Si è spento nell’aula del consiglio regionale della Lombardia la mozione proposta da Fratelli d’Italia (FdI) che avrebbe obbligato le scuole del territorio a vietare fra i banchi la carriera alias, quella cioè che permette a chi si identifica in un genere diverso rispetto a quello di nascita di essere chiamato con un nome differente da quello anagrafico – a patto che la persona in questione abbia burocraticamente iniziato il proprio percorso di transizione. Nonostante la bocciatura sia avvenuta sul filo – i voti a favore sono stati 35, anche se ce ne sarebbero voluti almeno 37 su 73, i contrari 33 e gli astenuti 4 – sorprende come alla fine, dopo tre tentativi di far discutere il testo in aula, la coesione all’interno del partito di Giorgia Meloni – che da solo avrebbe avuto i numeri per far passare la mozione – su un tema considerato dai suoi membri così importante come l’identità di genere sia venuta a mancare. Facendo naufragare definitivamente l’iniziativa del consigliere di FdI Giacomo Zamperini e di quanti, in questi mesi, l’avevano sostenuto.
Tra cui Pietro Macconi, altro (storico) consigliere regionale del partito, con un passato in Alleanza Cattolica e nel Popolo della Famiglia, che a settembre si era guadagnato qualche articolo per aver fatto recapitare una mail nella casella di posta elettronica di tutti i dirigenti scolastici lombardi. Un mezzo di cui Macconi si era servito prima di tutto per annunciare che nel giro di poco tempo si sarebbe votata la mozione e che ha sfruttato però principalmente per tentare di spiegare il motivo della proposta del suo partito. Nel corpo della lettera si leggeva infatti che «la richiesta al Ministero è di intervenire in ragione del contrasto alla diffusione della carriera alias nelle scuole, che desta giusta preoccupazione nelle famiglie, attesa l’innaturale ideologia volta alla fluidità di genere».
Tutti i punti critici della mozione
In Italia sono quasi trecento gli istituti, tra scuole e università (la lista completa di queste ultime è consultabile qui) che prevedono la carriera alias nel proprio ordinamento – più di trenta solo in Lombardia. Significa che in queste strutture la persona che sta affrontando un percorso di transizione può richiedere che nei documenti scolastici interni, aventi valore non ufficiale, venga utilizzato il suo nome d’elezione (che si è scelto), e non quello registrato all’anagrafe. Come spiega l’associazione Genderlens, così facendo si evita «il disagio di continui e forzati coming out e la sofferenza di subire possibili forme di bullismo», che andrebbero scongiurate anche «concordando altre buone prassi, fra cui l’uso di spazi sicuri (scelta del bagno, dello spogliatoio), per la/lo studente trans, poiché sono questi i luoghi in cui avvengono spesso pesanti episodi di discriminazione».
Secondo Fratelli d’Italia, invece, più che una necessità quello della carriera alias è «un capriccio che non rispetta la legge», e «un danno per gli stessi studenti che la richiedono in quanto porta a consolidare una percezione soggettiva nella quasi totalità dei casi temporanea e risolta spontaneamente nella maggiore età». Per provare a dimostrarlo il partito della presidente del Consiglio ha citato una ricerca, estrapolandone alcuni passi in modo decontestualizzato e fuorviante secondo l’opinione della stessa autrice dello studio.
Come precedentemente specificato, chi non ha ancora concluso il proprio percorso di transizione può richiedere che il suo nome d’elezione compaia nei documenti non ufficiali – mentre in tutti gli altri continuerà a figurare quello anagrafico. Per la seconda dichiarazione, invece, bisogna fare un discorso a parte. La frase in questione, inizialmente contenuta nel testo originale della mozione e poi modificata durante l’ultima discussione in aula, non è ‘farina del sacco’ del partito. A scriverla è stata Jiska Ristori, psicologa e psicoterapeuta e autrice di uno studio del 2016 – la fonte di FdI –sulla condizione sociale e psicologica dei bambini – e non quindi degli adolescenti – venuti a contatto con centri dedicati all’affermazione di genere – quindi un campione specifico, non rappresentativo di tutta la popolazione.
