La mattina del 15 gennaio 1993, dopo 24 anni di latitanza, il capo di Cosa Nostra Totò Riina, insieme al suo autista Salvatore Biondino, veniva arrestato dai carabinieri del Ros a Palermo, a circa 800 metri dal covo in cui viveva con la sua famiglia. Dopo la cattura, il boss venne fatto salire su una macchina e spedito in caserma, per poi essere caricato su un elicottero alla volta del carcere, che avrebbe affrontato al 41-bis fino alla morte. Ma quella che il mainstream politico e giornalistico ha, da allora, sempre cercato di far passare come un’operazione leggendaria, nasconde tra le sue pieghe una lunga serie di punti di non ritorno, che mai sono stati davvero chiariti. Tutto parte dalla mancata perquisizione e dall’interruzione della sorveglianza, da parte dei carabinieri, dello stabile in cui Riina – che solo pochi mesi prima era stato raggiunto, attraverso l’intermediario politico-mafioso Vito Ciancimino, da una “proposta di dialogo” partorita dai vertici dello stesso Ros – stava trascorrendo la sua latitanza. A raccontarcelo sono le ricostruzioni fornite dalle sentenze, le testimonianze dei magistrati che coordinarono le forze di polizia e le versioni contraddittorie fornite nel tempo dai protagonisti dell’opaca vicenda.
I fatti
Quando i carabinieri comunicarono ai magistrati di Palermo la notizia dell’arresto di Riina, il pubblico ministero di turno, Luigi Patronaggio, in accordo con il nuovo Procuratore della Repubblica Gian Carlo Caselli (insediatosi quello stesso giorno a Palermo), predispose i provvedimenti necessari per procedere alla individuazione del covo – che era in realtà una villa sita all’interno di un comprensorio – e alla sua conseguente perquisizione, costituendo a tal fine due squadre formate da elementi dei gruppi 1 e 2 del Nucleo Operativo. Ma l’uomo che aveva arrestato Riina, Sergio De Caprio (alias “Capitano Ultimo”), su disposizione del suo superiore Mario Mori, si oppose, chiedendo di annullare l’operazione. A suo dire, infatti, non era vantaggioso procedere subito all’irruzione, poiché, non essendo ancora trapelata in ambienti mafiosi la notizia dell’arresto di Riina, attendendo “alla finestra” i movimenti attorno al covo avrebbero potuto avere luogo nuovi importanti sviluppi investigativi. La Procura diede dunque l’ok a non procedere alla perquisizione, a patto che l’entrata della villa fosse tenuta stabilmente sotto un’attenta videosorveglianza.
15 giorni dopo, però, i magistrati scoprirono che il pomeriggio dello stesso giorno in cui il boss di Cosa Nostra fu arrestato, senza che nessuno ne avesse dato comunicazione, la sorveglianza del covo era stata interrotta dal Ros. La Procura dispose allora l’irruzione in data 2 febbraio, ma tutto fu inutile: il covo venne trovato “ripulito”, con mobili accatastati al centro di una stanza e coperti da alcuni teloni, tappezzerie e sanitari divelti, pareti completamente imbiancate. E, soprattutto, con la cassaforte completamente vuota e smurata dalla parete. L’ex magistrato Gian Carlo Caselli ha ricostruito l’episodio dalla sua prospettiva in un’intervista rilasciata ad Askanews nel novembre del 2015: «La mancata perquisizione ma, prima ancora, la mancata sorveglianza del covo: si cattura Riina», ha spiegato Caselli, «noi della Procura vorremmo subito procedere alla perquisizione. I carabinieri del Ros, in particolare l’“eroe nazionale” che era e, per certi profili, per molti è ancora, il capitano De Caprio (noto come “capitano Ultimo”) ci dice: “No, perché si comprometterebbe un’operazione più ampia”. Come non credere a chi aveva messo le manette a Riina? Soltanto che», conclude l’ex magistrato «il presupposto era “si sorveglia il covo”, invece questo non avviene e nessuno dice nulla alla Procura sostanzialmente. E, quando si entra, fu una mazzata per noi».
