martedì 11 Novembre 2025
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Spagna, in atto decine di incendi: un morto e 7mila evacuati

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In Spagna, decine di incendi boschivi stanno devastando varie aree del Paese, con un morto e centinaia di chilometri quadrati bruciati. Circa 7mila persone sono state evacuate, tra cui 3.700 nella Castiglia e León, 2.000 a Cadice e 180 a nord di Madrid. Un incendio scoppiato a Tres Cantos ha ucciso un uomo, mentre le fiamme hanno distrutto 10 km². Le condizioni climatiche, come il caldo intenso, la siccità e i venti forti, hanno alimentato gli incendi in corso in Galizia, Andalusia, Castiglia e León e Castiglia-La Mancha. Interventi aerei e di terra sono in atto.

Crosetto: “Netanyahu ha perso la ragione e va fermato”, il governo farà finalmente qualcosa?

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Per la prima volta, un membro del governo italiano ha duramente attaccato il premier israeliano Benjamin Netanyahu per i massacri a Gaza e ipotizzato conseguenze per le sue azioni. Si tratta del ministro della Difesa italiano, Guido Crosetto, che ha rilasciato un’intervista a La Stampa dai toni molto accesi. «A Gaza siamo di fronte alla pura negazione del diritto e dei valori fondanti della nostra civiltà» ha dichiarato il capo del dicastero di via XX Settembre, aggiungendo che «non convince più» la motivazione della «legittima difesa di una democrazia di fronte a un terribile attacco terroristico», e che «contro l’occupazione di Gaza e alcuni atti gravi in Cisgiordania» occorre «prendere decisioni che obblighino Netanyahu a ragionare». Si attende ora di vedere se alle dure parole di Crosetto seguiranno fatti da parte del governo Meloni, che si è finora contraddistinto come uno dei maggiori difensori d’Israele in Europa, al punto da rinunciare – tra i pochi – al riconoscimento dello Stato di Palestina e votare contro la revisione dell’accordo di associazione UE-Israele.

Crosetto si è espresso senza mezzi termini sulle colonne del giornale diretto da Andrea Malaguti, intervistato dal giornalista Alessandro De Angelis. «Noi siamo impegnati sul fronte degli aiuti umanitari, ma oltre alla condanna bisogna ora trovare il modo per obbligare Netanyahu a ragionare». Secondo il ministro, infatti, «non sarebbe una mossa contro Israele, ma un modo per salvare quel popolo da un governo che ha perso ragione e umanità», dal momento che occorre sempre «distinguere i governi dagli Stati e dai popoli come dalle religioni che professano». Un discorso che «vale per Netanyahu, vale per Putin, i cui metodi, ormai, pericolosamente si assomigliano». Un conto, ha dichiarato il ministro, «è liberare Gaza da Hamas, un conto dai palestinesi. La prima si può chiamare liberazione. Cacciare invece un popolo dalla sua terra è ben altro, e il termine usato mi pare del tutto improprio». Crosetto afferma l’esecutivo di Tel Aviv «non è disposto a dialogare» poiché «ha assunto una linea fondamentalista e integralista». Non si tratta più di «legittima difesa», ha evidenziato il ministro, ma «un progetto di segno diverso: la conquista di un territorio straniero mettendo in conto una catastrofe umanitaria».

In realtà, fino ad oggi, nessuna delle timide e sparute critiche avanzate da ministri del governo italiano nei confronti di Israele ha mai portato ad alcuna conseguenza tangibile. Dopo quasi due anni di violenze e oltre 50mila morti, solo lo scorso luglio – e solo in seguito all’attacco contro la chiesa cattolica a Gaza – l’esecutivo Meloni ha trovato il tempo di condannare gli attacchi israeliani, ma ha evitato azioni concrete. Nonostante le parole di Giorgia Meloni e Antonio Tajani contro Israele, l’Italia non ha infatti intrapreso misure politiche decisive, come il riconoscimento dello Stato di Palestina, sospensione dei trattati con Israele o sanzioni contro i responsabili israeliani. Anche la proposta di sospendere il memorandum di cooperazione militare con Israele, che sarebbe conforme agli obblighi internazionali, è stata completamente ignorata, così come l’interruzione dell’Accordo di associazione UE-Israele.

