martedì 4 Novembre 2025
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Cosa è successo tra Trump e Zelensky a San Pietro

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Ai margini del funerale di Papa Francesco, ieri, il presidente americano Trump e quello ucraino Zelensky hanno avuto un breve colloquio all’interno della basilica di San Pietro. Si tratta del primo incontro di persona dopo quello avvenuto a Washington lo scorso febbraio, nel corso del quale Trump e il suo vice, JD Vance, avevano umiliato il presidente ucraino in diretta mondiale. Ieri, i toni sono sembrati molto diversi. Il dialogo, durato 15 minuti appena, aveva, almeno all’apparenza, le sembianze di uno scambio non programmato. Zelensky ha parlato di un incontro «produttivo», mentre Trump ha postato sul proprio social Truth l’immagine del loro dialogo, senza commento. Poco prima di pubblicarla, Trump aveva scritto che «non c’era motivo per Putin di sparare missili su aree civili, città e paesi, negli ultimi giorni» e che probabilmente «non vuole fermare la guerra». Sebbene il pacifico scambio tra i due potrebbe essere un buon segnale di apertura verso nuovi dialoghi di pace, i dettagli del dialogo non sono stati ufficialmente resi pubblici, nè vi erano vice o altre personalità politiche ad assistervi. Dopo la fine dei funerali avrebbe dovuto svolgersi un secondo incontro, ma il presidente statunitense ha preferito rientrare a casa.

Secondo Zelensky, la portata dell’incontro è «storica». «Speriamo in risultati concreti su tutto ciò che abbiamo trattato. Proteggere la vita del nostro popolo. Un cessate il fuoco completo e incondizionato. Una pace affidabile e duratura che impedisca lo scoppio di un’altra guerra. Un incontro molto simbolico che ha il potenziale per diventare storico, se raggiungeremo risultati congiunti», ringraziando infine il presidente USA. Dal canto suo, Trump non ha utilizzato quei soliti toni minacciosi che è ormai abituato a usare con Zelensky: l’ultima volta risale a pochi giorni fa, quando Zelensky aveva dichiarato che l’ipotesi di cedere la Crimea alla Russia non era considerabile. Subito dopo le affermazioni di Zelenksy, era saltato (ufficialmente per non meglio precisate questioni logistiche) il summit internazionale per la pace in Ucraina che avrebbe dovuto svolgersi a Londra. In quell’occasione, Trump aveva definito le posizioni di Zelensky «molto dannose per i negoziati di pace con la Russia».

Subito dopo il post di Trump, pubblicato ieri su Truth, il senatore repubblicano Lindsay Graham ha fatto sapere di avere pronta «una proposta di legge bipartisan con quasi 60 firmatari che imporrebbe tariffe secondarie su qualsiasi Paese che acquisti petrolio, gas, uranio o altri prodotti russi. Il Senato è pronto a muoversi in questa direzione e lo farà a larga maggioranza se la Russia non abbraccerà una pace onorevole, giusta e duratura». Eppure, nelle stesse ore, secondo quanto riportato dall’agenzia di stampa russa TASS, Putin avrebbe incontrato l’inviato speciale statunitense Witkoff, confermando più volte di essere pronto a intavolare dei discorsi di pace con l’Ucraina «senza alcuna precondizione».

Con gli occhi del mondo puntati su uno degli eventi più importanti, ovvero i funerali di Papa Francesco, è difficile stabilire cosa sia stato effettivamente improvvisato e cosa non sia frutto di strategie politiche studiate nel dettaglio. Non è d’altronde la prima volta che il presidente Trump mostra di avere, in questa come altre questioni internazionali e interne, un atteggiamento altalenante: nelle parole del presidente USA, Zelensky è passato più volte dall’essere un solido alleato, a un «comico mediocre e dittatore non eletto» da umiliare in mondovisione, per poi tornare a essere un partner da difendere strenuamente. Si vedrà nelle prossime settimane se questo incontro ha una valenza che va oltre quella puramente simbolica di una foto d’effetto.

