lunedì 10 Novembre 2025
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Burger vegetali: quanto sono salutari? Facciamo chiarezza

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Basta solo scrivere o pronunciare l’aggettivo «vegetale» per suscitare in qualsiasi persona l’idea di cibo sano, fresco e sostenibile. In effetti in molti casi è proprio così: i cibi vegetali sono senz’altro dei buoni alimenti – nella loro versione naturale, non processata e non raffinata dall’industria alimentare. Ma sarebbe sbagliato pensare che la dicitura “vegetale” sia sempre sinonimo di “sano”: le patatine fritte del McDonald’s sono in teoria un cibo vegetale, ma contengono oltre 20 additivi chimici e sono fritte in un olio che è molto tossico. Persino lo zucchero bianco e le marmellate col 20% di frutta sono cibi perfettamente vegetali, ma è noto che di salutare al loro interno non vi è nulla.  

I burger vegetali sono alimenti che, negli ultimi anni, hanno visto una diffusione enorme sul mercato e su cui l’industria si è buttata a capofitto dopo aver fiutato il grande margine di profitto da generare. Questo è stato possibile anche grazie al diffondersi delle diete vegane o plant based, cioè quelle diete in cui la maggior parte degli apporti alimentari sono costituiti da cibi vegetali e il cibo animale viene relegato ad una piccolissima fetta o escluso completamente. Sebbene preparare un burger vegetale sia una cosa piuttosto semplice che richiede pochi minuti, sia in casa che in una fabbrica (per la versione industriale dell’alimento), ciò che ci propone l’industria – per la maggior parte dei casi – è invece tutt’altro che semplice e salutare. Vediamo nel dettaglio cosa sono i burger vegetali in commercio.

Cibi ricomposti con grande uso di additivi

Possiamo controllare tutti i supermercati di ogni catena, ma alla fine per il 99% dei prodotti chiamati burger vegetali l’offerta è sempre la stessa: cibi ultra-processati a base di materie prime di bassissima qualità, additivi e insaporitori vari, studiati ad arte per dare la massima sapidità e suscitare nel consumatore la falsa idea di cibo salutare e sostenibile per il pianeta. Una delle convinzioni più diffuse in noi consumatori, infatti, è proprio quella di contribuire alla riduzione di emissioni di CO₂ acquistando qualsiasi cosa che sia “vegetale” e limitando tutto ciò che è “derivato animale”. Tutto ciò purtroppo è falso. I burger dell’industria, dunque, non sono affatto un composto semplice di ceci, zucchine e carote (per fare un esempio che tutti possono preparare a casa e poi cuocere in forno o in padella), ma si caratterizzano per essere un ammasso di sostanze di dubbia qualità, unite e amalgamate tra loro da additivi e esaltatori di sapidità. In Italia, i burger vegetali più venduti e conosciuti (se non altro per ragioni storiche e di età anagrafica) sono quelli di una nota azienda che da sempre riveste la propria immagine e basa il marketing sulla contrapposizione tra vegetale e animale, e che usa il motto «no al colesterolo». Ma se il marketing è una cosa, la realtà nutrizionale e l’analisi delle materie prime di cui si compone un alimento sono tutt’altra, e dal confronto delle due cose possiamo ottenere molte informazioni utili per le nostre scelte di spesa. 

Come si può vedere dall’elenco degli ingredienti nella foto in alto, di cibo vegetale vero e proprio c’è poco o niente. I componenti sono estratti di sostanze vegetali o parti di alimenti (proteine di soia concentrate e reidratate, glutine di frumento) ricomposte e unite a additivi, zuccheri (destrosio, estratto di malto), amidi, sale e insaporitori vari (estratto di lievito, alginato di sodio, estratto di lievito essiccato). Il tutto additivato di oli raffinati industriali (non estratti a freddo) di pessima qualità, come olio di colza e olio di girasole.

Altri prodotti, del tutto sulla stessa lunghezza d’onda di quello appena mostrato, contengono persino dei conservanti, e sono pubblicizzati anch’essi in TV come prodotti naturali e sani. Da notare, infine, che tutti questi prodotti ultra-processati, ma “Veg”, ottengono punteggi elevati e giudizi di ottima qualità nutrizionale sulle applicazioni usate per fare la spesa da tante persone. Anche se la qualità nutrizionale abbiamo visto essere molto bassa. 

