lunedì 5 Maggio 2025
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La Svezia apre la caccia al lupo tra le proteste degli animalisti

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In Svezia ha preso ufficialmente il via oggi la caccia al lupo, autorizzata dal governo con l’obiettivo dichiarato di dimezzare la popolazione di questo predatore, nonostante il suo stato di pericolo d’estinzione. Nello specifico, il piano prevede l’abbattimento di 30 esemplari, corrispondenti a cinque interi branchi familiari. La decisione ha suscitato dure reazioni da parte di attivisti ed esperti di conservazione: secondo i critici, infatti, tale operazione violerebbe le normative europee e internazionali, come la Convenzione di Berna, che proibisce di ridurre le specie protette al di sotto di un livello sostenibile.

Attualmente, la popolazione di lupi in Svezia è pari a 375 esemplari, risultando già in calo del 20% rispetto al 2022-2023. Tale diminuzione è stata attribuita all’aumento della pressione venatoria, che ha storicamente contribuito alla precarietà della presenza di lupi nel Paese. La Svezia, infatti, non ha avuto una popolazione riproduttiva stabile di lupi tra il 1966 e il 1983, e la specie è oggi inserita nella lista rossa dell’Unione internazionale per la conservazione della natura (IUCN) come in pericolo. L’esecutivo svedese ha giustificato questa scelta affermando che il nuovo obiettivo è fissare un minimo di 170 lupi per garantire uno «stato di conservazione favorevole», riducendo il limite attuale di 300. Tuttavia, gli ambientalisti avvertono che questa soglia metterà ulteriormente a rischio la sopravvivenza della specie. «Il governo ha ignorato le leggi europee sin dal 2010, autorizzando quote di caccia annuali nonostante la protezione speciale del lupo», ha denunciato Magnus Orrebrant, presidente della Swedish Carnivore Association. La Commissione Europea ha già avviato una procedura di infrazione contro la Svezia, ma finora senza esiti concreti. «Il lupo è diventato un capro espiatorio politico e vittima di disinformazione, declassare la protezione non risolverà le sfide della coesistenza, né aiuterà realmente gli agricoltori», ha dichiarato Léa Badoz, responsabile del programma sulla fauna selvatica presso Eurogroup for Animals. Gli animalisti denunciano anche che questa politica si basa più su pressioni lobbistiche che su basi scientifiche: la Svezia, in particolare, viene accusata di aver preso decisioni in contrasto con gli impegni europei sulla biodiversità, anteponendo interessi economici alla conservazione della fauna.

Questo dibattito si inserisce in un contesto più ampio. La Convenzione di Berna, nel dicembre scorso, ha approvato una modifica che entrerà in vigore nel marzo 2025, declassando i lupi da specie «strettamente protetta» a semplicemente «protetta». Un adeguamento che, seppur con le limitazioni imposte dagli Stati membri poiché ancora «obbligati a garantire che venga raggiunto e mantenuto uno stato di conservazione favorevole per le popolazioni nelle loro regioni biogeografiche», prevede di concedere loro maggiore flessibilità per «affrontare i casi più difficili di coesistenza tra lupi e comunità», inaugurando così un maggiore spazio di manovra per la cattura e l’abbattimento degli animali. Nel frattempo, la Commissione europea sta valutando la possibilità di rivedere la sua direttiva sull’habitat per riflettere il fatto che il numero di lupi è aumentato, in particolare nelle regioni alpine e forestali della Scandinavia e dell’Europa centrale.