Un ex ministro condannato per Tangentopoli riavrà il vitalizio: voto unanime in Parlamento

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Scoppia il caso politico. Francesco De Lorenzo, 87 anni, ex ministro della Salute travolto da uno dei filoni dello scandalo Tangentopoli negli anni ’90, tornerà a percepire il vitalizio parlamentare che nel 2015 gli era stato revocato. L’ufficio di Presidenza della Camera, guidato da Lorenzo Fontana, ha votato all’unanimità per il ripristino dell’assegno. De Lorenzo, che in passato si è definito un «prigioniero politico», rivendica in un’intervista a Il Foglio: «Non l’ho chiesto io, il vitalizio. Ma era un diritto, e i diritti si difendono». 

Tra i voti favorevoli, anche quello del Movimento 5 Stelle, che in passato si era sempre schierato contro il ritorno dei vitalizi. Oggi la questione morale, però, non sembra essere più la priorità. La decisione non è stata gradita dal leader dei Cinquestelle, Giuseppe Conte, che, stando a quanto filtra, non ne sapeva nulla e che, dopo averla appresa dai quotidiani, avrebbe strigliato i suoi a cose fatte. Sebbene a livello tecnico ci fosse poco da fare, il voto dei grillini brucia e rappresenta l’ennesimo smacco, perché il Movimento avrebbe comunque potuto limitarsi all’astensione. Gli esponenti pentastellati hanno poi ammesso «l’errore politico» e hanno ribadito che «ci batteremo per una modifica». 

Quello di De Lorenzo fu uno dei casi più celebri all’epoca di Tangentopoli, tanto che l’allora ministro fu ribattezzato “Sua Sanità”. Le indagini rivelarono un sistema diffuso di tangenti e corruzione che travolse anche Farmindustria, l’associazione delle imprese farmaceutiche italiane. 

Condannato in via definitiva a cinque anni, per associazione a delinquere finalizzata al finanziamento illecito ai partiti e corruzione, la parabola dell’ex ministro inizia con l’arresto nel 1994, con l’accusa di aver ricevuto tangenti da aziende farmaceutiche in cambio di favori, come l’inclusione di specifici farmaci nel prontuario terapeutico nazionale e l’aumento dei prezzi dei medicinali rimborsati dal Servizio Sanitario Nazionale. 

L’immagine più plastica dello scandalo fu l’arresto di Duilio Poggiolini, responsabile del settore farmaceutico del ministero, che viene fermato a Losanna, in Svizzera, con accuse simili. Durante le perquisizioni nelle sue proprietà, le autorità scoprono un vero e proprio tesoro: lingotti d’oro, gioielli, opere d’arte, monete antiche e moderne (fra cui rubli d’oro dello zar Nicola II e krugerrand sudafricani) e una somma ingente di denaro contante. Sono necessarie dodici ore per catalogare i beni preziosi nascosti negli armadi e persino occultati in divani, materassi e pouf, accumulati grazie alle tangenti ricevute dalle aziende farmaceutiche. Vengono inoltre sequestrati oltre 15 miliardi di lire su un conto svizzero intestato alla moglie Pierr Di Maria.

Le indagini rivelano un intreccio di tangenti e favoritismi che vede coinvolti politici, dirigenti e aziende farmaceutiche che versavano mazzette per far includere i loro prodotti nel prontuario terapeutico nazionale, garantendosi enormi profitti a spese dello Stato e dei cittadini. 

Lo scandalo investe l’intero gotha dell’industria farmaceutica, rivelando una rete di favoritismi e manipolazione delle politiche sanitarie. Tra gli arrestati ci sono nomi importanti del settore farmaceutico: quello più rilevante è Ambrogio Secondi, presidente di Farmindustria e della Smith Kline, azienda che nel 2000 si fonde con Glaxo per diventare la GlaxoSmithKline, una delle più grandi multinazionali farmaceutiche mondiali, che ha pagato una tangente di 600 milioni di lire a De Lorenzo e a Poggiolini per far diventare obbligatorio, con la legge 165 del 1991, il vaccino contro l’epatite B (già in uso dal 1981 in forma volontaria).