Esistono dei prodotti di qualità? 

Ma allora non si salva nessun prodotto vegetale tra i burger in vendita nei supermercati? In realtà qualcosa si salva: basta cercare con attenzione e leggere la lista degli ingredienti. Nella foto di seguito, vi mostriamo un esempio di burger vegetale da supermercato che può valere la pena di prendere in considerazione, se non si ha la possibilità di preparare in casa questi alimenti. Il prodotto che ho selezionato è biologico, a differenza degli altri esempi visti finora, ed è composto solamente da alimenti interi e vegetali: non ci sono additivi, conservanti, zuccheri o esaltatori di sapidità.

La lista ingredienti ci parla di miglio (un cereale senza glutine), piselli, carote, ceci, riso, sale, succo di limone, curry (mix di spezie). Una bella differenza con i prodotti mostrati in precedenza. Infine, è cotto al forno invece che fritto: questo significa che non è venuto a contatto con dei pessimi oli industriali da frittura e dunque preserva una maggiore qualità nutritiva. Ovviamente, se ci pensate, la stessa ricetta può essere replicata e preparata in casa con un semplice composto di tutti questi ingredienti, frullati e poi cotti a piacere in forno o padella. Con del buon olio extravergine, magari. 

ONU: almeno 363 morti nel Mediterraneo centrale da inizio anno

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Almeno 363 persone sono morte e 290 risultano disperse sulla rotta del Mediterraneo centrale dall’inizio dell’anno a sabato 19 luglio. Lo ha reso noto l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (OIM) in Libia all’interno del suo ultimo aggiornamento pubblicato sul social X. Nella medesima fase temporale, ha precisato nel comunicato l’agenzia dell’ONU, i migranti intercettati in mare e riportati in Libia sono stati in totale 12.643, di cui 10.943 uomini, 1.148 donne, 407 minori e 145 di cui non si sono potuti conoscere i dati di genere.

Bloccano la produzione e riottengono il lavoro: vittoria per gli operai di Forlì

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Ci sono voluti 17 giorni di presidio. Diciassette giorni accampati davanti ai cancelli della loro azienda, sdraiati sull’asfalto sotto il sole torrido di luglio per impedire ai camion di entrare e uscire dallo stabilimento, bloccando di fatto la produzione. La polizia è intervenuta più volte per tentare di sgomberarli, mandando alcuni di loro all’ospedale. Ma alla fine ce l’hanno fatta: i 40 lavoratori della Sofalegname di Forlì hanno riottenuto il proprio posto di lavoro.

Domenica è stato firmato in Prefettura l’accordo con l’azienda, che prevede il blocco dei licenziamenti per sei mesi, l’attivazione di un contratto di solidarietà e l’impegno della ditta a risanare e rilanciare il sito produttivo.

Tutto era cominciato con la decisione di Gruppo 8 – colosso della produzione di divani e leader nel distretto dell’imbottito forlivese – di interrompere la collaborazione con la Sofalegname, a cui aveva affidato lavorazioni in subappalto. Una scelta che ha di fatto cancellato in un colpo solo i posti di lavoro per i 40 operai, in larga parte pakistani, che avevano lasciato Prato per trasferirsi in Romagna proprio per lavorare nello stabilimento.

Erano abituati a turni massacranti: 12 ore al giorno, sei giorni a settimana, stipendi ben al di sotto del minimo sindacale e sistemazione notturna improvvisata nello stesso magazzino in cui lavoravano. A dicembre, dopo una settimana di sciopero al gelo, erano riusciti a ottenere condizioni più dignitose: turni da otto ore per cinque giorni, un contratto stabile e una sistemazione temporanea in albergo. Ma quella parentesi è durata poco. Appena ultimate le ultime consegne, l’azienda li ha licenziati in blocco.

Secondo quanto riferito da Sarah Caudiero, del sindacato Sudd Cobas, il 3 luglio la Sofalegname ha annunciato l’intenzione di smantellare lo stabilimento, aprendo contemporaneamente un percorso per delocalizzare la produzione in Cina. Di fronte a questa prospettiva, i lavoratori sono tornati a manifestare, questa volta sotto il sole cocente. Hanno allestito tende davanti alla sede madre, la Gruppo 8, bloccando l’ingresso ai mezzi pesanti. La produzione si è fermata, con un danno economico che l’avvocato dell’azienda, Massimiliano Pompignoli, ha stimato in oltre mezzo milione di euro. «Stanno tenendo in ostaggio la produzione», ha commentato.