Motivo per cui è stata la stessa esperta a prendere le distanze dalla mozione dichiarando che «gli scritti citati sono fuori contesto e usati in modo strumentale per sostenere tesi opposte a quelle ivi contenute», e che anzi «gli studi, a oggi, dimostrano che la carriera alias è un importante strumento di supporto al buon funzionamento psicologico di giovani persone transgender». Evidenze scientifiche che però non bastano a tutti. Associazioni come ‘Pro Vita&Famiglia’ e ‘Generazione Famiglia’ nel 2022 hanno diffidato i Presidi di 150 scuole per aver approvato «la cosiddetta carriera alias per alunni transgender su pressione del movimento LGBTQIA+», chiedendogli l’immediato annullamento. Genderlens e altri gruppi le hanno accusate di diffondere dati statistici e scientifici inesistenti, con il solo scopo di «spargere panico morale verso le famiglie, le scuole e nella pubblica opinione».
Perché la carriera alias è percepita come importante
In Italia chi intraprende un percorso di transizione, oltre a dover fare i conti con una serie di prassi burocratiche, ha un nemico più grande di tutti gli altri: il tempo. Prima di ottenere nuovi dati anagrafici e nuovi documenti possono infatti trascorrere alcuni anni – soprattutto perché esistono certe tappe prestabilite, con una durata più o meno fissa. Un periodo piuttosto lungo in cui il soggetto coinvolto è obbligato a vivere in un corpo che non sente suo, e in una società che spesso non riesce a vedere oltre. Aspetti che, sommati, mettono a dura prova l’equilibrio emotivo e psichico di chi affronta questo percorso, già di per sé delicato.
La transizione comincia infatti con una serie di incontri psicologici, che si protraggono per almeno sei mesi. È una fase che l’Osservatorio Nazionale sull’identità di Genere descrive come un periodo molto importante sia dal punto di vista diagnostico che da quello terapeutico. Un primo approccio di tipo ‘mentale’ serve infatti a valutare correttamente la situazione e la “realtà” della condizione transessuale – visto l’impatto del percorso sulla vita dell’individuo – e a dare sostegno morale in previsione di quello che verrà.
Questo periodo è poi succeduto dalla somministrazione fisica della terapia ormonale, che solitamente dura per tutta la vita. Chi le si sottopone assume in sostanza degli ormoni (o femminilizzanti, come gli estrogeni o mascolinizzanti, come il testosterone), che agevolano il cambiamento corporale in modo che si allinei con l’identità di genere percepita.
È considerato un momento fondamentale, che apre la strada a quello che viene definito “test di vita reale”: un periodo cioè della durata massimo di due anni in cui l’individuo comincia a vivere nel mondo con il ‘sesso’ a cui sente di appartenere, pur mantenendo ancora i documenti anagrafici originali. Una fase dunque di netta discrepanza tra ciò che si vede allo specchio e quello che si legge sulla carta d’identità. «In questo periodo la persona potrà capire se si sente in sintonia col genere percepito, affrontare più serenamente tutte le complessità che vengono con il cambio anagrafico, e anche rendersi conto che è un passo importante», ha commentato a Vice Paolo Valerio, Presidente dell’Osservatorio Nazionale sull’Identità di Genere.
Se, superato anche questo punto, il percorso prosegue, chi ha seguito la persona in transizione (medici e psicologi, per esempio) stila una relazione globale, che riguarda ogni fase del cammino. Questa sarà poi consegnata al tribunale di competenza, a cui spetta il compito di convalidare – previa udienza, che potrebbe arrivare anche dopo sei mesi dalla richiesta – i nuovi dati anagrafici e i documenti ufficiali (patente, licenze, titoli di studio e così via). Una pratica che, nel complesso, copre un arco di tempo, seppur variabile, ancora decisamente lungo.
È chiaro a questo punto il motivo per cui procedure ‘di mezzo’, come le carriere alias, siano percepite come un diritto essenziali dai giovani alle prese con la transizione, un momento per riprendere fiato durante un cammino lungo e complicato. «Non per ogni studente è facile star bene a scuola» e soprattutto, come specificato da Genderlens, «non per chi vive tutti i giorni la sensazione di non essere conforme ad aspettative sociali e a ruoli stereotipati che non tengono conto delle differenze individuali riguardanti anche l’identità di genere». Ostacolare percorsi alternativi significa infatti correre il rischio che alla fine, queste persone, dietro i banchi non ci tornino mai più.
E sta già accadendo. Il 43% delle persone trans tra i 12 e i 18 anni lascia la scuola prima di aver terminato gli studi. D’altronde secondo l’ultimo rapporto ‘Rainbow Europe’, stilato dalla International Lesbian, Gay, Bisexual, Trans and Intersex Association (ILGA) il nostro Paese è al 22esimo posto fra i 27 dell’UE e al 34esimo sulle 49 nazioni prese in esame in tutto il mondo per qualità dell’iter di cambio di genere e di sesso e per le politiche (più o meno discriminatorie) presenti sul territorio.