Dopo un periodo di detenzione a Poggioreale, De Lorenzo ha seguito un lungo percorso di reinserimento, tra impegno nel sociale e nella ricerca oncologica, infine, una battaglia personale contro il cancro. La richiesta di riabilitazione risale al 18 luglio 2024, dopo che il Tribunale di Sorveglianza di Roma aveva accolto la richiesta. L’ex ministro aveva spiegato di aver risarcito integralmente le associazioni private e il Ministero e di non poter restituire altre somme. 

Alla fine, la Cassazione gli ha dato ragione, e ora anche la Camera ne prende atto: una decisione che ha provocato parecchio subbuglio, tra la destra che plaude e parla di “gogna mediatica” e di “gogna anticasta” e ritrae De Lorenzo come «il più grande perseguitato di Tangentopoli, secondo solo a Bettino Craxi» (citofonare a Filippo Facci su Il Giornale) e chi non può che rimarcare che la decisione mina la coerenza di chi, come il M5S ha fatto del giustizialismo – a corrente alternata – il suo cavallo di battaglia. 

E, così, il vitalizio ritorna. E con esso, torna anche il messaggio: in Italia, puoi corrompere, puoi finire in galera, puoi accumulare lingotti nel divano, ma se sai aspettare abbastanza, c’è sempre una poltrona – o un assegno – che ti aspetta. Basta avere pazienza. L’importante è non sfidare apertamente quel Sistema che, con la sua commistione tra lobby del farmaco e politica, fatta di porte girevoli e favori sotterranei, sa essere generosa e magnanima con chi lo serve.

Esselunga: cassa integrazione per 200 operai in risposta allo sciopero dei fattorini

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Prima la minaccia, poi i fatti: Esselunga ha avviato la cassa integrazione per oltre 200 dipendenti del magazzino di via Dione Cassio a Milano, addossando la responsabilità allo sciopero in corso indetto dalla Filt Cgil. Un conflitto che affonda le radici nelle condizioni di lavoro dei corrieri delle aziende fornitrici Brivio e Viganò, Deliverit e Cap Delivery. Mentre i fattorini protestano chiedendo migliori tutele e un’indennità di 10 euro giornalieri, il colosso della grande distribuzione preferisce mettere in cassa i propri dipendenti, accusando la protesta di aver «compromesso in modo significativo» il servizio di consegna online. Il sindacato, invece, denuncia la decisione come una precisa strategia aziendale per delegittimare la protesta.

L’avvio della cassa integrazione è stato comunicato dall’azienda in una nota ufficiale, parlando di «gravi disagi operativi» che avrebbero reso «inevitabile» il ricorso alla cassa integrazione «per evitare enormi sprechi alimentari». Una decisione che coinvolge oltre 200 lavoratori e che, secondo Esselunga, si è resa necessaria perché «la protesta messa in atto sta impedendo ai nostri dipendenti dei centri di distribuzione che preparano le spese poi affidate ai trasportatori per le consegne, di svolgere il proprio lavoro». Ma dietro quella che Esselunga presenta come una dolorosa scelta gestionale, si consuma uno scontro ben più ampio. La Filt Cgil denuncia che si tratta di una «scelta grave e unilaterale» messa in atto per «dividere lavoratori e sindacati e scaricare sulle spalle di chi lavora le conseguenze dell’assenza di volontà negoziale». Per il sindacato, quella della grande distribuzione «è una mossa strumentale» che non farà altro che rafforzare «la mobilitazione e la solidarietà tra lavoratori e sindacati», mostrando all’opinione pubblica «il vero volto di un’azienda che antepone minacce e profitti al rispetto delle regole e dei diritti fondamentali».