Quanto accade in Svezia non è estraneo a ciò che avviene in altri Paesi europei, Italia inclusa. Una questione molto dibattuta in particolare in Trentino-Alto Adige, dove lo scontro tra amministrazione e animalisti si è intensificato negli ultimi anni, in cui sono fioccate le ordinanze di abbattimento, così come i ricorsi e i contro-ricorsi davanti al TAR e al Consiglio di Stato. In ultimo, a novembre, nel Ddl Montagna è stato inserito un emendamento, approvato in Senato, che consentirà di procedere con l’uccisione dei lupi in Italia. La norma “ammazzalupi” – come l’ha definita l’Ente Nazionale Protezione Animali – prevede che le Regioni e le Province possano uccidere ogni anno una certa quantità di esemplari. «La maggioranza – ha dichiarato LNDC Animal Protection – risponde alle logiche di interessi privati di alcune lobby che non hanno alcun rispetto per la vita e l’ambiente. Bisognerebbe invece adottare politiche basate su un approccio scientifico ed etico, che rispettino il diritto alla vita degli animali selvatici e il valore della biodiversità».

[di Stefano Baudino]

Pakistan: accordo di pace tra sunniti e sciiti nel nordovest

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I capi tribali, sostenuti dalle autorità locali nell’irrequieto Pakistan nordoccidentale, hanno mediato un accordo di pace tra la minoranza sciita e le tribù sunnite. L’accordo giunge a poche settimane dagli ultimi scontri tra le due fazioni, che avevano causato la morte di almeno 130 persone. Le violenze erano esplose il 21 novembre, quando uomini armati avevano teso un’imboscata a un convoglio di veicoli, uccidendo 52 persone, per lo più musulmani sciiti. L’attacco, benché non rivendicato, aveva innescato attacchi di ritorsione da parte di gruppi rivali a Kurram, un distretto nella provincia di Khyber Pakhtunkhwa, al confine con l’Afghanistan.

La spesa sanitaria dei cittadini italiani è cresciuta tre volte e mezzo più di quella pubblica

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Nel 2023, la spesa sanitaria privata in Italia ha superato i 43 miliardi di euro, con un incremento del 7% rispetto al 2022 e del 24% rispetto al 2019, secondo il rapporto della Ragioneria generale dello Stato. Parallelamente, la spesa sanitaria pubblica è cresciuta solo del 2% rispetto al 2022 e del 13,6% rispetto al 2019, raggiungendo i 132,8 miliardi di euro. Si tratta della dimostrazione plastica di come, nonostante le rassicurazioni governative, gli investimenti nella sanità pubblica non siano sufficienti a garantire il mantenimento degli standard di assistenza, costringendo sempre più spesso i cittadini ad aprire il portafogli per ottenere visite e cure.

Come racconta il report, nel decennio 2014-2023, la spesa sanitaria pubblica è aumentata a un ritmo medio del 2% annuo, accelerando durante la pandemia di Covid-19 con un picco del 5,4% nel 2020. Tuttavia, negli ultimi anni, il tasso di crescita si è stabilizzato, influenzato dai rincari delle fonti energetiche e risentendo meno degli oneri emergenziali. Parallelamente, la spesa privata è cresciuta a un ritmo estremamente più sostenuto, riflettendo l’enorme difficoltà del Servizio Sanitario Nazionale (SSN) nel soddisfare pienamente la domanda di prestazioni sanitarie. Il fenomeno è ulteriormente aggravato dall’aumento dei costi sostenuti dai cittadini per l’acquisto di farmaci e prestazioni private, spesso conseguenza di lunghe liste d’attesa nel sistema pubblico. Nel periodo 2014-2023, la spesa farmaceutica diretta ha registrato un incremento medio annuo del 5,7%, con un’impennata del 13,9% solo nell’ultimo anno. Le difficoltà del SSN sono evidenti anche nei conti delle regioni: nel 2023 il disavanzo complessivo ha toccato 1,85 miliardi di euro, il valore più alto degli ultimi dieci anni. Ben 14 regioni hanno registrato bilanci negativi, costringendole a tagliare su altre voci di spesa extra-sanitarie per coprire il deficit. Calabria e Umbria sono le uniche ad aver registrato una contrazione della spesa sanitaria pubblica, rispettivamente del 4,3% e dello 0,6%.

