ricerca, sviluppo e produzione. Vi è poi il capitolo degli investimenti azionari: molte banche acquistano quote di società attive nella produzione di armamenti, traendo così profitti dalla vendita di armi. Spesso, inoltre, le imprese del settore della difesa emettono titoli di debito al fine di raccogliere capitali sui mercati finanziari, con le banche che facilitano queste operazioni garantendo l’acquisto delle obbligazioni e rivendendole agli investitori. In ultimo, le banche fungono sovente da intermediari nei flussi finanziari tra produttori di armi e governi, assicurando che i pagamenti delle esportazioni vengano effettuati in modo sicuro e discreto.
La banca, con sede a Boston, è tra i principali investitori (67 miliardi) in aziende del settore bellico.
A livello globale, secondo quanto attestato da un rapporto della Global Alliance for Banking on Values (GABV), tra il 2020 e il 2022 almeno 959 miliardi di dollari sono stati destinati all’industria della difesa da parte di banche, fondi di investimento e assicurazioni. A dominare questo mercato sono le istituzioni finanziarie statunitensi, con Vanguard (92 miliardi), BlackRock (68 miliardi) e State Street (67 miliardi) tra i principali investitori in aziende del settore bellico. Dietro la produzione e la vendita di armi, esiste un complesso sistema di finanziamenti che passa attraverso le banche. I primi 10 investitori europei hanno contribuito complessivamente con 79 miliardi di dollari, pari all’8% del totale, e sono tutti presenti tra i primi 40 istituti finanziari che investono nell’industria delle armi a livello globale. Sul podio si piazzano la francese BNP Paribas (14 miliardi), la tedesca Deutsche Bank (13 miliardi) e la francese Crédit Agricole (10 miliardi). I primi cinque investitori della regione Asia-Pacifico provengono invece tutti dal Giappone: hanno complessivamente investito 45 miliardi di dollari, pari al 5% del totale degli investimenti. La maggior parte degli investimenti nel settore degli armamenti è rappresentata dalle azioni, che ammontano a 660 miliardi di dollari, mentre le obbligazioni costituiscono meno dell’1% del totale. Tuttavia, questi dati sono basati su informazioni pubbliche limitate e, quindi, non forniscono un quadro completo della situazione. È probabile che le cifre reali siano significativamente più alte, poiché non esiste un database ufficiale in grado di tracciare in modo esaustivo tutti gli investimenti, i prestiti e i servizi finanziari forniti dagli istituti bancari e finanziari a livello globale all’industria degli armamenti.
L’industria delle armi, come qualsiasi altro settore economico, ha bisogno di finanziamenti per funzionare. Dallo sviluppo di nuove tecnologie alla produzione su larga scala, fino alla vendita a Stati e privati, tutto il processo richiede un forte supporto finanziario. Le banche forniscono capitale liquido, garanzie e accesso ai mercati internazionali, senza i quali molte aziende belliche non potrebbero sopravvivere. Inoltre, le banche agiscono come mediatori tra gli Stati e le industrie belliche, facilitando transazioni che spesso restano nell’ombra. I governi possono ad esempio acquistare armamenti attraverso finanziamenti agevolati, mentre le aziende possono espandere le loro operazioni grazie a prestiti bancari e emissioni obbligazionarie garantite dagli istituti finanziari.