La salute mentale continua a non essere una priorità
In Italia – e non solo – fatica a farsi largo un concetto chiave per la salute dell’intero Paese: non può esistere benessere psicologico senza inclusione e accettazione, e viceversa. Ingredienti con cui cominciamo a fare conoscenza da giovani, rapportandoci con persone della stessa età, mescolandoci con loro, in un continuo prendere e dare, in un contesto in cui la protezione e il filtro della famiglia sono tagliati fuori.
Durante quell’età accogliamo cambiamenti fisici, emotivi e sociali, che possono piacerci o meno: un incontro quindi non per tutti naturale o facile. Difficoltà che se ignorate o minimizzate possono trasformarsi in mostri enormi, in grado di influenzare la vita dell’adolescente a lungo – e in alcuni casi per sempre. Gli ultimi dati dicono che il 39% dei ragazzi tra i 10 e i 19 anni soffre di una sintomatologia affettiva ansioso-depressiva che potrebbe sfociare in una definitiva psicopatologia (numeri emersi da uno studio italiano che ha coinvolto 1.571 ragazzi). E che gli stessi hanno spesso difficoltà a esprimere quello che sentono, nonostante sia motivo di sofferenza.
Tuttavia, secondo gli esperti del Policlinico Gemelli e di Unicef, «se si trova la chiave di lettura giusta, se si riattiva la comunicazione con i genitori e la scuola» e soprattutto, se si concede ai ragazzi il diritto di essere sé stessi, senza costringerli a saltare inutili ostacoli, «i sintomi regrediscono ed è possibile invertire traiettorie preoccupanti». Un processo che l’aiuto di professionisti potrebbe velocizzare. Non a caso proprio lo scorso aprile, infatti, Unione degli universitari (Udu) e Rete degli studenti medi hanno presentato alla Camera dei Deputati un disegno di legge per istituire presidi psicologici in tutte le scuole e università. Tale richiesta si inserisce nella più ampia mobilitazione a tutela della non più trascurabile salute mentale e in risposta al “fortissimo disagio psicologico che si avverte tra le mura scolastiche”. Un disagio che ovviamente ha radici profonde e varie, come abbiamo approfondito su L’Indipendente, e tra questi anche la questione delle carriere alias riveste un ruolo. Di certo quello della possibilità di aggiornare i registri scolastici ed appellare con il nome congruo al genere percepito ragazzi affetti da disforia di genere (e con percorso di transizione già in corso) può essere considerato un tema di minoranza, tuttavia la mancata volontà di affrontare un problema reale e doloroso per alcuni testimonia come ancora la politica sia recalcitrante a prendersi carico della tutela – innanzitutto psicologica – di alcuni studenti negando loro un diritto che non lederebbe quello degli altri.
D’altronde, come ricorda il presidente del Consiglio nazionale dell’Ordine degli Psicologi (CNOP) David Lazzari, «l’apprendimento va di pari passo col fatto di stare bene». E non si può stare bene dove non c’è accettazione e inclusione.
[di Gloria Ferrari]
Quando ho letto del “testi di vita reale” mi è venuta in mente la monaca di Monza che, dopo una vita di condizionamento per convincerla a diventare suora, ha dovuto passare un periodo nel mondo esterno, previsto dalla legge per rispettare la sua reale volontà. Sappiamo tutti come è andata a finire. E’ molto difficile capire cosa ci sia davvero, dietro tutta questa enfasi sull’identità di genere. Nella storia, i ruoli assegnati al genere maschile e femminile sono legati alla cultura espressa da una comunità, e, quindi, al modo in cui la società stessa articolava le sue funzioni al proprio interno (vedi nascita delle elite, cambio della mitologia e della religione in favore del patriarcato, ecc.). Penso che, per capire a quale genere biologico, e non culturale, ognuno apparttenga ci voglia tanto tempo. Noi stessi adulti abbiamo costruito la nostra identità in un tempo lungo, a fronte degli schemi proposti dalla società e ne portiamo l’impronta. Faccio fatica a pensare che una persona molto giovane abbia già la certezza di voler cambiare la propria biologia. Dalle testimonianze che ho ascoltato ho capito che il sentirsi in un corpo che non appartiene alla propria identità profonda è una sensazione che comincia all’inizio della pubertà. Penso che, quindi, la persona vada soltanto accompagnata nella comprensione e conseguente decisione di intervenire, farmacologicamente e chirurgicamente, sul proprio corpo, con interventi che richiedono grande maturità emotiva e psicologica. Forse il problema è che viviamo tutti nella convinzione che il corpo si può fare e disfare in qualunque momento, a nostro piacimento. Le possibilità offerte dalla scienza moderna non vanno di pari passo con le norme sociali e culturali e, quindi, di nuovo, bisognerebbe capire “cui prodest”?