L’Italia ha rifiutato anche iniziative come il blocco del commercio di armi verso Israele o la sospensione degli scambi con le colonie israeliane, nonostante il parere della Corte Internazionale di Giustizia che considera illegali gli insediamenti nei territori occupati. Mentre Stati come Belgio, Spagna e Regno Unito hanno intrapreso azioni simili, il nostro Paese ha impedito che tali misure venissero adottate, rimanendo in una posizione di sostegno implicito a Israele. Anche per quanto riguarda le sanzioni, mentre altri Paesi europei hanno agito contro i coloni israeliani e i ministri estremisti, l’Italia ha opposto resistenza, definendo le sanzioni contro Tel Aviv come «velleitarie». Ora il ministro Crosetto sembra essere uscito allo scoperto in maniera chiara. Solo il tempo chiarirà se questa “fuga in avanti” potrà essere foriera di un cambio di rotta da parte dell’esecutivo sulla lettura dei massacri in Palestina da parte del governo israeliano.

Nel frattempo, nella Striscia di Gaza si continua a morire di morte violenta e di stenti. Solo dall’alba di oggi, come attestato da Al Jazeera, nel governatorato di Khan Younis almeno cinque persone sono state uccise in un attacco israeliano contro una tenda che ospitava civili sfollati nella zona di al-Mawasi. Nella città di Gaza, che Israele ha dichiarato di voler invadere, almeno quattro persone sono state uccise e altre sono rimaste ferite in un attacco aereo su un appartamento nella zona di al-Sahaba. Pesanti bombardamenti hanno colpito anche altre abitazioni nella città di Gaza, provocando ulteriori 8 morti. Almeno 20 persone sono rimaste intrappolate sotto le macerie dopo che è stata colpita una struttura residenziale nei pressi della moschea di al-Faruq. Inoltre, il Ministero della Salute di Gaza ha registrato cinque morti dovute a carestia e malnutrizione nelle ultime 24 ore, tra cui due bambini, il che porta il numero totale di decessi correlati alla fame registrati dal 7 ottobre 2023 a 227. 103 di questi erano bambini.

Trump esclude Zelensky dal vertice con Putin e annuncia che dovrà “scambiare territori”

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Zelensky non sarà presente ai colloqui tra Trump e Putin in programma venerdì 15 agosto, e Russia e Ucraina dovranno con ogni probabilità «scambiare territori». A dirlo è stato lo stesso presidente Donald Trump durante una conferenza stampa alla Casa Bianca. «Il prossimo incontro sarà tra Zelensky e Putin o tra Zelensky, Putin e me: sarò presente se ce ne fosse bisogno», ha detto Trump; «ma prima voglio tenere un incontro tra i due leader», ha precisato, riferendosi a sé e all’omologo russo. Parlando dello scambio di territori, Trump ha spiegato che tale scenario è emerso «parlando con la Russia» e con «tutti quanti». Niente da fare, insomma, per i leader europei e Zelensky, che si sono scagliati contro la decisione di Trump di incontrare Putin in solitaria, negando la presenza di altri rappresentanti. Per ora, gli autoproclamatisi “volenterosi” sembrano essere riusciti a ottenere solo una telefonata con Trump, che dovrebbe tenersi domani.