Al centro della protesta, che va avanti ormai da settimane, c’è la richiesta dei fattorini – centinaia di autisti che ogni giorno effettuano circa 10mila consegne – di vedersi riconosciuta un’indennità per il lavoro di facchinaggio, attività che, denuncia la Filt Cgil, non sarebbe prevista dal loro contratto. I lavoratori chiedono dunque «10 euro giornalieri in più» a compensazione di carichi fisici spesso insostenibili: ogni autista gestisce infatti circa 35 quintali di merce per turno, talvolta raddoppiando i turni giornalieri. La situazione ha avuto uno snodo importante il 23 aprile, durante un incontro in Prefettura a Milano tra sindacati e aziende. Un tavolo che si è chiuso con un nulla di fatto. «Brivio & Viganò ha partecipato al tavolo con piena disponibilità al confronto e con un concreto spirito propositivo», ha fatto sapere l’azienda, spiegando che «nonostante la volontà di venire incontro alle istanze emerse nel dialogo con le organizzazioni sindacali, le proposte sono state respinte». Di tutt’altro tenore la versione della Filt Cgil: «Le aziende, dopo ore di discussione, se ne sono uscite con una proposta vergognosa, offrendo ai lavoratori un euro in più al giorno», ha denunciato Agostino Mazzola. «Credo che un’uscita del genere si commenti da sola».

Mazzola non ha risparmiato critiche alla strategia di Esselunga, accusandola di voler «delegittimare la protesta, quando il diritto di sciopero è garantito dalla Costituzione». Secondo il sindacalista, l’azienda cerca di «mettere in cassa integrazione i lavoratori diretti, cioè i magazzinieri, per fare in modo che vedano come nemici i lavoratori indiretti, ossia i fattorini delle aziende esterne che però lavorano con divise che riportano il logo Esselunga e guidano camion con il logo Esselunga». Nel suo comunicato ufficiale, Esselunga auspica infine «un ritorno ad un operato responsabile e a un confronto costruttivo tra tutte le parti coinvolte», ribadendo che la sua priorità «rimane sempre quella di garantire un servizio di qualità ai nostri clienti e un ambiente di lavoro stabile per i nostri dipendenti». Intanto, la protesta continua. E mentre Esselunga invoca «la tutela delle fasce fragili» come giustificazione della cassa integrazione, i sindacati denunciano che sono proprio i lavoratori a pagare il prezzo più alto di una vertenza che, almeno per ora, sembra ancora lontana dalla conclusione.

Nigeria multa Meta per violazioni della privacy

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La Commissione federale per la concorrenza e la tutela dei consumatori (FCCPC) della Nigeria ha confermato una multa di 220 milioni di dollari contro Meta e WhatsApp per violazioni della privacy che hanno coinvolto oltre 51 milioni di utenti. Lo riportano le agenzie di stampa internazionali e africane, aggiungendo che il Tribunale per la concorrenza ha respinto il precedente ricorso di Meta ordinando il pagamento entro 60 giorni. Secondo l’indagine, condotta con la Nigeria Data Protection Commission (NDPC), sono state rilevate condivisioni non autorizzate di dati, mancanza di consenso degli utenti e pratiche discriminatorie. Per questo, Meta dovrà cessare immediatamente le violazioni, ripristinare il consenso degli utenti e presentare un rapporto entro il 1° luglio 2025.

Gli astronomi hanno scoperto pianeti simili alla Terra sparsi per tutto il cosmo

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Al contrario di quanto si pensava in precedenza, i pianeti noti come “super-Terre” potrebbero esistere su orbite più ampie rispetto alle stime precedenti e ciò, di conseguenza, implica che tali mondi rocciosi siano molto più comuni di quanto si sospettasse: è quanto emerge dal lavoro condotto da un team internazionale di oltre 60 scienziati, i quali hanno dettagliato i loro risultati all’interno di un nuovo studio sottoposto a revisione paritaria e pubblicato sulla rivista scientifica Science. Utilizzando il Korea Microlensing Telescope Network (KMTNet) e combinando i risultati con altre indagini e simulazioni teoriche, i ricercatori hanno scoperto che, potenzialmente, per ogni tre stelle potrebbe esistere almeno una super-Terra con un’orbita simile a quella di Giove, suggerendo quindi che mondi simili sono sparsi ovunque per il cosmo. «Siamo come paleontologi che ricostruiscono non solo la storia dell’universo in cui viviamo, ma anche i processi che lo governano», commentano i coautori, aggiungendo che lo studio ha anche permesso di suddividere gli esopianeti in due gruppi principali che gettano nuova luce sui processi di formazione planetaria.