I numeri della legge di bilancio del Governo Meloni hanno certificato i tagli alla sanità pubblica: gli stanziamenti per il Fondo sanitario nazionale sono infatti scesi sotto il 6% del Pil entro tre anni, dal 6,3% del 2024 al 5,9% del 2027. Storicamente, anche i governi precedenti hanno ridotto i finanziamenti alla Sanità. Tra il 2010 e il 2019, infatti, il sistema sanitario ha subito un “definanziamento” di oltre 37 miliardi di euro. L’unica eccezione si è avuta durante la pandemia con il secondo governo Conte, con l’aumento dei fondi durante la pandemia. Alla luce dei vincoli di bilancio e delle trasformazioni demografiche, la Ragioneria Generale dello Stato ha evidenziato la necessità di un monitoraggio più efficace dei costi e della qualità delle prestazioni erogate. Il crescente ricorso al settore privato e l’aumento della spesa out of pocket sollevano infatti molteplici interrogativi in ordine all’equità del sistema sanitario nazionale. Se la tendenza attuale dovesse continuare, il rischio è di accentuare le già palpabili disuguaglianze nell’accesso alle cure, penalizzando le fasce più deboli della popolazione.

A lanciare l’allarme sul pessimo stato di salute del Servizio Sanitario Nazionale era già stato, lo scorso ottobre, un importante rapporto della Fondazione GIMBE. Il report aveva attestato che nel 2023 – tra tempi di attesa infiniti e difficoltà di accesso alle strutture sanitarie – circa 4,5 milioni di italiani hanno dovuto rinunciare a visite mediche e cure specialistiche, rilevando inoltre come il SSN soffra un deficit di oltre 52 miliardi rispetto agli standard europei. La situazione è particolarmente grave nel Sud Italia, dove solo Puglia e Basilicata rispettano i Livelli essenziali di assistenza (LEA). A complicare ulteriormente il quadro, tra mancate assunzioni e fughe dall’Italia, la grave carenza di personale sanitario: il SSN ha perso tra il 2019 e il 2022 oltre 11 mila medici e il numero degli infermieri, attualmente 6,5 per mille abitanti, resta drammaticamente basso.

[di Stefano Baudino]

Il settore auto in Europa ha perso 30.000 posti di lavoro nell’ultimo anno

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Dopo un anno di crisi commerciale, problemi finanziari, delocalizzazioni e tagli di personale, il fatto che il settore automotive dell’Unione Europea non se la passasse esattamente alla grande era cosa nota a molti. I dati, però, dipingono uno scenario più grigio di quanto non ci si immaginasse: nel 2024 i fornitori europei di componenti per auto hanno perso più di 30.000 posti di lavoro, oltre il doppio rispetto all’anno precedente. A dirlo è un’analisi condotta dall’Associazione europea dei fornitori automobilistici (Clepa) per il Financial Times, in cui vengono sottolineate le conseguenze del rallentamento dell’industria automobilistica del continente. In netto calo anche la creazione di posti di lavoro: dal 2020, in Europa, il settore ha registrato più di 58.000 perdite nette sul fronte occupativo, a fronte di un totale di circa 1,7 milioni di persone impiegate nell’intera area comunitaria.

La ricerca del Clepa è stata pubblicata dal quotidiano economico-finanziario britannico Financial Times giovedì 2 gennaio. Da quanto riporta il giornale, a venire colpite sono state tutte le maggiori aziende produttrici di componenti per automobili europee, dal produttore francese di pneumatici Michelin all’azienda tedesca Bosch. Nell’ultimo anno, la filiera del settore automobilistico ha annunciato migliaia di tagli di posti di lavoro a fronte della drastica riduzione delle vendite di nuovi veicoli da parte dei produttori europei, che hanno lasciato i fornitori con capacità in eccesso e poche prospettive di ripresa delle vendite. Se le aziende più grandi, come le stesse Michelin e Bosch, sono finite per tagliare posti di lavoro e chiudere stabilimenti, le imprese di dimensioni minori sono state costrette a chiudere i battenti, dichiarare bancarotta o insolvenza.