Secondo il sindacato, la vicenda mostra chiaramente una dinamica ben nota: una società “vuota”, la Sofalegname, viene usata per assumere manodopera a basso costo in condizioni di sfruttamento. Quando, grazie alle proteste, quei lavoratori riescono a ottenere un contratto regolare, l’azienda chiude i battenti e sposta altrove la produzione. «Un copione già visto a Prato – ricorda Caudiero – dove gli operai dormivano nelle fabbriche fino al 2013, quando un incendio nella ditta Teresa Moda uccise otto persone nel sonno».

Anche in quel caso, come in quello della Sofalegname, le aziende coinvolte avevano legami con la Cina. La Gruppo 8, infatti, fa capo alla multinazionale HTL, con sede a Singapore. «Vogliono il marchio Made in Italy – conclude Caudiero – ma con le regole di altri Paesi. Quando capiscono che devono rispettare le leggi italiane, prendono e se ne vanno».

Nei giorni più duri del presidio, la Regione Emilia-Romagna aveva proposto di fare da tramite per consentire ai lavoratori di accedere alla cassa integrazione. Ma l’offerta è stata rifiutata: gli operai non volevano accedere agli ammortizzatori sociali, bensì tornare al lavoro, a pieno titolo e con un contratto regolare. Una scelta di dignità e determinazione che ha guidato tutta la protesta.

La situazione è degenerata lunedì scorso, quando la polizia è intervenuta per impedire il blocco di un camion in uscita. I manifestanti, seduti a terra per chiudere il passaggio, sono stati sgomberati con la forza: tre lavoratori sono finiti in ospedale. Nei video diffusi dai sindacati si vedono agenti strattonare e spingere i manifestanti. «Il messaggio che passa è che le aziende possono fare tutto, e se qualcuno protesta, arriva la polizia a zittirlo», ha commentato Caudiero.

Ma nonostante la repressione, il presidio è continuato, coinvolgendo anche rappresentanti della Regione Emilia-Romagna e il senatore del Movimento 5 Stelle Marco Croatti che, dopo aver incontrato i manifestanti venerdì, aveva annunciato un’interrogazione parlamentare.

La firma dell’accordo è arrivato come un colpo di scena: appena il giorno prima la Sofalegname aveva diramato un comunicato dai toni minacciosi, nel quale dichiarava che, se i lavoratori non fossero rientrati «nei ranghi della legalità» interrompendo il presidio, si sarebbe proceduto con i licenziamenti di massa. Poche ore dopo, sono state accolte tutte le richieste fatte dagli operai e dal sindacato. L’accordo ha portato a un’intesa che allontana lo spettro della chiusura e apre una nuova fase. Nei prossimi giorni sarà convocato un tavolo tecnico permanente per definire il nuovo assetto organizzativo dello stabilimento.

 «Ci chiamavano irresponsabili per non aver accettato accordi che avrebbero solo sancito la fine dello stabilimento – hanno dichiarato i sindacalisti di Sudd Cobas – Ma abbiamo resistito. Questo accordo dimostra che un’alternativa era possibile fin dall’inizio. La nostra lotta è servita».

Siria: inizia l’evacuazione dei beduini da Suwayda

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Le squadre della protezione civile siriana hanno iniziato l’evacuazione delle famiglie beduine dalla città a maggioranza drusa Suwayda, che negli ultimi giorni era stata teatro di scontri tra milizie beduine e druse. Da quanto riporta l’agenzia di stampa statale Sana, le operazioni sono iniziate ieri, e hanno coinvolto 1.500 civili la maggior parte dei quali donne, bambini e anziani, appartenenti alle famiglie rimaste intrappolate a Suwayda. La popolazione è stata spostata in rifugi nella campagna di Daraa, governatorato a ovest di Suwayda. Le squadre hanno anche trasportato più di 10 feriti in ospedale per cure mediche urgenti.