Le banche che operano in Italia
La sede di Unicredit a Milano, uno degli istituti finanziari italiani con il più alto coinvolgimento nel settore degli armamenti
In Italia, la legge 185/90 prevede l’obbligo per gli istituti bancari di dichiarare le operazioni finanziarie legate all’export di armi al Ministero dell’Economia. Tuttavia, molti movimenti di capitale rimangono opachi a causa dell’utilizzo di filiali estere, di triangolazioni finanziarie e di strumenti derivati per mascherare le transazioni. Negli ultimi cinque anni, il legame tra il settore bancario italiano e l’industria bellica ha mostrato una tendenza in costante evoluzione, con picchi, frenate e nuove dinamiche che hanno ridefinito il panorama delle cosiddette “banche armate”. Il 2019 ha segnato una svolta significativa nella crescita delle transazioni bancarie legate all’export di armamenti. Secondo i dati ufficiali, l’importo complessivamente movimentato ha superato i 10 miliardi di euro, con un incremento del 27,5% rispetto al 2018. Il valore delle esportazioni definitive ha toccato i 9,5 miliardi di euro, una cifra impressionante se si pensa che nel 2014 l’export ammontava a soli 2,5 miliardi (la crescita è del 278% in soli cinque anni). Unicredit si è affermata come la banca più coinvolta nel settore, raccogliendo il 58,11% dell’ammontare complessivo delle transazioni legate alle sole esportazioni definitive. Seguivano Deutsche Bank, con il 10,61%, e Intesa Sanpaolo, con il 10,57%. Complessivamente, dunque, i tre gruppi hanno controllato oltre l’80% del mercato. L’anno successivo ha visto un rallentamento delle autorizzazioni individuali all’esportazione, con una riduzione del 3,86% rispetto al 2019, passando da 4,085 miliardi a 3,9 miliardi di euro. Tuttavia, questa flessione è stata bilanciata da un incremento del 177% nelle autorizzazioni globali di trasferimento, ossia le forniture destinate a programmi congiunti con altri Paesi dell’UE e della NATO. Il valore totale delle esportazioni è comunque calato del 10%, fermandosi a 4,6 miliardi di euro. Il Nordafrica e il Medio Oriente si sono confermati come le principali destinazioni, con vendite di armamenti a Egitto, Qatar, Arabia Saudita ed Emirati Arabi. Il volume delle transazioni bancarie segnalate è sceso a 7,8 miliardi di euro. In questo contesto, Intesa Sanpaolo ha sorpassato Deutsche Bank, posizionandosi al secondo posto tra gli istituti di credito più coinvolti nelle operazioni.
Il 2021 ha segnato un netto rimbalzo, con un aumento dell’87% nelle transazioni legate all’export di armi. Unicredit ha mantenuto la sua leadership, gestendo transazioni per 2,4 miliardi di euro (44% del totale), seguita da Intesa Sanpaolo (1,1 miliardi) e Deutsche Bank (803 milioni). A beneficiare di questa crescita sono state soprattutto tre aziende: Leonardo, che ha assorbito oltre il 55% dell’export, Fincantieri (20,36%) e Iveco Veicoli da Difesa (3,93%). Il 2022 ha confermato la tendenza alla crescita. L’importo complessivo delle transazioni bancarie, tra importi segnalati, accessori e finanziamenti, ha toccato quota 14,7 miliardi di euro, in aumento rispetto ai 13 miliardi del 2021 e quasi il doppio rispetto ai 6,9 miliardi del 2020. Unicredit si è confermata leader, con transazioni per circa 2,5 miliardi di euro, seguita da Intesa Sanpaolo (in calo del 27%) e Deutsche Bank (in calo del 7%). Un dato sorprendente è stato il balzo della Banca Popolare di Sondrio, che con 249,8 milioni di euro ha registrato un incremento del 60% rispetto all’anno precedente. Nel 2023si è assistito a un ridimensionamento delle operazioni. La Relazione governativa ha evidenziato un calo del 19% nel valore delle operazioni bancarie a sostegno dell’export definitivo di armi e una diminuzione del 42% nella nuova tabella relativa a finanziamenti e garanzie. Unicredit, pur restando leader del settore, ha visto le proprie transazioni ridursi del 46% rispetto al 2022. Tuttavia, alcune piccole banche locali hanno visto aumentare il loro coinvolgimento nel settore, come la Banca Valsabbina, che ha triplicato il proprio volume di transazioni, e la Banca di Credito Cooperativo di Barlassina, una nuova entrata nel settore.