A me questo questo più che un articolo da indipendente mi sembra allineato un po’ troppo alla sinistra. La carriera alias non fa che alimentare confusione in una fase delicata come quella Dell adolescenza caratterizzata da una psiche ancora informazione. Io ho 33 anni e rispetto a quando ne avevo 15 o 17 sono totalmente un altra persona. Qui si parla di scelte che condizionano la persona per tutta la vita e che non si possono prendere in un età così immatura.
Forse non ti è chiaro che l’Indipendente, seppur “libero”, ha ovviamente una sua collocazione politica e una sua linea editoriale che, non ne ha mai fatto mistero, è decisamente di sinistra. O pensi che continuare a parlare di anti-capitalismo, degli ultimi e di mondo multipolare sia una pratica politica conservatrice?
Sono il primo ad essere critico contro lo squilibrio della cd “sinistra liberal-democratica” (PD e affini) sul favorire le tematiche sui diritti individuali rispetto a quelle di giustizia sociale e economiche, ma questo non vuol dire che non siano problematiche che non vadano affrontate. Soprattutto quando riguardano lati, imho, poco problematici come le carrieri alias (insomma non parliamo di questioni più delicate come adozioni, maternità surrogata, etc..). Tra l’altro la legge già prevede che la carriera alias si possa utilizzare solo se si è già iniziati la transizione. E la transizione la puoi iniziare solo dopo un lungo e duro (a volte forse fin troppo) percorso psicologico che serve proprio a far capire all’adolecente la portata della sua possibile scelta, quindi per diradare un po’ quella nebbia e confusione che chiunque prova a quell’età.
Viene detto che bisogna risolvere la incongruenza presente in persone che non si identificano con il proprio corpo. Dunque si tratterebbe di due entità’ che sono in conflitto. La realtà e’ che il corpo e’ UNO e comprende sia i vari organi sia la mente, lo spirito e/o l’anima. La scienza moderna ha inventato il corpo che funzionerebbe come una macchina: se un pezzo non funziona allora lo si sostituisce o lo si cura come entità a parte, isolata dal resto. Il corpo e’ uno, come si può concepire che una parte non riconosca l’altra? Ai tempi di Caterina da Siena per es. si considerava il corpo come appartenente a Satana mentre lo spirito si collegava a Dio…ma erano altri tempi.
Comunque, visto le recenti esperienze con la “scienza”, ritengo che siano argomenti da tenere lontani da spicologi e psicoterapeuti.
Sono piuttosto ambito di sociologia, etica, filosofia e antropologia. Ci manca solo un altro CTS, uno psicoCTS, che decida come formare lo sviluppo e l’educazione dei giovanissimi.
Completamente d’accordo.
braissimo
Bisogna informarsi molto bene prima di importare dagli Stati Uniti questa ideologia. Bisogna informarsi sul disastro educativo e sociale che queste scelte hanno determinato nella scuola americana. Forse bisognerebbe anche capire che questa esigenza non proviene dal basso, cioè dagli studenti, ma viene imposta come nuovo modello educativo dall’agenda 2030.
Questi contributi video chiriscono molti cose:
https://youtu.be/9dGw5TyXb9o?si=FcniO3qaT1j0Irpy
https://youtu.be/L-iJTekW9ns?si=gOBVN6cpyI8HXHdC
“Di tutti i metodi, il più influente si chiama istruzione […). Possiamo sperare che nel tempo, chiunque potrà convincere chiunque di qualunque cosa, a patto che possa lavorare con pazienza sin della sua giovane età e che lo Stato gli dia il denaro e i mezzi per farlo. La questione evolverà a lunghi passi allorché sarà posta in opera da scienziati sotto una dittatura scientifica.