La sentenza
Per i fatti legati alla mancata sorveglianza del covo di Totò Riina, i Ros Mario Mori e Sergio De Caprio finirono alla sbarra per favoreggiamento aggravato in favore della mafia. Nel 2006, il Tribunale di Palermo assolse i due carabinieri con la formula “perché il fatto non costituisce reato”, mettendo nero su bianco nella sentenza che la scelta di ritardare la perquisizione “comportava evidentemente un rischio che l’Autorità Giudiziaria scelse di correre, condividendo le valutazioni espresse dagli organi di polizia giudiziaria, direttamente operativi sul campo, sulla rilevante possibilità di ottenere maggiori risultati omettendo di eseguire la perquisizione”. Secondo i giudici, “nella decisione di rinviarla appare, difatti, logicamente, insita l’accettazione del pericolo della dispersione di materiale investigativo eventualmente presente nell’abitazione, che non era stata ancora individuata dalle forze dell’ordine, dal momento che nulla avrebbe potuto impedire a ‘Ninetta’ Bagarella, che vi dimorava, o ai Sansone (fedelissimi di Totò Riina, proprietari della villa in cui il boss abitava con la famiglia, ndr), che dimoravano in altre ville ma nello stesso comprensorio, di distruggere od occultare la documentazione eventualmente conservata dal Riina – cosa che in ipotesi avrebbero potuto fare anche nello stesso pomeriggio del 15 gennaio, dopo la diffusione della notizia dell’arresto in conferenza stampa, quando cioè il servizio di osservazione era ancora attivo – od anche a terzi che, se sconosciuti alle forze dell’ordine, avrebbero potuto recarsi al complesso ed asportarla senza destare sospetti”.
Al contempo, però, i giudici evidenziano la sussistenza di una “erronea valutazione degli spazi di intervento” da parte degli imputati e di gravi “responsabilità disciplinari” per il fatto di non aver comunicato alla Procura la decisione di sospendere la sorveglianza. Il Tribunale ha scritto che “l’omissione della comunicazione all’Autorità Giudiziaria della decisione, adottata dal cap. De Caprio nel tardo pomeriggio del 15 gennaio stesso, di non riattivare il servizio il giorno seguente, e poi tutti i giorni che seguirono, è stata spiegata dal col. Mario Mori, nella nota del 18.2.93, con lo ‘spazio di autonomia decisionale consentito’ nell’ambito del quale il De Caprio credeva di potersi muovere […]”. Secondo i giudici, però, quello “spazio di autonomia decisionale” non c’era affatto. Ciò, infatti, “non era e non poteva essere, alla luce della disciplina 85 ex art. 55 e 348 c.p.p. delle attività di polizia giudiziaria”, dal momento che, “fino a quando il Pubblico Ministero non abbia assunto la direzione delle indagini, la polizia giudiziaria può compiere, in piena discrezionalità, tutte le attività investigative ritenute necessarie che non siano precluse dalla legge ai suoi poteri”, ma “dopo essa ha il dovere di compiere gli atti specificatamente designati e tutte le attività che, anche nell’ambito delle direttive impartite, sono necessarie per accertare i reati ovvero sono richieste dagli elementi successivamente emersi”. I giudici hanno inoltre sancito “l’omessa perquisizione della casa” in cui Riina abitava e “l’abbandono del sito sino ad allora sorvegliato” hanno “comportato il rischio di devianza delle indagini, che, difatti, nella fattispecie si è pienamente verificato, stando alle manifestazioni di sollievo e di gioia manifestate da Bernardo Provenzano e da Benedetto Spera”. Già il 15 gennaio, infatti, vi era la “concreta e rilevante probabilità” che nel covo “esistesse altra documentazione”. Probabilità che ha trovato conferma nelle deposizioni fatte in aula dai collaboratori di giustizia Giovanni Brusca e Nino Giuffrè, secondo cui Totò Riina “era solito prendere appunti, teneva una contabilità dei proventi criminali, annotava le riunioni e teneva una fitta corrispondenza sia con il Provenzano che con altri esponenti mafiosi, per la ‘messa a posto’ delle imprese e la gestione degli affari”.