Secondo il Clepa, la crisi del settore è iniziata con la pandemia di Covid-19, per poi essere acuita dalla guerra in Ucraina e dalla conseguente inflazione: tutti questi elementi hanno portato a un progressivo calo della domanda nel settore automobilistico, mentre parallelamente le aziende cinesi rivali hanno continuato a crescere. A causare il crollo della filiera, oltre alla crisi energetica e finanziaria e alla competizione cinese, sembrerebbero essere le stesse regolamentazioni comunitarie: le nuove restrizioni sulle emissioni di carbonio per le case automobilistiche in arrivo nel 2025 e l’obiettivo di passare alle auto elettriche nel 2035 hanno rappresentato una sfida per le aziende che producono motori tradizionali e spinto molti produttori a concentrarsi sulle componenti per vetture a batteria. Eppure, se da un lato l’UE non ha smesso di spingere per l’introduzione e l’adozione di auto elettriche, dall’altro il loro costo elevato ha continuato a limitarne il mercato, mentre i singoli Paesi hanno faticato a erogare sussidi e incentivi per le fasce di popolazione che non possono permettersi di acquistare vetture tante onerose. Tutti questi elementi messi insieme hanno provocato una crisi nelle vendite di quelle aziende che si sono concentrate sul mercato delle componenti per l’elettrico, a tal punto che, riporta il Clepa, nel 2024 sono andati persi 4.680 posti di lavoro legati ai fornitori di auto a batteria, a fronte di 4.450 creati.

Il problema era già stato sollevato svariate volte, per giunta dagli stessi organismi interni all’Unione Europea: introdurre limitazioni che nessuno è in grado di soddisfare non serve a niente. Quello che invece potrebbe servire sono maggiori finanziamenti alla produzione di vetture elettriche, incentivi per la popolazione che non può permettersi questo tipo di veicoli, e investimenti mirati nell’intera filiera produttiva e di approvvigionamento, nei servizi, nelle infrastrutture, nella formazione di lavoratori qualificati, nella ricerca. In mancanza di questi elementi, l’addio alla benzina è un miraggio, mentre una ipotetica crisi, la cronaca di una morte annunciata: a febbraio, Forvia, un produttore di cruscotti, pannelli di porte e sistemi di scarico, ha dichiarato che entro il 2028 taglierà 10.000 posti di lavoro in Europa, dove conta oltre 75.000 lavoratori; a ottobre, anche Volkswagen ha certificato la propria crisi, annunciando la chiusura di tre stabilimenti e rischiando di generare decine di migliaia di licenziamenti; a novembre, Michelin ha dichiarato che avrebbe chiuso due fabbriche francesi che producono pneumatici per camion e furgoni, tagliando 1.200 dipendenti; Stellantis, infine, è stata al centro di una crisi di dimensioni non indifferenti, che ha portato anche alle dimissioni di Tavares, e che è stata frenata solo grazie alla mobilitazione dei lavoratori.

[di Dario Lucisano]

Corea del Sud, fallito tentativo di arresto del presidente deposto

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Le autorità sudcoreane hanno deciso di sospendere oggi l’esecuzione del mandato di arresto del presidente deposto Yoon Suk-yeol nella sua abitazione di Seul, dopo che le sue guardie del corpo glielo hanno impedito. Lo ha reso noto l’Ufficio investigativo sulla corruzione (Cio) in una nota. Gli inquirenti non sono così riusciti a effettuare l’arresto di Yoon, ordinato dalla magistratura in seguito al suo un tentativo di imporre la legge marziale la sera dello scorso 3 dicembre. Gli investigatori hanno presentato mandati per trattenere Yoon e perquisirne la residenza, ma il capo del servizio di sicurezza Park Chong-jun, invocando norme sulla privacy, ha negato loro l’ingresso.