Già da tempo gli astronomi sapevano che i pianeti di massa più piccola sono più numerosi di quelli giganti. Tuttavia, mancavano dettagli tutt’altro indifferenti che, a quanto pare, sono potenzialmente capaci di alterare radicalmente le teorie precedenti a riguardo. Fino ad oggi, infatti, la maggior parte degli esopianeti scoperti orbitava vicino alla propria stella, poiché individuare corpi più lontani risultava difficile. Tuttavia, grazie a una particolare tecnica chiamata “microlensing” – ovvero un fenomeno in cui la gravità di un oggetto in primo piano devia la luce di una stella più distante, creando un picco di luminosità – i ricercatori sono riusciti a superare questa difficoltà. Si sono affidati alle osservazioni del Korea Microlensing Telescope Network – con telescopi situati in Sudafrica, Cile e Australia – che ha permesso di osservare centinaia di milioni di stelle, comportando un aumento delle possibilità di trovare eventi di microlensing considerati “rari ma preziosi”. Combinando poi le anomalie luminose osservate con dati raccolti su scala ampia, i ricercatori sono riusciti a identificare un nuovo schema nella distribuzione dei pianeti.

In particolare, il team ha individuato due gruppi principali di esopianeti: da una parte le super-Terre e i pianeti simili a Nettuno, dall’altra i giganti gassosi come Giove e Saturno: «Sebbene gli scienziati sapessero già che esistevano più pianeti piccoli rispetto a quelli grandi, ora abbiamo dimostrato che esistono eccessi e deficit all’interno di questo schema generale», spiegano i coautori, aggiungendo che i risultati, confrontati con simulazioni teoriche sulla formazione dei pianeti, indicano che i meccanismi di origine potrebbero variare. Tuttavia, rimangono ancora alcuni interrogativi: «La teoria dominante sulla formazione dei giganti gassosi è quella dell’accrescimento incontrollato di gas, ma altri sostengono che potrebbe trattarsi sia di accrescimento che di instabilità gravitazionale», ha spiegato Andrew Gould, coautore dello studio e professore emerito di astronomia alla Ohio State University. Per distinguere tra le due ipotesi, quindi, saranno necessarie grandi quantità di dati a lungo termine e, in questo contesto, gli eventi di microlensing potrebbero rappresentare una svolta, secondo gli esperti.

Morta suicida Virginia Giuffre, accusatrice di Jeffrey Epstein

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Virginia Giuffre, 41enne che aveva accusato il Principe Andrea e Jeffrey Epstein di abusi sessuali, si è suicidata. Lo riportano le agenzie di stampa internazionali citando le dichiarazioni della famiglia, secondo la quale «è mancata nella sua fattoria nell’Australia Occidentale» ieri sera, venerdì 25 aprile. La polizia locale ha già confermato che la donna è stata trovata priva di sensi nella zona indicata e che «la sua morte non è considerata sospetta». Giuffre era una delle più accese accusatrici di Jeffrey Epstein. Nel 2019, ha pubblicamente affermato di essere stata “trafficata e costretta ad avere rapporti sessuali con i suoi amici”, tra cui il principe Andrea, quando aveva 17 anni.

Gaza: in pieno genocidio la Corte Internazionale di Giustizia concede un rinvio a Israele

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La Corte Internazionale di Giustizia ha rilasciato un comunicato in cui annuncia di aver concesso a Israele una proroga di sei mesi per presentare la propria difesa nel caso di genocidio intentato dal Sudafrica. La decisione accoglie le richieste dello Stato ebraico, formalmente arrivate lo scorso 27 marzo. Israele sosteneva che la preparazione della propria contro-memoria fosse stata «significativamente ostacolata a causa di una serie di questioni probatorie emerse in relazione al Memoriale della Repubblica del Sudafrica», e ha così ottenuto la proroga. La decisione è stata comunicata nel silenzio generale, mentre in Palestina continua a consumarsi un genocidio ai danni del popolo palestinese. La scelta della Corte lascia così tempo a Israele per portare avanti i propri crimini nell’impunità, come sottolineato dagli stessi quotidiani del Paese, che rimarcano come sia «improbabile» che il caso porti a effettivi risvolti «prima del 2026», se non addirittura «prima del 2027».