L’incontro tra Trump e Putin, sostiene il presidente statunitense, servirà a «sondare il terreno» e comprendere se e quanto spazio vi sia per un accordo di pace tra Russia e Ucraina. Nel corso della conferenza stampa, Trump ha ribadito la sua posizione già espressa in passato, secondo cui entrambi i Paesi dovrebbero fare concessioni l’uno all’altro: un accordo prevedrà «cose buone, non cose cattive, anche un po’ di cose cattive per entrambi», ha detto Trump. «Cambieremo le linee di battaglia». Insomma, secondo il presidente statunitense, un accordo con la Russia non può che passare dalla cessione di alcuni territori ucraini e dal ritiro delle truppe russe da alcune delle posizioni conquistate. Zelensky, dal canto suo, ha rifiutato l’idea di uno scambio di territori e ha affermato che un simile accordo richiederebbe una riforma costituzionale. Trump si è detto «scocciato» dalla posizione di Zelensky: «Ha l’approvazione per andare in guerra e uccidere tutti, ma ha bisogno dell’approvazione per fare uno scambio di terre. Perché uno scambio di terre ci sarà».

Sull’ipotesi dello scambio di territori, i leader europei hanno fatto eco alle parole di Zelensky e si sono opposti all’incontro a due tra Trump e Putin: «Restiamo fedeli al principio secondo cui i confini internazionali non devono essere modificati con la forza», si legge in un comunicato firmato da Francia, Italia, Germania, Polonia e Commissione europea, rilasciato dopo l’annuncio dell’incontro tra i due leader; «l’attuale linea di contatto dovrebbe essere il punto di partenza dei negoziati». L’Europa ha poi contestato l’assenza di Zelensky all’incontro di venerdì. I leader europei e il presidente ucraino ritengono infatti che l’imbastimento di un tavolo delle trattative possa avvenire solo dopo l’implementazione di un cessate il fuoco e con la presenza di Kiev: «Negoziati significativi possono aver luogo solo nel contesto di un cessate il fuoco o di una riduzione delle ostilità», affermano i politici europei. «Il percorso verso la pace in Ucraina non può essere deciso senza l’Ucraina». Anche su questo punto, Trump è stato piuttosto chiaro: gli incontri tra Putin e Zelensky si terranno, ma solo dopo il suo personale vertice con il presidente russo. I Paesi dell’UE hanno reiterato la loro posizione in un comunicato uscito questa mattina firmato da tutti gli Stati membri a esclusione dell’Ungheria.

Nonostante le richieste europee, insomma, Trump non ha mutato prospettiva e ha chiuso la porta alla possibilità di invitare Zelensky all’incontro. Ha tuttavia rassicurato che aggiornerà lui e l’Europa subito dopo la sua conclusione. Sembra inoltre che la cosiddetta “coalizione dei volenterosi” sia riuscita a strappare in extremis un colloquio telefonico con Trump, a cui dovrebbero partecipare Zelensky, la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, il presidente francese Emmanuel Macron, il cancelliere tedesco Friedrich Merz e il premier britannico Keir Starmer. La telefonata dovrebbe tenersi domani, ma non è ancora chiaro se il presidente Trump abbia a tutti gli effetti accettato l’invito.

La Malesia annuncia una delegazione regionale di pace in Birmania

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Il primo ministro della Malesia ha annunciato l’invio di una delegazione per la pace in Birmania, dove dal 2021 è in corso una guerra civile tra la giunta golpista e gruppi ribelli. L’annuncio è arrivato a margine di un incontro con il presidente ad interim del Bangladesh, Muhammad Yunus, in occasione di una conferenza stampa congiunta. La delegazione sarà guidata dal ministro degli esteri della Malesia e includerà rappresentanti dello stesso Bangladesh, e di Indonesia, Filippine e Thailandia. Essa intende anche risolvere la crisi migratoria della popolazione Rohingya in fuga dalla guerra: a oggi il Bangladesh ospita oltre un milione di rifugiati Rohingya.

Trump sospende i dazi alla Cina per 90 giorni

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Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha firmato un ordine esecutivo per sospendere l’entrata in vigore dei dazi del 145% alla Cina per altri 90 giorni, rinviandola al 10 novembre. «Tutti gli altri elementi dell’accordo rimarranno invariati», ha scritto Trump su Truth. Con questa proroga, Trump conferma i termini dell’accordo provvisorio siglato con la Cina a maggio, che prevede l’imposizione di dazi del 30% sui prodotti cinesi in entrata. Le trattative per un accordo definitivo dovrebbero continuare, ma risultano ancora in stallo.