Repubblica Democratica del Congo e ribelli del M23 firmano un fragile accordo per una tregua

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A Doha è stata firmata una dichiarazione di principi per porre fine ai combattimenti nel Congo orientale tra la Repubblica Democratica del Congo (RDC) e la milizia ribelle M23. Si tratta di un nuovo, fondamentale tassello nel tentativo di costruire un percorso di pace duraturo in una regione in guerra da oltre trent’anni. Questo accordo segue quello siglato lo scorso 27 giugno a Washington dai ministri degli Esteri di Ruanda e RDC e rappresenta un ulteriore passo avanti in un processo che punta al ristabilimento di una pace vera. L’intesa, denominata Dichiarazione di principi, prevede che entrambe le parti si astengano da attacchi armati, dalla «propaganda d’odio» e da «qualsiasi tentativo di conquistare con la forza nuove posizioni sul terreno». Il documento sottolinea inoltre l’impegno congiunto del governo di Kinshasa e della milizia M23 nel ripristinare il controllo statale «su tutti i territori della RDC».

Il contesto però resta estremamente complesso. Dall’inizio dell’anno, a seguito di una massiccia offensiva, la milizia M23 ha conquistato le principali città del Nord e Sud Kivu, Goma e Bukavu. Da febbraio, queste città sono sotto il controllo militare e amministrativo dell’Alleanza del Fiume Congo (AFC), una coalizione di gruppi armati dell’est del Paese guidata proprio dall’M23.

Le reazioni delle organizzazioni internazionali sono state positive. L’Unione Africana (UA) e le Nazioni Unite hanno accolto con favore la firma della Dichiarazione. Bruno Lemarquis, Vice Rappresentante Speciale del Segretario Generale dell’ONU nella RDC, ha affermato: «Questa importante dichiarazione segna una svolta verso l’allentamento delle tensioni e la protezione dei civili gravemente colpiti dal conflitto». Sulla stessa linea Mahmoud Ali Youssouf, presidente dell’UA, ha definito l’intesa «una pietra miliare» verso la pace nella regione. Tuttavia, la solidità dell’accordo appare già fragile. I motivi sono diversi, a cominciare dal peso della storia. La Dichiarazione di principi arriva infatti al termine di un’avanzata durata tre anni da parte della milizia ribelle, che già nel 2012 aveva conquistato Goma per poi ritirarsi in seguito a un accordo che prevedeva la smobilitazione dei suoi uomini e il loro reinserimento nell’esercito regolare. Un’intesa che fallì e che segnò uno dei tanti episodi in cui accordi simili si sono rivelati inefficaci nel portare una pace duratura nell’est del paese.

Negli anni, i tentativi di dialogo tra Kinshasa e M23 si sono moltiplicati senza successo, fino a interrompersi del tutto, quando il governo congolese ha più volte rifiutato di sedersi al tavolo con rappresentanti militari dell’M23, considerati terroristi. Anche oggi, le divergenze tra le parti restano evidenti. A poche ore dalla firma dell’accordo, i rispettivi portavoce hanno rilasciato dichiarazioni contrastanti. Patrick Muyaya, portavoce del governo congolese, ha scritto su X che l’accordo «tiene conto delle linee rosse che abbiamo sempre difeso, in particolare il ritiro non negoziabile dell’AFC/M23 dalle parti occupate, seguito dallo spiegamento delle nostre istituzioni». Immediata la replica di Bertrand Bisimwa, portavoce dell’M23, che ha precisato: «L’accordo parla di un ripristino dell’autorità statale, ma non di un ritiro degli effettivi sul campo». Dunque, un accordo sì, ma non su tutto. Il calendario però impone ritmi serrati: entro l’8 agosto entrambe le parti dovranno presentare una proposta dettagliata da discutere, con l’obiettivo di arrivare a un’intesa definitiva entro il 18 agosto.

Il dialogo avviato a Doha non nasce dal nulla. Già a marzo, il Qatar aveva ospitato un primo incontro tra i presidenti di Ruanda e RDC, Paul Kagame e Felix Tshisekedi, il primo summit diretto dopo mesi di silenzio e tensioni. I colloqui iniziati dal paese arabo hanno portato all’accordo di Washington di giugno e ora alla Dichiarazione firmata sabato. Resta da capire se, come già fatto da Donald Trump, il ruolo di mediazione del Qatar possa essere legato a futuri accordi sull’estrazione e lo sfruttamento dei ricchissimi giacimenti minerari della RDC, anche se ufficialmente non se ne è ancora parlato.