La proroga per la presentazione della contro-memoria israeliana è stata approvata con un’ordinanza del 14 aprile 2025. Essa fissa i nuovi termini di scadenza, precedentemente previsti il 28 luglio 2025, al 12 gennaio 2026. Nell’ordinanza si legge che la proroga del termine per il deposito del contro-memoriale di Israele, «era necessaria per una serie di motivi»: in primo luogo, perché la quantità degli elementi probatori presentati dal Sudafrica, rendeva «la portata del caso poco chiara»; successivamente, perché «le risorse necessarie per partecipare alla fase scritta» del procedimento consultivo sugli obblighi di Israele in Palestina richiesto dall’ONU «hanno avuto un impatto su quelle disponibili per la preparazione del contro-memoriale di Israele»; e, infine, perché «a Israele era stato richiesto di gestire contemporaneamente diverse procedure di intervento nel caso». Le motivazioni, insomma, sarebbero che le prove presentate dal Sudafrica erano troppe e che legali e autorità israeliani erano già impegnati in altri procedimenti.

I quotidiani israeliani hanno accolto con parziale favore la scelta della CIG, definendola in ogni caso una «vittoria». Il Jerusalem Post scrive che la proroga della CIG sarebbe al tempo stesso temporanea, ma significativa: temporanea, «perché nel gennaio 2026, o poco dopo, Gerusalemme dovrà rispondere alle accuse di genocidio relative alla sua condotta nella guerra in corso»; è «estremamente significativa, perché significa che è improbabile che si verifichino nuove gravi conseguenze legali o diplomatiche contro Israele in merito alle accuse di genocidio prima del 2026, o molto probabilmente non prima del 2027». Effettivamente, la proroga della CIG sembrerebbe comportare proprio questo: la possibilità per Israele di continuare il genocidio in Palestina nell’impunità. Gli stessi media israeliani definiscono la decisione della CIG «un’opportunità, se necessario, di continuare la guerra con meno controlli per altri otto mesi».

Il caso di genocidio contro Israele davanti alla Corte Internazionale di Giustizia è stato presentato dal Sudafrica nel dicembre del 2023. A gennaio 2024, la Corte dell’Aia ha stabilito che vi sono abbastanza elementi per valutare l’accusa, respingendo la richiesta di archiviazione di Israele. Nei mesi successivi, altri dodici Paesi e oltre mille ONG si sono aggiunte al caso schierandosi al fianco del Sudafrica. L’ultimo Paese è stata l’Irlanda (il 6 gennaio 2025), preceduta da Nicaragua (in data 23 gennaio 2024), Colombia (il 5 aprile), Libia (10 maggio), Messico (24 maggio), Palestina (31 maggio), Spagna (28 giugno), Turchia (7 agosto), Cile (12 settembre), Maldive (1 ottobre) e Bolivia (8 ottobre).

La decisione giunge proprio mentre Israele sta intensificando gli attacchi contro l’enclave, dopo la rottura unilaterale del cessate il fuoco: in neanche un mese e mezzo sono infatti quasi duemila i palestinesi uccisi dagli attacchi, mentre la decisione di non riprendere l’erogazione di aiuti umanitari sta mettendo a serio rischio la sopravvivenza di altri due milioni di persone. Oggi, il Programma Alimentare ONU ha annunciato di aver ufficialmente esaurito le proprie scorte di cibo nella Striscia. Tuttavia, come sottolineato dal relatore ONU sul diritto all’alimentazione, Michael Fakhri, Israele non subirà «alcuna conseguenza» per le sue azioni.