L’Italia è in testa alla classifica europea sull’aspettativa di vita in buona salute

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Non è qualcosa che capita di frequente, ma è stata pubblicata una classifica europea in cui l'Italia primeggia addirittura sui Paesi scandinavi. E non è una classifica di poco conto, bensì quella, stilata da Eurostat, che misura l’aspettativa di vita in buona salute. I cittadini del nostro Paese possono infatti contare, in media, su 69,1 anni di vita senza gravi limitazioni fisiche: un dato che pone l'Italia al secondo posto, subito dopo Malta, staccando la media europea di ben 6 anni. L'Italia – che registra un'aspettativa di vita alla nascita di 83 anni e mezzo – spicca dunque per una condiz...

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Media Freedom Act: entra in vigore la legge europea che tutela (e controlla) il giornalismo

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L’8 agosto 2025 è scoccata l’ora X: in tutti gli Stati membri dell’UE è entrato in vigore il nuovo regolamento sulla libertà dei media (European Media Freedom Act, EMFA), approvato dal Parlamento europeo nell’aprile 2024, con cui Bruxelles intende «garantire il pluralismo e l’indipendenza dell’informazione» e «limitare le interferenze e le pressioni politiche ed economiche». Sulla carta, si tratta di un manifesto di princìpi condivisibili; nella realtà, ci troviamo dinanzi a un regolamento a tratti fumoso, dove diversi articoli della norma aprono le porte a possibili nuovi strumenti di centralizzazione normativa e controllo politico, aprendo la strada a nuove forme di censura e omologazione dell’informazione e riducendo, paradossalmente, proprio quelle libertà che l’EMFA promette di difendere. 

Mentre i media mainstream mirano a esaltare i punti di forza del regolamento, i passaggi controversi che emergono dalla lettura della norma sono diversi, a partire dall’applicazione centralizzata del concetto di “libertà di stampa” e l’imposizione di “norme comuni” (art. 1), che potrebbero tradursi in un’omologazione delle prassi editoriali. La definizione di cosa siano i “servizi di media” e di chi rientra nella categoria di “fornitore” (art. 2 e 3) è ampia e potenzialmente estendibile anche soggetti che non si percepiscono come “media” in senso tradizionale, rischiando di far ricadere nel perimetro dell’EMFA anche siti indipendenti o blogger professionali.

Uno dei pilastri del regolamento è l’obbligo per tutte le testate di pubblicare in registri pubblici (art. 27-29) i dati sulla proprietà, sui finanziamenti e sulle entrate pubblicitarie, comprese quelle provenienti da governi stranieri. Da una parte, si tratta di tutelare il cittadino, permettendogli di “sapere chi c’è dietro” a un giornale o a un’emittente. Tuttavia la norma si preoccupa di tracciare eventuali finanziatori pubblici ma non di monitorare quelli privati, non aiutando a fare luce sugli interessi privati che possono orientare i media e danneggiare il pluralismo.

Uno dei punti più dibattuti in questi giorni, riguarda l’articolo 5 che prevede criteri uniformi per la nomina e la revoca dei vertici dei media di servizio pubblico, oltre a vincolare i finanziamenti alla stabilità e alla prevedibilità pluriennale. In teoria, un passo avanti per sottrarli all’influenza dei governi. In pratica, il nuovo quadro potrebbe diventare un cavallo di Troia: la Commissione europea e l’European Board for Media Services (art. 36-41) avranno il potere di monitorare e giudicare l’indipendenza delle governance nazionali. Chi stabilirà, però, che cosa sia un’informazione “equilibrata”? Chi non sposa le linee narrative dominanti, potrà essere accusato di “mancato pluralismo”? In questo modo, si rischia di trasformare un principio di autonomia in un meccanismo di condizionamento politico sovranazionale, in modo da contestare governi democraticamente eletti se la loro linea editoriale non coincide con quella considerata “pluralista” da Bruxelles. 