Il processo “Trattativa”
Insieme al suo braccio destro Giuseppe De Donno e al capo del Ros Antonio Subranni – nonché all’ex senatore di FI Marcello Dell’Utri e ai vertici di Cosa Nostra – Mario Mori finirà imputato per “violenza o minaccia a corpo politico dello Stato” al processo “Trattativa Stato-mafia”. Al processo, i giudici sono stati chiamati a stabilire se, nel quadro dell’interlocuzione avviata con l’ex mafioso di Palermo Vito Ciancimino tra la strage di Capaci e quella di via D’Amelio – e poi proseguita nei mesi successivi – gli uomini dello Stato alla sbarra avessero effettivamente trasmesso la minaccia di Cosa Nostra al cuore delle istituzioni e se tale condotta potesse eventualmente avere rilievo penale. In primo grado, gli imputati citati furono condannati a pene severissime. Nella requisitoria del processo, il sostituto procuratore Vittorio Teresi ha sostenuto che «l’arresto di Riina fu frutto di un compromesso vergognoso che certamente era noto ad alcuni ufficiali del Ros come Mori e De Donno, fu frutto di un progetto tenuto nascosto a quegli esponenti delle istituzioni e quei magistrati che credevano invece nella fermezza dell’azione dello Stato contro Cosa Nostra. […] Riina voleva tutto e subito. Lui aveva un’impellente necessità di riconquistare in Cosa Nostra il proprio prestigio di capo assoluto che era stato messo in discussione dai detenuti al 41-bis. Ed è in questo periodo che Provenzano comincia a tessere la sua tela di sottile concisione e contrasto, di adesione al progetto stragista ma con tanti distinguo». Parlando della cattura di Riina, nella sentenza di condanna di primo grado si definisce “una grave anomalia” quella che “ebbe a verificarsi per l’improvvida condotta degli imputati”, costituendo l’arresto di Riina “l’unico caso della cattura di latitanti appartenenti a una associazione mafiosa (ma anche di latitanti responsabili di altri gravi delitti), in cui non si sia proceduto all’immediata perquisizione del luogo in cui i latitanti medesimi vivevano al fine di reperire e sequestrare eventuali documenti utili per lo sviluppo di ulteriori indagini quanto meno finalizzate all’individuazione di favoreggiatori”.
In appello, gli uomini del Ros saranno invece assolti “perché il fatto non costituisce reato”. Nonostante le assoluzioni, i giudici inquadreranno in maniera molto problematica i fatti legati alla mancata perquisizione e sorveglianza del covo di Riina. Secondo la Corte d’Assise d’Appello di Palermo, infatti, le “sconcertanti omissioni” che caratterizzarono l’arresto del padrino corleonese furono dovute al fatto che i carabinieri volevano “lanciare un segnale di buona volontà, un segnale cioè della disponibilità a mantenere o riprendere il filo del dialogo che era stato avviato, attraverso i contatti intrapresi con Ciancimino per giungere al superamento di quella contrapposizione di Cosa Nostra con lo Stato che era già culminata nelle stragi di Capaci e di Via D’Amelio”, con un gesto dal significato “soprattutto simbolico”. Ma a mettere la pietra tombale sul processo è stata la Cassazione, che ha assolto Mori, De Donno e Subranni “per non aver commesso il fatto”. La Suprema Corte ha definito “mere ipotesi” quelle formulate in relazione al contributo all’arresto di Riina “fornito da Vito Ciancimino o da Provenzano”. Infatti, secondo gli ermellini, “la cattura di Riina costituì […] il risultato dell’intuito investigativo del Capitano ‘Ultimo’ e la perquisizione del covo di via Bernini dopo la cattura di Riina non fu eseguita per decisione della Procura Repubblica di Palermo, per consentire al R.O.S. di proseguire, con malintesi sulle modalità, indagini volte ad assicurare a disarticolare il circuito economico di sostegno ai boss corleonesi”.