L’Italia si è dotata di un Garante per i diritti delle persone con disabilità

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Dal primo gennaio del 2025, in Italia è entrato ufficialmente in funzione il Garante nazionale per i diritti delle persone con disabilità, un nuovo organo istituzionale creato per assicurare maggiore tutela e valorizzazione dei diritti di chi vive con limitazioni funzionali. L'autorità, composta da tre membri eletti dai Presidenti della Camera e del Senato, dovrà vigilare sul rispetto delle libertà fondamentali della categoria, garantendo l'applicazione dei principi sanciti dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con esigenze specifiche. Il trattato, adottato a New York...

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Gaza, ondata di raid israeliani: 63 morti in un solo giorno

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È di almeno 63 morti il bilancio delle vittime dell’ondata di raid israeliani che oggi ha colpito varie aree della Striscia di Gaza. Lo ha reso noto Al-Jazeera, citando fonti mediche. Fra le zone teatro dei bombardamenti di oggi, ci sono anche la cosiddetta area umanitaria di Al-Mawasi e il campo profughi di Jabalia, a nord, che è stato a più riprese attaccato negli ultimi giorni. Nei bombardamenti di oggi, in cui hanno perso la vita anche dei bambini, sono rimasti uccisi il capo della polizia di Hamas e il suo vice.

Negli USA i senzatetto sono aumentati del 18% in un anno: sono oltre settecentomila

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Secondo il rapporto annuale del Dipartimento per l’edilizia abitativa e lo sviluppo urbano degli Stati Uniti (HUD), all’inizio del 2024 il numero di senzatetto in America ha raggiunto un livello record da quando il governo federale ha iniziato a monitorare le cifre nel 2007. Secondo quanto rilevato, infatti, più di 770.000 persone si trovavano senza fissa dimora a gennaio 2024, segnando un aumento del 18% rispetto al 2023. Tra le tendenze più allarmanti c’è la presenza di intere famiglie senza fissa dimora: rispetto al 2023, le famiglie senza alcun tipo di rifugio abitativo sarebbero aumentate del 39%, mentre anche il numero di bambini senza casa è aumentato del 33%. Inoltre, si registra come solo gli afroamericani rappresentino il 32% complessivo dei senzatetto. «Nessun americano dovrebbe trovarsi senza casa e l’amministrazione Biden-Harris si impegna a garantire che ogni famiglia abbia accesso all’alloggio conveniente, sicuro e di qualità che merita», ha affermato la responsabile dell’agenzia HUD, l’onorevole Adrianne Todman, aggiungendo che «Sebbene questi dati risalgano a quasi un anno fa e non riflettano più la situazione che stiamo vedendo, è fondamentale che ci concentriamo su sforzi basati su prove per prevenire e porre fine alla condizione di senzatetto».

Tra le cause principali che hanno portato all’aumento dei senza fissa dimora, il rapporto segnala in particolare i disastri naturali, le ondate migratorie in diverse parti del Paese e la mancanza di alloggi a prezzi accessibili. “La migrazione ha avuto un impatto particolarmente notevole sui senzatetto familiari, che sono aumentati del 39% dal 2023 al 2024. Nelle 13 comunità che hanno segnalato di essere state colpite dalla migrazione, i senzatetto familiari sono più che raddoppiati. Mentre nelle restanti 373 comunità, l’aumento delle famiglie senza fissa dimora è stato inferiore all’8%”, si legge nella relazione dell’HUD. Secondo il Dipartimento americano, gli affitti si sono stabilizzati in modo significativo da gennaio 2024, ossia da quanto l’HUD ha aggiunto 435.000 nuove unità in affitto nei primi tre trimestri del 2024; ovvero più di 120.000 nuove unità ogni trimestre. Durante la campagna elettorale, il presidente eletto Donald Trump ha più volte indicato l’immigrazione come causa dell’aumento dei prezzi delle case, assicurando che il suo proposito di realizzare «la più grande operazione di deportazione nella storia americana» avrebbe abbassato i prezzi degli alloggi.