Cuore pulsante dell’EMFA sarà, infatti, l’European Board for Media Services, organo comunitario incaricato di vigilare sull’applicazione della legge. Composto da rappresentanti delle autorità nazionali di regolamentazione, agirà in stretto raccordo con la Commissione europea. Il problema è la concentrazione del potere decisionale in un organismo sovranazionale: un unico centro avrà la possibilità di influire sulle linee editoriali e sulla sopravvivenza economica delle testate, fornendo “pareri non vincolanti” che, però, influenzeranno direttamente l’accesso ai fondi e le procedure sanzionatorie.

L’articolo 26, sotto la veste di uno strumento di tutela e trasparenza, concentra in un organo sovranazionale la capacità di “certificare” lo stato della libertà di stampa nei singoli Paesi, istituendo un meccanismo di monitoraggio permanente sulle condizioni della libertà e del pluralismo dei media. Senza garanzie di indipendenza reale e pluralità metodologica, il sistema rischia di trasformarsi da strumento di protezione in leva di condizionamento politico-mediatico, capace di colpire selettivamente governi e media non allineati alla narrativa dominante. 

Il regolamento (art. 17-21) vieta arresti, perquisizioni, spyware e sorveglianza per costringere un giornalista a rivelare le proprie fonti. Tuttavia, introduce eccezioni per “motivi imperativi di interesse generale” e “sicurezza nazionale”. Questa clausola elastica, già vista in altre normative UE, minaccia di svuotare la protezione stessa: basterà invocare la “sicurezza nazionale” per autorizzare intercettazioni, monitoraggi mirati e l’uso di software intrusivi come Pegasus (art. 22-23). È proprio questa clausola, volutamente vaga, ad aver sollevato le critiche di decine di organizzazioni internazionali

In Italia, l’entrata in vigore dell’EMFA riaccende il dibattito sulla governance della RAI, ancora lottizzata, esposta a procedure di infrazione per il mancato adeguamento alle regole di nomina trasparenti richieste dal regolamento europeo. Il governo Meloni è alle prese con due nodi sensibili da sciogliere: la riforma della RAI e il caso Paragon sul presunto uso di spyware nei confronti dei giornalisti. . 

Il testo introduce anche un meccanismo per impedire che le piattaforme online “molto grandi” rimuovano arbitrariamente contenuti provenienti da media indipendenti (art. 16 e 30). Le piattaforme dovranno avvisare e dare 24 ore di tempo per rispondere prima della rimozione. Tuttavia, lo stesso regolamento stabilisce che le piattaforme distinguano tra “fonti indipendenti” e “non indipendenti”. Chi decide i criteri? Se l’autorità di riferimento è europea, il pericolo è che media critici verso le politiche UE vengano classificati come “non indipendenti” e penalizzati. In più, le decisioni algoritmiche restano in gran parte opache. Un sistema simile, se non gestito con estrema trasparenza, potrebbe legittimare una censura preventiva mascherata da protezione.

Il Media Freedom Act è strutturato in modo da presentare garanzie condivisibili e si presenta come una carta dei diritti per il giornalismo europeo, ma tra le pieghe di articoli e disposizioni si annidano strumenti che potrebbero essere usati per il fine opposto: centralizzare la gestione del pluralismo, definire dall’alto cosa sia una “informazione affidabile” e marginalizzare le voci critiche. Il rischio più concreto non è una censura diretta e brutale, ma un lento processo di condizionamento economico e normativo, che ridurrebbe il “vero” pluralismo al pluralismo “approvato” da Bruxelles. La sfida sarà evitare che una legge nata per proteggere la libertà di stampa diventi l’ennesima architettura di sorveglianza e di conformismo mediatico.