Un futuro incerto
Le banche armate rappresentano un nodo cruciale nell’intreccio tra finanza e guerra. Senza il supporto del sistema finanziario, il commercio di armi su larga scala sarebbe molto più difficile, se non impossibile. Per questo motivo, diventa fondamentale che cittadini e consumatori siano consapevoli di come il loro denaro viene utilizzato. Chiunque abbia un conto corrente, un fondo pensione o un’assicurazione potrebbe, indirettamente, contribuire al finanziamento dell’industria bellica. Le banche utilizzano il denaro dei risparmiatori per investimenti e prestiti, e se una parte di questi fondi finisce nelle mani dei produttori di armi, diventa una questione etica che riguarda direttamente i cittadini. Molte banche, peraltro, non informano chiaramente i propri clienti su come vengono utilizzati i loro soldi, dunque chiedere trasparenza e scegliere istituti di credito etici è un primo passo per avere un maggiore controllo sul proprio denaro. Il finanziamento delle armi non è solo una questione economica, ma ha conseguenze dirette sulla stabilità globale. Molti conflitti sono alimentati da armi prodotte in Paesi che si dichiarano pacifici, mentre in realtà sostengono indirettamente guerre e violazioni dei diritti umani. Esistono banche eticamenteorientate, delle quali parleremo più avanti, che si rifiutano di finanziare l’industria bellica e investono invece in settori sostenibili. Informarsi e scegliere istituti bancari con politiche chiare sul disinvestimento dalle armi è un modo per contribuire alla pace in maniera concreta.
Sebbene abbia adottato alcune politiche di limitazione agli investimenti nel settore delle armi, Intesa Sanpaolo resta, insieme ad Unicredit, una delle principali banche coinvolte
Per quanto concerne il ruolo degli istituti di credito italiani, si può certamente constatare come varie banche del nostro Paese abbiano un ruolo chiave nel sostenere l’industria bellica, fornendo capitali, prestiti e servizi finanziari ai produttori di armi. Tra le principali si trovano Unicredit, con investimenti significativi nelle aziende produttrici di armi, incluse quelle che operano in Paesi coinvolti in conflitti armati, e Intesa Sanpaolo, la quale, sebbene abbia adottato alcune politiche di limitazione agli investimenti nel settore delle armi, continua a finanziare aziende del comparto difesa; tra le più attive ci sono poi Banco BPM, che fornisce servizi finanziari ad aziende produttrici di armi, con particolare attenzione al mercato europeo, e Mediobanca, coinvolta nelle operazioni finanziarie di grandi gruppi della difesa. In generale, l’andamento delle transazioni bancarie legate all’export di armi dal 2019 al 2023 evidenzia un’alternanza di fasi di crescita esplosiva e momenti di riduzione del volume d’affari. Se da un lato le grandi banche come Unicredit e Intesa Sanpaolo continuano a dominare il settore, dall’altro si sta assistendo all’ingresso di istituti di credito di dimensioni minori, che sembrano intenzionati a ritagliarsi uno spazio in questo business. La tendenza del 2023 suggerisce un possibile ridimensionamento del fenomeno, ma resta da vedere se si tratti di una flessione momentanea o dell’inizio di un cambiamento strutturale nel settore.
Quale banca scegliere per non essere complici
La maggior parte dei più grandi istituti finanziari italiani è dunque coinvolta, in maniera significativa o moderata, nelle attività legate all’industria militare. Questa dato emerge chiaramente dal rapporto ZeroArmi, elaborato dalla Fondazione Finanza Etica in collaborazione con Rete Italiana Pace e Disarmo, che rappresenta il primo strumento in Italia e in Europa finalizzato a valutare l’entità della partecipazione delle principali banche italiane nel finanziamento e nel sostegno del settore bellico. Lo studio è stato effettuato attraverso l’analisi di tre ambiti fondamentali: le partecipazioni azionarie in aziende della difesa, i finanziamenti diretti a programmi militari e il supporto logistico all’export di armamenti. In un quadro di crescenti spese militari e di legami sempre più consolidati tra il comparto della difesa e il sistema bancario, diventa fondamentale per i cittadini acquisire consapevolezza su come vengono utilizzati i propri risparmi.
