lunedì 25 Agosto 2025

Israele fa entrare a Gaza gli influencer per diffondere fake news sul genocidio

Il Ministero della Diaspora di Tel Aviv ha invitato dieci influencer internazionali nella Striscia di Gaza per promuovere la propaganda a proprio favore. «Se io fossi Israele, a Gaza non darei nemmeno i calzini appaiati», dice uno di loro, mostrando le pile di aiuti umanitari bloccate sul lato palestinese del valico di Kerem Shalom, situato tra Israele, Striscia di Gaza ed Egitto; «Sono qui a Gaza e tutto quello che vedo è cibo, acqua e opportunità». Il giardino dell’Eden, insomma, a cui i gazawi non avrebbero accesso perché Hamas ruberebbe gli aiuti e l’ONU si rifiuterebbe di distribuirli. L’ennesima operazione mediatica per spargere il seme del negazionismo, che Israele ha portato avanti scaltramente, invitando una manciata di persone note sui social all’interno di un’area di confine chiusa, mentre da quasi due anni blocca l’accesso alle zone di guerra ai giornalisti internazionali.

«Stiamo perdendo la guerra della propaganda». Diceva così il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu lo scorso 10 agosto, lanciando le tradizionali accuse di faziosità contro i media che non riportano fedelmente la versione di Israele sul genocidio palestinese. «Dobbiamo fare qualcosa contro l’algoritmo dei social», continuava, sostenendo che i contenuti virali fossero orientati a dipingere lo Stato ebraico negativamente. Ecco dunque che dieci giorni dopo, sono apparsi sui social i video di Xavier De Rousseau, “attivista della generazione Z” statunitense, 500mila follower su Instagram, e 250mila su X. È lui, vestito con casco protettivo e giubbotto antiproiettile, a sostenere di essere «dentro Gaza» (senza specificare di trovarsi ben lontano dalle zone di guerra, su un valico di confine controllato da Israele) e ad accusare l’ONU di «portare gli aiuti, ma non finire il lavoro, come il tuo ex». Visto l’alto numero di follower e la vena polemica dei suoi contenuti, i suoi video sono tra quelli che sono circolati di più, ma non sono gli unici. A Kerem Shalom sono entrati anche Marwan Jaber, giovane druso israeliano, con 250mila follower su Instagram; Jeremy Abramson, israelo-statunitense con 450mila follower; Shiraz Shukrun e David Mayofis, israeliani; Gabriel Boxer, statunitense; e Abraham Hamra, siriano di fede ebraica. L’unica a fare qualcosa di diverso è Brooke Goldstein, avvocata attiva nella lotta all’antisemitismo, che si è recata presso un punto di distribuzione della Gaza Humanitarian Foundation.

Tutti gli influencer invitati portano avanti la propaganda israeliana sui social da diverso tempo, e nei propri video “a Gaza” dicono la medesima cosa: gli aiuti ci sono, ma Hamas li ruberebbe per mangiare a volontà sotto i tunnel e vendere il cibo a prezzi elevatissimi in modo da finanziare l’acquisto di armi; l’ONU, invece, non vorrebbe distribuirli. Tutte queste affermazioni sono supportate dalla sola propaganda israeliana, e non c’è nessuna fonte diversa ad appoggiare la narrazione di Tel Aviv; che Israele stia bloccando gli aiuti, invece, lo hanno detto in tanti e tante volte, a partire dalle stesse Nazioni Unite, per arrivare al suo Ufficio Umanitario (OCHA), al Programma Alimentare Mondiale, alla Organizzazione Mondiale della Sanità, all’UNRWA; e ancora, ci sono esperti internazionali come la Relatrice per i territori palestinesi occupati Francesca Albanese, il Relatore per il cibo Michael Fakhri, e altri 30 relatori indipendenti; ci sono poi le ONG, come Amnesty, Human Rights Watch, le israeliane B’Tselem e Physicians for Humans Rights, e più di altre 100 organizzazioni non governative; le analisi indipendenti di cui si serve l’OCHA per i propri bollettini, le fonti ospedaliere locali, e quelle giornalistiche, tanto arabe quanto israeliane. Lo scorso giugno, anche la stessa GHF annunciò che Israele aveva limitato la distribuzione degli aiuti all’ONU, cosa che ha fatto svariate volte. Nei mesi Israele si è difesa lanciando accuse di antisemitismo contro chiunque mettesse in dubbio la propria versione, sostenendo che ci sia un complotto contro di lei, affermando che l’ONU sia «una palude di bile antisemita», e che le sue agenzie sostengano il terrorismo; non ha tuttavia mai portato nulla di solido per sostenere i propri argomenti.

L’invito agli influencer è arrivato dopo una serie di video su YouTube, inserzioni su Google, pubblicità su Meta (l’azienda di Mark Zuckerberg) e dichiarazioni sui media tradizionali, con i quali Israele sta provando a cambiare la narrativa sul genocidio a Gaza. Negli ultimi mesi, lo Stato ebraico ha portato avanti una massiccia operazione di propaganda per screditare Francesca Albanese promuovendo i propri rapporti contro di lei sul motore di ricerca di Google, ha speso 150 milioni di dollari per migliorare la propria immagine, e ha condotto campagne coordinate dall’Agenzia Pubblicitaria governativa. In generale, sul web e sui social sono iniziati a comparire contenuti che provano a descrivere una Gaza diversa, lontana dalla catastrofe umanitaria in cui si trova. Questa macchina della propaganda bellica, studiata per manipolare e orientare i contenuti online in modo da smentire il genocidio e legittimare la repressione, trova terreno fertile e amplificatori anche in Italia, come nel caso del Lava Café, un presunto bar dove i gazawi si riunirebbero tranquillamente a mangiare dolci.

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Dario Lucisano

Laureato con lode in Scienze Filosofiche presso l’Università di Milano, collabora come redattore per L’Indipendente dal 2024.

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