Trump passa il controllo della polizia di Washington alle forze federali

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Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha firmato un ordine esecutivo per dichiarare lo stato di emergenza nella capitale Washington DC, e ha annunciato che dispiegherà 800 soldati della Guardia Nazionale per «contribuire a ristabilire la legge» nella capitale. La polizia locale, ha specificato Trump in conferenza stampa, sarà sotto il controllo delle forze federali. L’ordine si basa su una legge che permette al presidente degli USA di assegnare il comando della polizia locale alle forze federali per non oltre 30 giorni. Per motivare la sua scelta, Trump ha mostrato un grafico contenente dati sulla criminalità della città, sostenendo che sia più pericolosa delle altre capitali del mondo.

Uno studio prova il legame tra inquinamento atmosferico e aumento dei casi di demenza

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Esiste un legame significativo tra l’aumento del rischio di demenza e l’esposizione a lungo termine all’inquinamento atmosferico, in particolare a quello dovuto a tre specifici inquinanti: è quanto rivela un nuovo studio guidato dai ricercatori dell’Unità di Epidemiologia del Medical Research Council (MRC) dell’Università di Cambridge, sottoposto a revisione paritaria e pubblicato su The Lancet Planetary Health. Secondo l’analisi, che ha riunito i dati di oltre 29 milioni di persone provenienti da decine di studi condotti in diversi continenti, l’incidenza di demenza risulta significativamente correlata a biossido di azoto (NO2), fuliggine e PM2.5, il quale da solo comporterebbe un aumento del 17% del rischio di sviluppare la malattia per ogni incremento di 10 microgrammi per metro cubo di tale sostanza. «Il nostro lavoro fornisce ulteriori prove a supporto dell’osservazione che l’esposizione a lungo termine all’inquinamento atmosferico esterno è un fattore di rischio per l’insorgenza di demenza», commenta la coautrice Haneen Khreis, aggiungendo che interventi politici urgenti sarebbero necessari per ridurre l’inquinamento e proteggere la salute pubblica.

La demenza, inclusa la malattia di Alzheimer, colpisce oggi oltre 57 milioni di persone nel mondo e, secondo le proiezioni, sarebbe in un aumento fino a 152 milioni di casi entro il 2050. Questo incremento, spiegano gli esperti, rappresenta una sfida sanitaria e sociale di proporzioni enormi, con ripercussioni dirette su pazienti, famiglie e sistemi sanitari già sotto pressione. Sebbene alcuni studi recenti suggeriscano un calo della prevalenza nei Paesi occidentali, resta alta l’urgenza di individuare le principali cause, al fine di suggerire interventi politici mirati. In questo contesto, l’inquinamento atmosferico è emerso negli ultimi anni come possibile elemento chiave. Tuttavia, fino a oggi, le prove disponibili erano frammentarie, spesso discordanti, e non sufficienti per stabilire con certezza un nesso causale. Per questo motivo la nuova ricerca, attraverso una revisione sistematica e una meta-analisi della letteratura, si è prefissata l’obiettivo di superare questi limiti, fornendo un quadro più solido dell’associazione tra inquinamento e demenza.