La classifica
La valutazione delle banche assegna punteggi in un intervallo da 0 a 75, con una suddivisione in fasce di 5 punti che consente di classificare con buona precisione il livello di coinvolgimento delle banche nel settore degli armamenti. Gli istituti di credito che sommano tra 0 e 5 punti mostrano un coinvolgimento nullo o minimo; tra 20 e 40 punti il coinvolgimento è moderato, mentre oltre i 40 diventa significativo. I risultati rivelano che i due colossi Intesa Sanpaolo e Unicredit emergono come le banche più esposte, con un coinvolgimento significativo nel comparto militare. Questi istituti vantano storicamente rapporti consolidati con le grandi aziende della difesa, sostenendo operazioni di finanziamento e facilitazione dell’export di armamenti. In entrambi i casi, il range di valutazione si attesta a tra 40 e 45 su una scala di 75, con una «estesa partecipazione ad attività connesse all’industria a produzione militare, su tutti e tre gli assi considerati da ZeroArmi». Altri istituti, come Banca Mediolanum, Crédit Agricole, Mediobanca e ICCREA, presentano un livello di coinvolgimento considerato moderato (20/40 punti). Ciò significa che, sebbene con un impegno minore rispetto ai colossi del settore, queste banche mantengono comunque legami con aziende attive nella produzione e nel commercio di armamenti. Un livello di coinvolgimento minore (tra i 10 e i 20 punti) è attribuito a Cassa Centrale Banca, BPER, Banco BPM e Cassa Depositi e Prestiti, che, nonostante non possano essere definite totalmente “virtuose”, mostrano una propensione a ridurre il supporto diretto al settore militare e ad adottare una maggiore trasparenza operativa. L’unico istituto che, secondo le statistiche diramate nel report, si distingue per un coinvolgimento nullo o minimo è Banca Etica, che per statuto esclude qualsiasi finanziamento all’industria delle armi. Un dato che non sorprende, considerando che la banca ha sempre promosso un modello finanziario basato su criteri di sostenibilità e impatto sociale positivo, finanziando iniziative che promuovono il benessere collettivo, come energie rinnovabili, cooperazione sociale e progetti di economia sostenibile.
L’importanza della trasparenza
L’aumento delle spese militari globali e il sostegno degli Stati all’industria bellica rendono sempre più necessario un monitoraggio del ruolo delle banche. Il report ZeroArmi dimostra come il settore finanziario giochi un ruolo chiave nel supportare – o limitare – la proliferazione degli armamenti.
Le scelte dei risparmiatori possono influenzare queste dinamiche: conoscere il grado di coinvolgimento degli istituti bancari permette di optare per realtà più trasparenti e responsabili. Il dibattito si acuisce ulteriormente alla luce delle proposte di revisione della Legge 185/1990, la normativa che fino a oggi ha imposto obblighi di trasparenza sulle operazioni di esportazione di armi. L’eventuale allentamento di tali obblighi potrebbe infatti ridurre la capacità di monitorare il coinvolgimento delle banche nel settore bellico, rendendo ancora più difficile per i risparmiatori fare scelte informate. In questo scenario, strumenti come ZeroArmi assumono un’importanza strategica, offrendo informazioni che permettono di operare concreti distinguo sui legami tra istituti di credito e operazioni legate all’industria degli armamenti.
Almeno 143 persone sono morte, mentre decine di altre risultano disperse, dopo che, negli scorsi giorni, un’imbarcazione ha preso fuoco sul fiume Congo, nel nord-ovest della Repubblica democratica del Congo martedì scorso. Lo ha reso noto stamane Joseph Lokondo, funzionario del dipartimento civile, affermando che «il bilancio delle vittime è ancora provvisorio» e che «alcune sono morte per ustioni, altre per annegamento». Durante la navigazione «sembra che una donna abbia acceso la brace per cucinare: il combustibile, che si trovava lì vicino, è esploso, uccidendo molte donne e i bambini a bordo», ha riferito il funzionario.
Le Maldive hanno modificato la loro legge sull’immigrazione per vietare l’ingresso ai titolari di passaporto israeliano, in segno di protesta contro la guerra nella Striscia di Gaza. L’emendamento è stato approvato dal Parlamento lunedì 14 aprile e ratificato martedì dal presidente Mohamed Muizzu, secondo quanto riferito dall’ufficio presidenziale in una nota ufficiale. Il Servizio immigrazione delle Maldive ha precisato che i cittadini israeliani in possesso di un secondo passaporto potranno comunque entrare nel Paese. La decisione era stata inizialmente adottata dal Consiglio dei Ministri quasi un anno fa, ma è stata formalizzata solo questa settimana. «La ratifica riflette la ferma posizione del governo in risposta alle continue atrocità e agli atti di genocidio commessi da Israele contro il popolo palestinese», si legge nel comunicato diffuso dalla presidenza.