Anche le catastrofi naturali hanno aggravato la situazione, in particolare l’incendio di Maui nelle Hawaii dello scorso anno, a causa del quale molte persone si trovavano ancora in rifugi di emergenza al momento delle rilevazioni dell’HUD. Il fenomeno sarebbe peggiorato anche dalla mancanza di politiche di sostegno mirate: secondo l’amministratrice delegata ad interim della National Low Income Housing Coalition, Renee Willis, «L’aumento del numero di senzatetto è la tragica, ma prevedibile, conseguenza di un insufficiente investimento nelle risorse e nelle protezioni che aiutano le persone a trovare e mantenere un alloggio sicuro e a prezzi accessibili». Per cercare di porre un freno al fenomeno, molte giurisdizioni, specialmente nell’ovest degli Stati Uniti, stanno vietando la possibilità di dormire all’aperto, da quando una sentenza della Corte Suprema a giungo ha stabilito che tale divieto non viola l’ottavo emendamento.

Allo stesso tempo, secondo il rapporto dell’HUD, diverse grandi città sono riuscite a diminuire il numero di senzatetto, tra cui Dallas, Los Angeles e la Contea di Chester. Inoltre, l’HUD segnala come, grazie ai suoi sforzi, il numero di persone senza casa da lungo tempo sia diminuito dell’8%, passando da 35.574 nel 2023 a 32.882 nel 2024. Questi dati arrivano nel contesto dell’impegno dell’amministrazione Biden di aumentare i finanziamenti per l’edilizia popolare e di ampliare i servizi volti a prevenire i senzatetto. Tuttavia, l’aumento delle persone senza dimora è indice della necessità di introdurre riforme più sistemiche: l’ex direttore esecutivo del Consiglio interagenzie statunitense per i senzatetto dal 2019 al 2021, Robert Marbut Jr, ha definito «vergognoso» l’aumento di quasi il 33 per cento dei senzatetto negli ultimi quattro anni negli Usa.

Colpisce come, paradossalmente, uno dei Paesi più ricchi al mondo sia caratterizzato non solo dall’alto numero di senzatetto, ma anche dall’uso crescente di sostanze stupefacenti e oppioidi sintetici come il Fentanyl. Il che è indicativo del fatto che non necessariamente le società caratterizzate da alto benessere materiale sono anche società “sane” e dove gli standard di vita sono equamente garantiti per tutti.

[di Giorgia Audiello]

I minori sui social vivono il riflesso del consumismo voluto dagli adulti

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foto minori social

L'intrattenimento destinato all'infanzia è stato a lungo sfruttato come strumento per veicolare persuasive campagne di marketing. Basti pensare che in Italia un’intera generazione è cresciuta con il Carosello, noto programma pubblicitario trasmesso da Rai 1 dal 3 febbraio 1957 al 1º gennaio 1977. Con l'avvento dei social media, si è però diffusa la percezione secondo cui la mercificazione dell’infanzia ha assunto contorni più preoccupanti e invasivi. Molti ritengono che internet stia contribuendo a erodere progressivamente la "sacralità" dell’infanzia, trasformandola in un ingranaggio della ma...

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Anche la Costa d’Avorio ha deciso di cacciare i militari francesi

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Il presidente della Costa d’Avorio, Alassane Ouattara, ha dichiarato che le truppe francesi dovranno iniziare a ritirarsi dal territorio del Paese a partire da gennaio 2025. Nelle dichiarazioni di rito, il presidente ha assicurato che l’ex padrone coloniale rimarrà un «importante alleato». Un approccio che mira ad essere conciliante nei modi, ma la cui sostanza è netta: le basi militari nazionali, a cominciare da quella di Port Bouet, saranno trasferite sotto il controllo ivoriano mentre i soldati francesi rimasti (che già erano stati ridotti a circa 100 unità dal migliaio di un tempo) dovranno lasciare il territorio. Si tratta di un altro chiodo sul poco che resta di quella che un tempo era la Françafrique, ossia il determinante potere d’influenza di Parigi sulle sue ex colonie africane.