La speranza è che questa tregua possa finalmente tradursi in una pace vera. In trent’anni di guerre, tutte motivate dal controllo delle immense risorse minerarie della regione, la popolazione civile ha vissuto un incubo fatto di massacri, stupri, sfollamenti e sfruttamento. Le stime parlano di un bilancio tragico: tra i 6 e gli 8 milioni di morti, oltre 7 milioni di sfollati interni e altri milioni rifugiati nei Paesi confinanti. Ma la strada verso la pace resta lunga. Nell’est della RDC non operano solo M23 e AFC: si contano più di 100 formazioni paramilitari, spesso in lotta tra loro e col governo per il controllo del territorio e delle sue risorse. In questo scenario, i congolesi fanno fatica a credere ancora in una pace possibile. Eppure, è proprio su questa speranza che si costruisce ogni tentativo, anche fragile, di porre fine a un conflitto che dura ormai da troppo tempo.

Brasile: convocati i legali dell’ex presidente Bolsonaro

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Il giudice della Corte Suprema brasiliana Alexandre de Moraes ha convocato i legali dell’ex presidente Bolsonaro, accusando il loro assistito di aver violato gli ordini restrittivi impostigli la scorsa settimana. Bolsonaro, nello specifico, avrebbe utilizzato le proprie piattaforme social; Moraes ha chiesto ai legali spiegazioni entro 24 ore, termine entro il quale potrebbe emettere un mandato d’arresto. Bolsonaro è sotto processo con l’accusa di aver pianificato un golpe per impedire all’attuale presidente Lula di insediarsi nel gennaio 2023; lo scorso 18 luglio gli sono state imposte misure restrittive con l’accusa di aver favorito interferenze straniere da parte di Trump. Moraes ha inoltre congelato i beni del figlio di Bolsonaro con la stessa accusa.

Ricercatori italiani hanno scoperto una proteina che ripara il DNA e protegge il cervello

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Una proteina che finora era conosciuta solo per il suo ruolo nella divisione cellulare potrebbe diventare la chiave per lo sviluppo di nuove terapie contro le malattie genetiche rare e i disturbi neurodegenerativi: è quanto emerge da una nuova ricerca condotta dall’Istituto di biochimica e biologia cellulare del Consiglio nazionale delle ricerche di Napoli (Cnr-Ibbc) in collaborazione con l’Università degli Studi di Napoli “Federico II, sottoposta a revisione paritaria e pubblicata sulla rivista scientifica Autophagy. Secondo gli autori, la proteina DDX11 non solo apre la doppia elica del DNA ...

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Il Belgio ha arrestato due soldati israeliani per crimini di guerra

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Le autorità del Belgio hanno trattenuto e interrogato due cittadini israeliani che avevano partecipato al festival di musica elettronica Tomorrowland, vicino ad Anversa. L’azione fa seguita a diverse segnalazioni presentate da gruppi che si battono per i diritti del popolo palestinese, che li hanno accusati di gravi violazioni del diritto umanitario internazionale a Gaza. Secondo la procura federale, i due uomini – identificati come soldati israeliani – sono stati rintracciati e ascoltati dalla polizia. Dopo l’interrogatorio, sono stati rilasciati. La magistratura ha agito sulla base della giurisdizione extraterritoriale prevista per i crimini di guerra. «Non saranno forniti ulteriori dettagli in questa fase dell’indagine», si legge in una nota delle autorità.

L’antiterrorismo irrompe a casa di Chef Rubio per i suoi post contro Israele

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Alle 7 del mattino di giovedì 17 luglio, un gruppo di agenti della sezione antiterrorismo della Questura di Roma è entrata a casa di Gabriele Rubini – meglio noto come chef Rubio – per perquisire il suo appartamento e sequestrare tutti i suoi apparecchi elettronici. A renderlo noto oggi, lunedì 21 luglio, è Alberto Fazolo, giornalista che conosce personalmente il cuoco. L’accusa è quella di avere incitato all’odio razziale; essa è stata mossa sulla base di due post pubblicati dallo stesso Rubini sulla piattaforma social X in cui lo chef esprimeva dure critiche verso Israele: «Morte al sionismo e alla colonia ebraica. Lunga vita alla Palestina e ai nativi semiti palestinesi», recitava uno di questi. Non è la prima volta che Gabriele Rubini viene perseguitato per la sua attività in sostegno del popolo palestinese: a maggio dell’anno scorso era stato picchiato violentemente da 6 persone che si erano appostate sotto la sua abitazione armati di martelli e mattoni.