L’emendamento ratificato martedì 15 aprile, spiega la nota presidenziale, introduce una nuova disposizione alla Legge sull’Immigrazione, vietando espressamente l’ingresso nel territorio della Repubblica delle Maldive a persone in possesso di passaporto israeliano. Con esso, il governo delle Maldive intende mostrare solidarietà con la causa palestinese, «e il suo costante impegno nella promozione e nella tutela dei diritti del popolo palestinese». Il Paese intende esercitare pressione sullo Stato ebraico chiedendo una «assunzione di responsabilità per le violazioni del diritto internazionale» e rilanciando la propria condanna ai crimini di Israele sulle diverse piattaforme internazionali. Il presidente delle Maldive, continua la nota, «supporta l’istituzione di uno Stato di Palestina indipendente e sovrano, basato sui confini precedenti al 1967, con Gerusalemme Est come capitale, in conformità con le pertinenti risoluzioni delle Nazioni Unite e le norme giuridiche internazionali».
La scelta da parte del Paese insulare vuole portare avanti una azione di boicottaggio diretto contro lo Stato di Israele. Essa arriva dopo una decisione presa dal governo bengalese nello stesso ambito, al fine di limitare gli scambi turistici con Tel Aviv. Come riportato dal quotidiano bengalese The Daily Star, il governo ha recentemente ordinato alle autorità competenti per l’immigrazione di ripristinare la dicitura “eccetto Israele” sui passaporti bengalesi. Tale dicitura è stata presente su tutti i passaporti bengalesi per decenni, e impediva ai propri cittadini di viaggiare verso Israele, prendendo una chiara presa di posizione a favore della causa palestinese. Era stata rimossa nel 2021.
La giunta della Birmania ha dichiarato che estenderà il cessate il fuoco con i gruppi ribelli per sostenere gli sforzi di aiuto dopo il terremoto di fine marzo, che ha ucciso oltre 3.600 persone. L’annuncio è arrivato dopo un incontro con il Governo Ombra di Unità Nazionale (NUG), uno dei movimento di opposizione che combatte l’esercito regolare. Il 2 aprile, la giunta birmana aveva annunciato un cessate il fuoco di 20 giorni, facendo seguito a una analoga mossa da parte del NUG e di altri movimenti birmani. Malgrado nei primi giorni l’esercito abbia continuato gli attacchi, la tregua sembra avere retto. Non è chiaro di quanti giorni sarà esteso il cessate il fuoco.
Almeno per ora, è calato il sipario sul processo Eternit bis: Stephan Schmidheiny, miliardario svizzero e unico imputato, ha visto confermata la sua responsabilità per 89 morti da amianto a Casale Monferrato, in provincia di Alessandria. La Corte d’Assise d’Appello di Torino, presieduta da Cristina Domaneschi, ha ridotto la pena iniziale da 12 a 9 anni e 6 mesi, riconoscendo il reato di omicidio colposo anziché il dolo eventuale. È la sentenza attesa da un’intera comunità falcidiata da decenni di mesotelioma, quella che ha sfilato con nomi e volti delle vittime in aula: un elenco di dolore, rabbia e lacerazioni familiari. Eppure, tra applausi soffocati e proteste, in molti hanno parlato di una “giustizia a metà”.
In primo grado, Schmidheiny era stato ritenuto responsabile di 147 decessi per mesotelioma, assolto in 46 casi e con 199 archiviazioni per prescrizione. La nuova sentenza ha ulteriormente ridotto il campo: in 29 casi assoluzione “perché il fatto non sussiste”, mentre 29 sono finiti nuovamente prescritti. Resta, comunque, la condanna per quasi novanta omicidi colposi: numeri che raccontano la portata di una tragedia che continua a fare vittime a decenni di distanza. La Procura generale aveva puntato in alto, chiedendo l’ergastolo per omicidio con dolo eventuale: un’accusa che avrebbe comportato prescrizioni molto più lunghe e una più netta affermazione della responsabilità penale del magnate. Ma, come già in primo grado, i giudici hanno derubricato il reato a omicidio colposo. Il risarcimento civile è stato ridimensionato: da oltre 100 milioni previsti in primo grado, il Comune di Casale Monferrato riceverà 5 milioni e la Presidenza del Consiglio 500mila euro.