I socio-psicologi del futuro avranno a loro disposizione un certo numero di classi di scolari, sui quali collauderanno differenti metodi per far insorgere nel loro animo la incrollabile convinzione che la neve sia nera. Si constaterà rapidamente qualche problema. In primo luogo, che l’influenza della famiglia è un ostacolo. In seguito, che non si andrà molto lontano se l’indottrinamento non sarà iniziato prima dell’età dei dieci anni. In terzo luogo, che dei versi messi in musica e eseguiti a intervalli regolari sono assai efficaci. In quarto luogo, che credere che la neve sia bianca dovrà essere visto come il segno di un gusto
malato per l’eccentricità».
Bertland Russell, L’impatto della scienza sulla società
L’Indipente ha pubblicato un altro articolo smaccatamente pro gender, impreciso e tutt’altro che imparziale, a partire dalla terminologia propria della propaganda gender, fino ad arrivare ad indicare il valore errato di 1,7% di intersessuali nella popolazione, rifacendosi ai dati controversi di una divulgatrice notoriamente sostenitrice del gender, invece di indicare i dati reali di nati con genitali ambigui che è solo 0.02%–0.05%
Link all’articolo:
https://www.lindipendente.online/2024/03/08/il-cammino-verso-i-diritti-dellidentita-di-genere-e-orientamento-sessuale/
Consiglio di farsi sentire anche nei commenti lì.
Sempre che non si abbia già disdetto l’abbonamento (come sto valutando di fare io, per una cosa così grave come il sostegno della teoria gender da parte de L’Indipendente), in quel caso credo non si possa più commentare.
Varie disdette di abbonati sdegnati spiegherebbero anche perchè questo articolo sia stato commentato negativamente da molte persone, mentre l’altro più recente no…
Sono d’accordo con Cristina. L’articolo della Frezza è lucido e acuto. Inserire dei ragazzi (una minoranza che da sempre è suscettibile a dei momenti di dubbio/confusione sui ruoli sessuali) in un percorso burocratizzato, legislativizzato e soprattutto medicalizzato, mi sembra una follia transumanica pericolosa per le nuove generazioni e il futuro dell’umanità.
Aggiungo anche che, guarda caso, Gloria Ferrari che scrive questo articolo su L’Indipendente, è psicologa e psicoterapeuta e secondo me questa categoria è sottoposta di questi tempi alla tentazione di conseguire potere intellettuale lasciandosi allucinare da teorie transumaniste assurde.
La carriera alias dura anni, se un ragazzo ha ‘dei momenti di dubbio/confuzione sui ruoli sessuali’ può fare approfondimenti ed evenutalmente tornare sui suoi passi.
Mah…
suggerisco la lettura di questo articolo di Elisabetta Frezza che si approccia al problema da un punto di vista più ampio, l’argomento è talmente complesso…
https://www.ricognizioni.it/la-carriera-da-un-sesso-allaltro-la-rivoluzione-in-interiore-homine/
Sono d’accordo con Cristina. L’articolo della Frezza è lucido e acuto. Inserire dei ragazzi (una minoranza che da sempre è suscettibile a dei momenti di dubbio/confusione sui ruoli sessuali) in un percorso burocratizzato, legislativizzato e soprattutto medicalizzato, mi sembra una follia transumanica pericolosa per le nuove generazioni e il futuro dell’umanità.
La carriera alias dura anni, se un ragazzo ha ‘dei momenti di dubbio/confuzione sui ruoli sessuali’ può fare approfondimenti ed evenutalmente tornare sui suoi passi.
Dall’articolo di E. Frezza: ” Tra le proposte figurano: «Identità alias obbligatoria in tutte le scuole di ordine e grado senza certificazione medico-psicologica (con autorizzazione della famiglia fino ai 14 anni)» o «Autorizzazione interventi chirurgici senza obbligo percorso psicologico».
In pratica, si ammette che un bambino sia libero di intraprendere scelte irreversibili (quali il blocco dello sviluppo per via farmacologica e la asportazione chirurgica di parti del corpo) senza nemmeno dover approfondire le motivazioni psicologiche sottese a una tale decisione. C’era una volta il principio di precauzione…
Si ricordi, per incidens, che nel 2018 è stato approvato in Italia, e inserito nei LEA, l’uso dei bloccanti (triptorelina) per «estendere lo spazio temporale di riflessione su di sé senza sperimentare il disagio di cambiamenti fisici incongruenti con la propria identità di genere». E che nel 99% dei casi l’assunzione del farmaco prelude alla via chirurgica, poiché quasi nessuno dopo quel passo torna indietro (mentre invece quasi tutti, crescendo, avrebbero semplicemente cambiato idea riallineandosi alla propria identità sessuata).