In particolare, il team ha incluso 51 studi complessivi, 34 dei quali nella meta-analisi vera e propria, utilizzando dati provenienti in larga parte da Paesi ad alto reddito, con 15 studi dal Nord America, 10 dall’Europa, sette dall’Asia e due dall’Australia. L’analisi ha individuato un’associazione significativa tra la demenza e l’esposizione a tre inquinanti: il particolato fine PM2.5, il biossido di azoto (NO₂) e la fuliggine. Queste sostanze, prodotte da traffico veicolare, combustione di legna, attività industriali e centrali elettriche, sono note per penetrare in profondità nei polmoni e nel sistema circolatorio. Per il PM2.5, spiegano gli autori, ogni aumento di 10 μg/m³ è associato a un +17% di rischio relativo. Per il NO₂, il rischio sale del 3% ogni 10 μg/m³, mentre per la fuliggine, infine, il rischio cresce del 13% per ogni 1 μg per metro cubo. Affrontare l’inquinamento «può ridurre l’enorme carico di lavoro per pazienti, famiglie e operatori sanitari, alleggerendo al contempo la pressione sui sistemi sanitari sovraccarichi», secondo Khreis, la quale aggiunge che l’inquinamento può inoltre contribuire alla demenza innescando infiammazione cerebrale e stress ossidativo, meccanismi già noti anche nelle patologie cardiovascolari e polmonari. «Prevenire la demenza non è solo responsabilità dell’assistenza sanitaria», ma richiede anche azioni decise nella pianificazione urbana, nei trasporti e nella regolamentazione ambientale, sottolinea il coautore Christiaan Bredell, aggiungendo che le future ricerche dovrebbero garantire una maggiore equità e rappresentatività. «È probabile che siano necessari limiti più severi per diversi inquinanti», conclude Clare Rogowski, coautrice dello studio, «mirati ai principali responsabili, come i settori dei trasporti e dell’industria».

Palazzi al posto del bosco spontaneo: a Bologna è sotto attacco un altro polmone verde

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Per il Comune è «uno spazio verde che promuove la mobilità dolce e sostenibile». Per molti cittadini è invece l’ennesimo polmone verde regalato alla speculazione edilizia. Nella zona nord-ovest di Bologna, tra la ferrovia e l’aeroporto, si estende un’area verde inaspettata: un bosco spontaneo cresciuto su una vecchia cava, chiusa e bonificata anni fa. Un ecosistema ormai maturo, popolato anche da specie autoctone quali pioppi e querce. Un polmone verde che assorbe l’acqua, filtra l’aria, favorisce la biodiversità e mitiga l’effetto “isola di calore” in una zona dominata da asfalto e cemento: quella conosciuta come Bertalia-Lazzaretto. Ora il Comune ha deciso di abbattere una parte consistente di quel bosco per costruire una nuova zona residenziale: 159.000 metri quadrati complessivi, di cui 94.000 destinati all’edilizia privata.

Il progetto originale risale al 2007, è stato aggiornato nel 2017 — paradossalmente in parallelo con il piano urbanistico regionale sul “consumo di suolo zero”, e oggi è pronto a entrare nella sua fase operativa. «Ce ne siamo accorti poche settimane fa – racconta a L’Indipendente Licia Podda, biologa e membro del Comitato Bertalia-Lazzaretto – Organizzo spesso passeggiate nel bosco per esplorare il luogo e mappare la biodiversità. L’ultima volta, il 10 maggio, abbiamo trovato il passaggio che usiamo di solito per entrare chiuso con un cancello e un lucchetto».

Il comitato ha quindi scritto una lettera aperta al Comune: «Assistiamo attoniti, tra imbarazzo e stupore, all’ennesimo tentativo di greenwashing da parte della giunta, che cerca di vendersi come ecologica mentre una vasta zona di bosco urbano, con alberi ad alto fusto, è destinata a essere rasa al suolo per lasciare spazio a un progetto di lottizzazione che prevede edilizia privata, pubblica e cementificazione indiscriminata».

Il bosco spontaneo cresciuto nella zona Bertalia-Lazzaretto di Bologna

Quando si parla di greenwashing, ossia al tentativo di comunicare una grande attenzione all’ambiente mentre in realtà si agisce in tutt’altro senso, è inevitabile il riferimento agli ormai famigerati alberelli in vaso posizionati in centro città per contrastare le ondate di calore, portando — almeno in teoria — ombra e refrigerio. Piazzati lì come figurine verdi per le foto dei turisti, mentre nelle periferie meno visibili il Comune abbatte alberi per far posto a strade ed edifici. Il comitato, nato circa un anno fa, si è attivato per approfondire il progetto: «Nel gruppo ci sono anche geometri e ingegneri urbanisti – continua Podda – Abbiamo analizzato gli atti pubblici relativi all’intervento e costruito un plastico per visualizzare come cambierebbe l’area». Il colpo d’occhio fa pensare subito al ragazzo della via Gluck di Adriano Celentano: «Là dove c’era l’erba ora c’è una città».