Il verdetto, per molti, non restituisce la piena dignità alle centinaia di morti che a Casale, operai e cittadini, hanno respirato inconsapevolmente la fibra killer. Bruno Pesce, cofondatore dell’Associazione dei familiari delle vittime dell’amianto (AFeVA), ha definito «relativo» il conteggio degli anni di pena, auspicando che la conferma avvenga in Cassazione e che «non scatti un’ulteriore prescrizione». Dalla requisitoria dei pm fino alla lettura del dispositivo, il clima in aula è rimasto carico di tensione. «I trionfalismi non appartengono all’ufficio del pubblico ministero», ha osservato Lucia Musti, procuratore generale del Piemonte, evidenziando l’attendibilità delle prove raccolte. Sul fronte opposto, la difesa – con gli avvocati Astolfo Di Amato e Guido Carlo Alleva – ha rivendicato «l’insufficienza del nesso causale» e preannunciato ricorso in Cassazione.
Questa sentenza arriva in un contesto segnato da precedenti amari. Nel 2014, la Cassazione aveva dichiarato prescritto il reato di disastro ambientale nel maxi-processo Eternit. Schmidheiny, in quel caso, era stato condannato in primo grado a 16 anni, poi 18 in appello, ma tutto era crollato con la prescrizione. Da lì, la procura di Torino aveva “spacchettato” l’inchiesta in diversi filoni. Quello di Casale è il più vasto, ma non l’unico: a Napoli, nel 2024, è stata confermata la condanna a 3 anni e 6 mesi per l’omicidio colposo di un operaio Eternit di Bagnoli. L’amianto lavorato nello stabilimento di Casale, chiuso nel 1986, ha lasciato una scia devastante. Dei 392 casi trattati nel processo, 62 erano ex lavoratori, gli altri 330 semplici cittadini del territorio: molti colpiti dal cosiddetto “polverino”, scarto di produzione usato per livellare cortili e strade, inconsapevoli del rischio mortale. «A Casale si continua a morire – ha ricordato Bruno Pesce – solo dal 2017 si contano altri 414 decessi per mesotelioma, esclusi dal processo».
L’emergenza amianto, infatti, non è finita. Secondo uno studio dell’OMS, Ancora oggi nel continente europeo muoiono almeno 80mila persone ogni anno a causa dell’amianto (oltre la metà delle morti di tutto il mondo). I dati italiani diramati dall’Istituto Superiore di Sanità (ISS), riferiti al periodo compreso tra il 2010 e il 2016, parlano di 10.607 decessi avvenuti nel nostro Paese per patologie causate dall’esposizione alla cosiddetta “fibra killer”. Usato prevalentemente in edilizia e nell’industria, l’amianto si può trovare in moltissime strutture comuni e frequentate come abitazioni, scuole, ospedali, luoghi di lavoro. I rischi maggiori sono legati alla presenza nell’aria delle sue fibre che, una volta inalate, si possono depositare all’interno delle vie aeree e sulle cellule polmonari. Queste fibre, mille volte più sottili di un capello, dopo essersi sedimentate nelle parti più profonde dei polmoni, possono rimanerci per diversi anni, anche per tutta la vita.
Cina e Cambogia hanno concordato di costruire insieme catene di approvvigionamento sicure e stabili e di rafforzare la cooperazione nelle infrastrutture di trasporto. La notizia arriva da una dichiarazione congiunta rilasciata oggi dal Ministero degli Esteri cinese in occasione di una visita di Stato del presidente cinese Xi Jinping in Cambogia. L’accordo inoltre promuove la firma del protocollo dell’area di libero scambio Cina-ASEAN entro la fine dell’anno, l’ampliamento dell’uso delle valute locali nel commercio e negli investimenti bilaterali, e il rafforzamento della cooperazione nel campo dell’energia pulita.