I fatti del 17 luglio sono stati resi noti solo oggi da Fazolo, incaricato dallo stesso Rubini di rendere nota la vicenda per conto suo, perché privato dei propri dispositivi elettronici. Quando gli agenti dell’antiterrorismo sono arrivati presso il suo appartamento, Rubini era già in piedi. Nel corso della perquisizione, ha spiegato Fazolo a L’Indipendente, gli agenti, dotati di decreto motivato del giudice (il cosiddetto “mandato di perquisizione”) hanno cercato in tutta la casa del noto cuoco dispositivi tecnologici, e hanno sequestrato telefono, portatile, tablet e svariate chiavette USB. Dopo l’irruzione in casa, Rubini è stato portato presso il commissariato di Frascati dove è stata fatta una prima copia del materiale contenuto nei dispositivi; le operazioni sono continuate un totale di 12 ore e 50 minuti, e i dispositivi risultano ancora tutti sotto sequestro. «Gabriele è libero, ci tiene a garantire che sta bene, ma per un po’ non avrà modo di comunicare attraverso i suoi canali o recapiti», ha fatto sapere Fazolo.

La perquisizione e il sequestro erano stati disposti nell’ambito di una indagine nella quale Rubini risulta sotto accusa per la presunta violazione dell’articolo 604bis, comma 1b, ossia «perché istigava a commettere violenza per motivi etnici e nazionali». La possibile pena va da sei mesi a quattro anni. L’accusa si basa sulla pubblicazione di due post su X: «Morte ai diplomatici complici del genocidio in atto da 77 anni, morte a colonialismo, suprematismo, razzismo e odio antimusulmano. Morte quindi al sionismo e alla colonia ebraica. Lunga vita alla Palestina e ai nativi semiti palestinesi», recitava uno di questi; «Che differenza c’è tra un impiegato dell’ambasciata della colonia ebraica e un soldato suprematista ebraico che massacra i palestinesi per il loro solo esistere e resistere? Che uno esegue gli omicidi (Eichmann) e l’altro fornisce legittimità e mezzi per farlo impunemente», l’altro.

Le disposizioni, ha osservato Fazolo a L’Indipendente, sono giunte sui banchi dell’antiterrorismo, malgrado solitamente i casi sui reati commessi sui social vengano assegnati alla Polizia Postale. «Gabriele dopo tutto è da tempo vittima di attenzioni e di una campagna di demonizzazione», ha rimarcato Fazolo: già nel marzo del 2024, infatti, era finito sotto indagine per istigazione all’odio, mentre nel maggio dello stesso anno è stato picchiato da 6 persone appostatesi davanti a casa sua, che lo hanno colpito con martelli e mattoni. Questa ultima vicenda era stata riportata dallo stesso Rubini, attraverso la pubblicazione di un video sul social X, in cui mostrava il suo volto tumefatto e insanguinato. «Sull’indagine per aggressione», ci spiega Fazolo, «non c’è stato alcun proseguimento».

Gaza, raid israeliani provocano 134 morti in 24 ore

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Nelle ultime 24 ore, 134 persone sono state uccise e 1.155 ferite nella Striscia di Gaza a causa degli attacchi israeliani, secondo il ministero della Salute di Gaza gestito da Hamas. Dall’inizio del conflitto, il 7 ottobre 2023, il bilancio è salito a 59.029 morti e 142.135 feriti. Intanto, le forze israeliane hanno avviato un’operazione di terra a Deir al-Balah, nel centro di Gaza, dopo aver ordinato l’evacuazione dell’area. I media israeliani hanno mostrato per la prima volta carri armati in azione nella zona. L’offensiva ha sollevato le proteste delle famiglie degli ostaggi israeliani, preoccupati per la sorte dei loro cari.