martedì 7 Maggio 2024

Come i media mainstream occultano la pubblicità facendola passare per informazione

RCS, il gruppo editoriale che controlla Il Corriere della Sera ed altri importanti quotidiani italiani, ha vinto un premio prestigioso. Per la qualità delle sue inchieste giornalistiche? No, tutt’altro. Il premio si chiama “Native Advertising Awards” e la RCS Studio è stata premiata per essere riuscita a «creare una narrazione efficace e ingaggiante con un ottimo ritorno in termini di brand awerness e reputation dei marchi». In parole più semplici, è stata premiata per la qualità dei contenuti pubblicitari che offre agli inserzionisti. Non ci sarebbe niente di male, se non fosse che buona parte della strategia pubblicitaria si basa sull’inganno dei lettori, sulla costruzione di un mix sempre meno distinguibile tra contenuti giornalistici e contenuti a pagamento.

A.A.A. Deontologia cercansi

Il “Testo unico dei doveri del giornalista” regolamenta i doveri ai quali ogni giornalista ed ogni testata dovrebbero attenersi. L’articolo 10 parla chiaro: «il giornalista assicura ai cittadini il diritto di ricevere un’informazione corretta, sempre distinta dal messaggio pubblicitario attraverso chiare indicazioni». Quella che segue è la dimostrazione, purtroppo non esaustiva, dei mille modi nei quali i grandi giornali del mainstream italiano aggirano quotidianamente questa regola. Ingannando i lettori ed umiliando la propria professione, senza che l’Ordine dei Giornalisti intervenga in nessun modo.

Partiamo da un piccolo esempio datato 19 marzo, quando è stato pubblicato in allegato al Corriere della Sera l’inserto “Beauty”. All’apparenza un prodotto giornalistico, con la gerenza guidata dal direttore responsabile Luciano Fontana, gli articoli firmati e un editoriale che suggeriva al lettore che la cultura era il filo conduttore dell’inserto con tanto di fondo dedicato a Italo Calvino. All’interno però si trovavano 72 pagine di vetrine pubblicitarie orchestrate in modo ingannevole. A pagina 12 un articolo intitolato “Dritti al cuore della pelle. L’eleganza del naturale” ha come sottotitolo “La filosofia di Clinique: un’epidermide perfetta non è un dono innato, è una conquista”. Casualmente la stessa azienda Clinique ha pure una pubblicità ospitata appena 5 pagine dopo. L’azienda cosmetica Roc è raccontata “giornalisticamente” con un pezzo a pagina 15 (titolo: “Roc ha sempre puntato sul patto con le sue clienti”) e poi è inserzionista di una pubblicità a pagina 41, casualmente sullo stesso prodotto del quale parlava l’articolo. Lo stesso accade con altri grandi marchi come Vichy, Armani e Moschino, che hanno prodotti che sono prima citati in articoli firmati da giornalisti e poi sono pubblicizzati all’interno dello stesso interno. Un canovaccio che si ripete per tutto l’inserto con vette come l’intervista a Nerio Alessandri, patron dell’azienda di attrezzi per palestra Technogym, che racconta come sarà la palestra del futuro. Sul web, a testimonianza di cotanto giornalismo, rimane la pagina online dell’inserto.

Se il problema fosse solo questo…

Se la questione riguardasse solo il Corriere della Sera o solo il modo in cui vengono raccontati argomenti come la moda e la bellezza, si potrebbe compiacersi del fatto che la questione è circoscritta e slegata dagli argomenti più importanti. Ma in verità il Corriere è in ottima compagnia. L’inserto “Fashion” pubblicato da La Repubblica negli stessi giorni è concepito con lo stesso identico meccanismo. E la situazione non migliora passando dagli inserti alle pagine dei quotidiani veri e propri. Sempre La Repubblica, ad esempio, ha pubblicato in una stessa edizione del quotidiano un articolo firmato dall’imprenditore Giovanni Arvedi e, poche pagine dopo, una pubblicità della stessa azienda Arvedi. La Repubblica sembra trovarsi particolarmente a suo agio in questo nuovo genere guidato dalla commistione tra giornalismo e pecunia. Come quando, il 23 marzo scorso, ha ospitato una pubblicità a pagina intera acquistata dalla Leonardo Spa, e contestualmente ha annunciato come nuovo collaboratore del giornale lo stesso amministratore delegato dell’azienda, l’ex ministro degli Interni Fabio Minniti.

L’Agenzia stampa più autorevole d’Italia

La commistione tra l’interesse pubblico del fornire una corretta informazione ai cittadini e l’interesse privato degli azionisti dei giornali trova la sua sublimazione tra le pagine dell’agenzia ANSA. Non solo chiunque può acquistare con qualche centinaio di euro un articolo sull’agenzia di stampa, scritto con i medesimi caratteri, in tutto per tutto identico ai contenuti giornalistici e contrassegnato solo da una piccola scritta che specifica che la responsabilità editoriale del pezzo appartiene ad altra società (un piccolo esempio è questo contenuto). Ma L’Ansa si presta senza colpo ferire anche alle strategie comunicative di Paesi stranieri che cercano di usare la stampa nostrana per fare propaganda. È il caso di un articolo sponsorizzato dall’ambasciata del Qatar intitolato: “Il Governo del Qatar: i lavoratori migranti sono tutelati“, che contiene la difesa d’ufficio della dittatura qatariota contro le accuse documentate sulla morte di migliaia di lavoratori nei cantieri per i prossimi mondiali di calcio.

Ancora una volta, quello dei rapporti commerciali tra Ansa e Qatar non è un fatto isolato, ma la spia di un problema più esteso. È fatto certo che anche i governi di Cina e Polonia abbiano acquistato spazi su numerosi giornali italiani. Il gigante asiatico, ad esempio, ha stretto collaborazioni con Ansa (che pubblica contenuti tradotti dall’agenzia di stampa di stato cinese Xinhua (ad esempio tutte queste). Mentre il Governo polacco – attraverso una serie di accordi con vari giornali – è riuscito ad esempio a piazzare nella prima pagina del Sole 24 Ore un editoriale scritto direttamente dal proprio presidente del Consiglio.

C’era una volta il giornalismo economico

Uno dei settori dove la commistione tra pubblicità e giornalismo ha perso quasi ogni confine è quello dell’economia. Parliamo forse dell’argomento di maggiore rilevanza per orientare l’opinione dei cittadini su euro, Mes, politiche europee, politiche del lavoro, eccetera. Ma ormai fare vero giornalismo economico sui giornali italiani è praticamente impossibile. Per rendersene conto si invitano i lettori a sfogliare le pagine economiche di un qualsiasi grande quotidiano italiano: ormai un susseguirsi senza sosta di interviste compiacenti all’amministratore delegato di quella e di quell’altra azienda, di pubblicità di aziende che difficilmente si vorranno scontentare, di proclami di nuovi mirabolanti bilanci presentati dai consigli di amministrazione.

Si tratta degli stessi giornali i cui direttori monopolizzano i salotti televisivi, spesso pontificando contro il giornalismo inattendibile che si trova sul web e catechizzando il pubblico su come solo attraverso i grandi giornali si possa avere una informazione al riparo dalle “fake news”.

[di Andrea Legni]

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