È sgargiante ed inquietante, è situato nel cuore di un’antica città Maya ma, al contrario delle aspettative, potrebbe essere stato costruito da artisti formati a più di mille chilometri di distanza: è l’altare rinvenuto a Tikal, in Guatemala, che secondo gli esperti potrebbe persino riscrivere ciò che sappiamo della geopolitica mesoamericana di 1.700 anni fa. A dettagliarlo è un nuovo studio condotto da un team internazionale di ricercatori, sottoposto a revisione paritaria e pubblicato sulla rivista scientifica Antiquity. Secondo le teorie degli autori, il monumento sarebbe la prova che popolazioni così distanti non avrebbero interagito solo con semplici scambi culturali, ma anche attraverso l’imposizione fisica e rituale di una potenza straniera. «Questa è la storia di un impero: di come regni importanti si siano spinti a cercare di controllarne altri. Questa nuova scoperta rafforza fortemente l’idea che non si sia trattato di contatti superficiali o di mero commercio. Si è trattato di forze belligeranti che hanno costruito un’enclave vicino al palazzo reale locale», ha commentato il coautore Stephen Houston, professore alla Brown University specializzato nella cultura Maya.
Fino a oggi, le interazioni tra gli abitanti di Teotihuacan – una vasta città dell’antico Messico centrale, situata vicino all’odierna Città del Messico – e Tikal – situata nell’attuale Guatemala, all’interno della giungla del dipartimento di Petén – erano note ma controverse: si parlava di scambi commerciali, contatti diplomatici e forse matrimoni dinastici, ma mancava una prova tangibile che mostrasse l’estensione e la profondità dell’influenza teotihuacana sul territorio Maya. La nuova scoperta, pubblicata sulla rivista Antiquity, sembra cambiare le carte in tavola: a partire dal 2019, un’équipe di archeologi statunitensi e guatemaltechi ha avviato una serie di scavi in una zona di Tikal che appariva come una semplice collina naturale. Al contrario delle previsioni, le scansioni geofisiche hanno invece rivelato la presenza di strutture sepolte e, seguendo muri e pavimentazioni attraverso tunnel sotterranei, i ricercatori sono arrivati a un altare riccamente decorato, con figure umane piumate e tracce di rosso, nero e giallo – colori e simboli propri del cosiddetto “Dio della Tempesta”, divinità più comune a Teotihuacan che nei culti Maya. Le tecniche artistiche e le posture delle sepolture, poi, hanno permesso agli esperti di collegare il complesso non solo simbolicamente, ma anche fisicamente, alla tradizione dell’altopiano centrale.
In particolare, durante le indagini, sotto l’altare sono stati ritrovati due corpi: un adulto – forse un uomo – e un bambino tra i due e i quattro anni sepolto in posizione seduta, pratica comune a Teotihuacan ma insolita per Tikal. Intorno all’altare, altri tre neonati sono stati rinvenuti con modalità simili a quelle osservate in tombe infantili della stessa area messicana. «L’altare conferma che i rituali di Teotihuacan venivano utilizzati proprio nel centro di Tikal», ha commentato Stephen Houston. Secondo l’antropologo e coautore Andrew Scherer, poi, gli edifici ritrovati accanto all’altare furono poi deliberatamente sepolti e mai più ricostruiti, nonostante la zona fosse in seguito considerata di pregio. Un gesto interpretato come un segno di rispetto, timore o rigetto per quella presenza straniera. Secondo gli esperti, l’episodio potrebbe collegarsi a un momento cruciale della storia Maya: nel 378 d.C., secondo alcuni epigrafi ritrovati negli anni Sessanta, Teotihuacan avrebbe rovesciato il sovrano di Tikal e installato un proprio fantoccio sul trono. L’altare, quindi, potrebbe essere stato costruito proprio in quell’epoca, come simbolo del nuovo potere. «È una storia antica quanto il tempo. Imperi che si scontrano per la supremazia culturale e materiale», concludono gli autori, aggiungendo che probabilmente, per i Maya, quella potenza straniera poteva apparire come una minaccia da ricordare ma da seppellire, trattando la zona di contatto come “radioattiva”.
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