Il sindaco Matteo Lepore, informato dell’iniziativa, ha contestato l’accuratezza del plastico, affermando che «non riflette i dati reali del progetto» e ha invitato il comitato a un incontro chiarificatore previsto per settembre. Alla base delle preoccupazioni del comitato c’è l’impatto ambientale che la nuova colata di cemento potrebbe avere su tutta l’area: «Il progetto si fonda su dati raccolti nel 2007 – osserva Podda – ma da allora Bologna è cambiata profondamente: il clima si è fatto più instabile, l’urbanizzazione è aumentata e la consapevolezza ambientale è cresciuta. Negli ultimi anni abbiamo visto la città andare sott’acqua a causa delle piogge torrenziali. E sappiamo bene che la risposta non può essere coprire di cemento ogni spazio libero, ma piuttosto lasciare il suolo permeabile, in grado di assorbire l’acqua. Non si può affrontare il presente con strumenti del passato, come se fossimo ancora in un’altra epoca».

L’area interessata dal progetto per come appare ora

Il Comune, nel frattempo, difende il progetto e parla di «una nuova comunità residenziale ecosostenibile», come si legge nella sezione Piano per l’Abitare pubblicato sul portale istituzionale. A dicembre 2023 è stato bandito un concorso di progettazione per realizzare circa 236 alloggi, di cui 119 destinati a un nuovo studentato pubblico. L’intervento, una volta concluso, dovrebbe ospitare circa 700 persone, tra cui 180 studenti e studentesse. Il costo complessivo stimato è di 55 milioni di euro, interamente coperti da risorse comunali.

Come diventerebbe l’area dopo la realizzazione del progetto urbanistico, secondo il plastico realizzato dal Comitato Bertalia-Lazzaretto

Anche la vicesindaca Emily Clancy ha difeso il progetto: «La superficie complessiva del piano è di 73 ettari – ha spiegato in Consiglio comunale – e di questi resteranno a verde oltre 30 ettari, vale a dire più del 40%. Inoltre, il Piano per l’Abitare porterà alla costruzione di alloggi a canone agevolato e residenze per studenti. Questa visione – ha aggiunto, facendo ricorso alle classiche parole chiave della retorica istituzionale – si traduce in un progetto paesaggistico che amplia e qualifica le superfici verdi, rafforza la continuità ecologica fra i comparti, contribuisce alla costruzione di una rete verde interconnessa e integra in modo virtuoso il verde pubblico con gli spazi abitativi, favorendo un equilibrio tra natura e insediamento urbano». Resta da definire, al di là della retorica da costruttori-green di cui abbonda la progettistica comunale bolognese, in che senso eliminare quasi il 60% del verde in uno dei pochi polmoni della città possa essere definito «un progetto paesaggistico che amplia e qualifica le superfici verdi».

«Noi non siamo contrari al progetto a prescindere – ha spiegato Licia Podda – ma vogliamo che venga fatta chiarezza su cosa si intenda per verde e su come si valuta il valore ecologico di un ecosistema esistente. Un bosco rinaturalizzato, cresciuto spontaneamente nel tempo, non può essere considerato equivalente a un prato piantumato o a una fila di alberelli decorativi. Serve trasparenza, aggiornamento dei dati ambientali e soprattutto un confronto reale con chi quel territorio lo vive ogni giorno». «Ci auguriamo che l’amministrazione sia capace di mediare tra queste istanze – ha commentato in aula il consigliere comunale Matteo Di Benedetto – ma, al netto di tutto quello che ci possiamo dire, il tema è chiaro: si parla sempre di contrastare le isole di calore e l’innalzamento delle temperature, ma poi si pongono in essere opere che vanno in senso diametralmente opposto».