Le contraddizioni
In relazione alla videosorveglianza del covo di Riina, i carabinieri hanno sempre affermato di averla iniziata all’alba del 14 gennaio e disattivata nel tardo pomeriggio del 15. Eppure, nell’ultimo periodo – in particolare grazie alla trasmissione televisiva Non è l’Arena di Massimo Giletti, che ha operato una minuziosa ricostruzione dei fatti prima della improvvisa chiusura da parte della rete – è tornato alla ribalta un video che dimostrerebbe l’esistenza di una maxi-contraddizione nella narrazione dei fatti da parte di chi operò in prima linea. Il documento videografico mostrato su La7 il 26 febbraio 2023 riguarda un incontro pubblico, andato in scena all’Università di Chieti nel maggio 2013, che vedeva come relatori Mario Mori e Giuseppe De Donno. In quel frangente, un attivista delle Agende Rosse – movimento fondato da Salvatore Borsellino, fratello del giudice Paolo –, Massimiliano Di Pillo, chiese a Mario Mori cosa lo portasse ad essere certo che, all’interno del covo di Riina non perquisito dai suoi uomini, non ci fosse nulla. Nonostante la domanda fosse rivolta a Mori, a prendere la parola fu De Donno: «Mi permetto di intervenire per un discorso tecnico, perché io c’ero», disse al microfono l’ex carabiniere, che partì con un racconto irto di discrepanze rispetto alla versione “ufficiale” data dei fatti. De Donno raccontò innanzitutto che quello «non era il luogo dove abitava Totò Riina», ma «il luogo dove abitava la famiglia», perché il padrino «viveva in un altro posto che noi non abbiamo mai identificato». De Donno disse di poterlo affermare con convinzione «perché noi quell’edificio di via Bernini lo abbiamo filmato per una serie di settimane precedenti (…) c’era questa macchina che usciva ma non avevamo identificato Ninetta Bagarella di cui non avevamo neanche una fotografia. Per cui noi non abbiamo mai filmato una macchina con a bordo personaggi che poi risultarono Riina e Biondino che lo andò a prendere quella mattina, per cui Riina si recava lì solo saltuariamente». Insomma, secondo De Donno non soltanto quello non sarebbe stato «il vero luogo di latitanza» del boss, ma, al contrario di quanto sempre dichiarato dai Ros, esso sarebbe stato sottoposto a videosorveglianza per settimane prima del 15 gennaio. Per tutto il tempo della risposta, Mori restò a capo chino, senza mai correggere o contraddire il suo ex braccio destro.
Dopo la messa in onda a Non è l’Arena del video inerente il botta e risposta con Di Pillo all’Università di Chieti, De Donno si è affrettato a comunicare all’AdnKronos di aver «sicuramente fatto confusione tra le attività di osservazione su imprenditori come i Ganci, durate molto tempo, e quelle svolte su via Bernini dove erano coinvolti gli imprenditori Sansone, e durate un paio di giorni». Una sbadataggine che non ci si aspetterebbe da un uomo del suo livello professionale, specie in relazione all’arresto più importante della sua vita. Parlando della villa di via Bernini, De Donno ha aggiunto che «in quel comprensorio insistevano una serie di villette, in una delle quali abitava il boss e la sua famiglia e dove ribadisco, a mio giudizio, non credo ci fosse il covo di Salvatore Riina». A smentire ancora una volta De Donno sarebbe, però, lo stesso capitano “Ultimo”, che rispondendo in sede di interrogatorio all’allora pm Antonio Ingroia sulle attività di osservazione delle ville dei Ganci, disse: «L’abitazione che [Raffaele Ganci] aveva era in via Corpo di guardia sotto Monreale e lì il problema nostro era che non si prestava a svolgere un’osservazione sistematica e quindi tutta la nostra attività è stata condizionata appunto dalla saltuarietà attraverso la quale riuscivamo a verificare il Ganci Raffaele», poiché «non si poteva restare fissi a osservare questa casa», essendo «messa in una condizione tale che se avessimo messo il furgone fisso lì saremmo stati individuati dalla persona che dovevamo seguire». Era, infatti, una strada molto stretta. Rispetto alle parole di De Donno all’incontro del 2013 a Chieti, il pm Ingroia, ospite di Giletti, ha dichiarato che «si tratta di una novità assoluta che meriterebbe un approfondimento investigativo nelle sedi opportune». L’ex magistrato ha affermato che, secondo le risultanze processuali, quello di via Bernini era «chiaramente il covo di Totò Riina», verità che non sarebbe mai stata messa in dubbio da alcuno al netto di De Donno, che «lo dice per la prima volta» in quell’occasione. Rispetto alla semi-rettifica dell’ex Ros, Ingroia ha affermato che l’obiettivo di De Donno, con quelle parole, è a suo parere quello di «giustificare l’enormità della mancata perquisizione del covo» e che bisognerebbe chiedergli, se quello era realmente il motivo per il quale essa non fu effettuata, come mai i Ros «non l’hanno detto subito ai magistrati». Ad ogni modo, la Commissione Antimafia è operativa: sarebbe forse il caso che chi di dovere intervenisse a chiarire i (tanti) punti ancora irrisolti di questa vicenda.
[di Stefano Baudino]
Uomini di specchiata rettitudine come Falcone e Borsellino non ci sono quasi più in nessun ambiente purtroppo.
Questi fanno il c…o che gli pare, senza alcuna vergogna. Intanto le altre notizie di attualità ci fanno spesso dimenticare di loro. Quanto poco valore nella parola “stato”…
Quando arrestano un mafioso, le linee telefoniche tra CIA e Servizi Segreti Italiani scottano.