Iran, esplosione nel porto di Bandar Abbas: almeno 115 feriti

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La violenta esplosione di un container ha scosso stamane il porto di Shahid Rajaee nella città di Bandar Abbas, nel sud dell’Iran, provocando almeno 115 feriti e danneggiando edifici e automobili parcheggiate. Al momento non ci sono vittime confermate, tuttavia si teme che ci siano persone sotto le macerie. I media locali escludono al momento un sabotaggio estero, parlando di un incidente. La National Petroleum Refining and Distribution Company dell’Iran ha comunicato che l’esplosione «non ha avuto alcuna relazione con le raffinerie, i serbatoi di carburante, il complesso di distribuzione e gli oleodotti» della zona e che «gli impianti situati nella regione di Bandar Abbas sono attualmente operativi».

Ascoli Piceno, fornaia identificata per aver esposto uno striscione antifascista

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A raccontare tutto è la stessa titolare della panetteria tramite i propri social: Lorenza Roiati, titolare del panificio Assalto ai Forni, è stata identificata dalle forze dell’ordine per aver esposto uno striscione antifascista in occasione delle celebrazioni del 25 aprile, recante la scritta «25 aprile buono come il pane, bello come l’antifascismo». Secondo quanto da lei stessa dichiarato, gli agenti si sono presentati due volte all’ingresso dell’attività per chiederle se «c’entrasse qualcosa con l’affissione» e se si «assumesse la responsabilità» di quanto scritto sopra. La notizia si è diffusa rapidamente tanto che è stata già annunciata un’interrogazione in Parlamento dai deputati di AVS: «Non è un Paese sicuro quello in cui a venire identificati sono gli antifascisti» ha dichiarato Ilaria Cucchi.

L’intervento delle forze dell’ordine è stato filmato per intero da Roiati, la cui attività è molto conosciuta anche al di fuori di Ascoli Piceno. Un uomo identificatosi come commissario della polizia locale si presenta in panetteria insieme ad altri due agenti, tutti in borghese, interrogando la titolare sul contenuto dello striscione. Una volta confermato che fosse lei l’autrice, le sono stati chiesti i documenti d’identità. Roiati sottolinea allora che si tratta già del secondo intervento di quel genere avvenuto nel giro di poco: «è stato già fatto un accertamento da parte della polizia che si è fermata e ha avuto una telefonata di circa 10 minuti con i superiori, in cui è stato raccontato il contenuto incredibile di questo manifesto, profondamente sovversivo» sottolinea, con ironia. Quando il commissario insiste per avere le generalità, risponde «Lorenza Roiati, nipote di partigiani». Alla domanda in merito a quali fossero le violazioni riscontrate, l’agente ha risposto che verranno fatti «gli accertamenti d’ufficio che ci competono» e «se ci sarà qualche contestazione», questa arriverà in un secondo momento.

I fatti sono avvenuti nel pieno dei festeggiamenti di un 25 aprile già ampiamente segnato dalle polemiche, dopo l’invito del governo a celebrazioni «sobrie» per via della morte di Papa Francesco, i cui funerali si sono celebrati stamattina. Molti Comuni hanno cancellato le celebrazioni, anche se, in molti casi, i divieti imposti (come quello di cantare Bella Ciao) sono stati disattesi dalla cittadinanza. La deputata di AVS Ilaria Cucchi ha annunciato un’interrogazione in Parlamento in merito a quanto avvenuto ad Ascoli, mentre messaggi di sostegno sono giunti da buona parte dei gruppi di opposizione.

Wisconsin, giudice arrestata con l’accusa di aver protetto immigrato irregolare

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A Milwaukee, nello Stato del Wisconsin, la giudice Hannah Dugan è stata arrestata con l’accusa di aver ostacolato l’applicazione delle leggi sull’immigrazione, dopo aver permesso a un uomo senza documenti di fuggire dall’aula attraverso l’uscita riservata ai giurati. È il primo caso di arresto di un giudice da quando l’amministrazione Trump ha inasprito le politiche migratorie. Dugan è stata rilasciata dopo un’udienza preliminare. L’episodio ha scatenato proteste e riacceso il dibattito sugli arresti federali nei tribunali statali, che molti giudici ritengono danneggino la fiducia nel sistema giudiziario.