La Costa d’Avorio è l’ultimo Stato dell’Africa occidentale che ha deciso di espellere le forze francesi dal suo territorio dopo Mali, Burkina Faso e Niger, tutte nazioni in cui, tra il 2020 e il 2023, si sono verificati colpi di Stato che hanno portato al governo giunte militari antioccidentali. Ma anche in Ciad e in Senegal i rispettivi governi hanno deciso che le truppe francesi non sono più utili alla sicurezza del territorio invitando i contingenti a lasciare le basi del Paese. Nello specifico, il Mali ha decretato l’espulsione delle truppe francesi nel 2022, seguito dal Burkina Faso e dal Niger nel 2023. Nel dicembre del 2024, invece, ministro degli Esteri del Ciad, Abderaman Koulamallah, aveva annunciato la fine dell’accordo di cooperazione in materia di difesa con la Francia, spiegando che la decisione «fa parte dell’impegno del Capo di Stato davanti al popolo sovrano» ed è un modo per «affermare la nostra sovranità». Anche il presidente senegalese, Bassirou Diomaye Faye, durante il discorso di fine anno, ha ribadito – con un tono ancora più aspro rispetto a quello del presidente avoriano –  «la chiusura di tutte le basi francesi nel paese», dopo la richiesta formale, di fine novembre, da parte di Dakar. Parallelamente alla cacciata dei contingenti francesi in tutta l’area del Sahel, si sta affermando sempre di più la presenza di altre potenze antagoniste dei Paesi occidentali, come Russia e Cina, viste come un’alternativa vantaggiosa all’ingombrante presenza neocoloniale delle nazioni occidentali.

I contingenti francesi erano presenti nella regione del Sahel fin dal 2014 con l’obiettivo di combattere i numerosi gruppi jihadisti attivi da anni nell’area, all’interno della cosiddetta “operazione Barkhane”. Tuttavia, dopo gli iniziali risultati positivi nel combattere il terrorismo, la situazione peggiorò rapidamente, poiché le attività dei jihadisti ripresero slancio con attacchi anche molto violenti, in particolare ai confini tra Mali, Burkina Faso e Niger. Inoltre, le truppe francesi divennero sempre più malviste dalla popolazione locale e l’operazione viene considerata a tutti gli effetti un fallimento da parte dei Paesi africani. L’aumento dell’instabilità nel Sahel a causa del terrorismo era stato uno dei motivi che ha portato al colpo di Stato in Mali nel 2020, in seguito al quale i rapporti con la Francia sono rapidamente peggiorati.

L’insuccesso dell’operazione Barkhane unitamente all’approccio predatorio francese nei confronti delle risorse naturali del Continente nero hanno velocemente aumentato il risentimento delle popolazioni locali nei confronti degli ex colonizzatori. Il risultato è stato un rapido mutamento politico nei Paesi dell’Africa Subsahariana, il cui obiettivo è quello di riacquisire la sovranità sul sistema economico, monetario e sulle risorse naturali. Proprio a tal fine, Niger, Mali e Burkina Faso hanno firmato un trattato con il quale hanno dato vita alla Confederazione degli Stati del Sahel, volta a creare una comunità libera dal controllo di potenze straniere. La recente decisione della Costa d’Avorio di espellere le truppe francesi, dunque, rappresenta solo l’ultimo tassello di un processo più ampio che vede l’Africa occidentale protagonista di un movimento per liberarsi delle potenze occidentali – non solo la Francia, ma anche gli Stati Uniti – e acquisire così la propria sovranità.

[di Giorgia Audiello]