sabato 25 Ottobre 2025

Omicidio Mattarella, svolta dopo 45 anni: arrestato l’ex prefetto Piritore per depistaggio

Nella giornata di ieri, è arrivata una possibile svolta storica nell’inchiesta sull’omicidio di Piersanti Mattarella, il presidente della Regione Siciliana ucciso a Palermo il 6 gennaio 1980: l’ex prefetto Filippo Piritore, 74 anni, allora funzionario della Squadra mobile e successivamente prefetto del capoluogo siciliano, è stato posto agli arresti domiciliari con l’accusa di aver depistato le indagini facendo sparire il guanto del killer, la “prova regina” citata dall’allora ministro dell’Interno Virginio Rognoni in Parlamento. Per i pm di Palermo, Piritore avrebbe nel tempo «reso dichiarazioni rivelatesi del tutto prive di riscontro, con cui ha contribuito a sviare le indagini» anche funzionali «al rinvenimento del guanto (mai ritrovato)», in un’operazione che ha «gravemente inquinato e compromesso» le investigazioni.

Il presunto depistaggio

Come si legge nelle carte, quel guanto di pelle marrone – lasciato sul pianale dell’auto guidata dai sicari – «già nell’immediatezza dei fatti, rappresentava per gli inquirenti dell’epoca una fonte di prova privilegiata essendo, appunto, ‘l’unico oggetto’ che avrebbe potuto condurre all’identificazione dell’assassino». Della sua esistenza restano solo una fotografia e alcuni riferimenti negli atti, tra cui una relazione della Squadra mobile con un appunto a mano dello stesso Piritore: «Consegnato 7-1-80 alla guardia Di Natale, Scientifica, per il dottor Grasso (allora sostituto procuratore responsabile delle indagini, ndr)». Interrogato come testimone a settembre 2024, l’ex prefetto ha confermato questa versione, affermando: «Sono certo di avere dato il guanto al Di Natale… Posso dire con certezza che la direttiva di consegna del guanto al dottor Grasso proveniva da lui, non ricordo se impartita direttamente o mi fu riferita». Per i magistrati, però, si tratta di un racconto «inverosimile e illogico». Sia l’agente Di Natale che l’allora pm Pietro Grasso lo hanno infatti smentito categoricamente: il primo ha dichiarato di non aver mai conosciuto personalmente Grasso e di non aver ricevuto il guanto; il secondo ha affermato: «Nulla ho mai saputo del ritrovamento di un guanto, apprendo solo ora tale circostanza», escludendo «di avere impartito disposizioni al fine di farmi personalmente consegnare il guanto in questione». Secondo l’accusa, il «falso recapito» a Grasso, a sua insaputa, è stato «il modo ingannevole consono per la definitiva dispersione del reperto».

A gettare ombre sulla figura di Piritore sarebbero anche i contenuti di alcune conversazioni intercettate in cui l’ex prefetto, non sapendo di essere ascoltato, confidava alla consorte il proprio stress dopo l’interrogatorio del 17 settembre: «”Figura di merda, non ricordavo un cazzo…. Io poi gliel’ho detto… ‘guardi secondo me… dico saranno sparite negli anni ’90 perché dico prima nell”80 servivano da solo… non potevano servire solo per le impronte digitali…e dopo è venuto il Dna…quindi sono sparite da…se sono state occultate negli anni ’90…quando si è scoperto il Dna” ». E ancora, il 22 settembre: «Rompere i coglioni dopo quarantacinque anni… Qualche cosa fanno», con la moglie che gli risponde: «Ma che fanno…! Non fanno un cazzo… dopo quarant’anni che cazzo devono fare… sei tu che sei tipo uccello del malaugurio». Dalle intercettazioni, secondo il giudice che ha convalidato l’arresto, «emergeva nuovamente la profonda preoccupazione del Piritore per la possibilità di venire coinvolto in iniziative giudiziarie […], atteggiamento questo incompatibile con la posizione di un funzionario che ha compiuto il proprio dovere pur non ricordando i dettagli delle operazioni svolte a causa del tempo decorso».

La giudice delle indagini preliminari ha condiviso la ricostruzione della Procura, motivando gli arresti domiciliari affermando che «nella delineata condotta posta in essere dal Piritore, vi è manifesta la volontà di reiterazione al fine di inquinare le acquisende prove». Secondo la gip, infatti, «Piritore ha voluto fornire indicazioni ulteriormente fuorvianti sulle sorti della prova regina dell’omicidio in Pregiudizio di Piersanti Mattarella», e «chi opera in tal modo manifesta una pervicacia nella volontà delittuosa che collide con qualsivoglia prognosi favorevole circa il suo futuro comportamento consentendo un giudizio di concreta possibilità che egli possa commettere delitti della stessa natura di quello per il quale si procede. Cosa che – conclude la giudice – ha fatto dal 1980 giovane poliziotto ed in continuità ha continuato a fare ad oggi, sempre tacendo, occultando e quando necessario depistando, chiaramente andando al di là della tutela di sé stesso e della sua posizione».

Ombre nere su Palermo

Nell’inchiesta spunta anche il nome di Bruno Contrada, all’epoca dirigente della Mobile e poi numero due del Sisde, arrestato il 24 dicembre 1992 e condannato per concorso esterno in associazione mafiosa per i suoi appurati legami con Cosa Nostra. Secondo le carte, Contrada – di cui una sentenza irrevocabile (di cui la CEDU annullò successivamente gli effetti penali per ragioni giuridiche) ha accertato i rapporti con i boss Michele Greco e Totò Riina proprio nel 1980, anno in cui venne assassinato Mattarella – sarebbe stato informato da Piritore del ritrovamento del guanto. Lo stesso Piritore ha ammesso: «Avvisai subito il dirigente della Mobile, nella persona di Contrada, che evidentemente mi disse di avvisare il dottor Grasso». I due, secondo gli inquirenti, erano legati da amicizia: Contrada, almeno secondo quanto riportato nelle agende di quest’ultimo, partecipò al battesimo della figlia di Piritore un mese dopo il delitto. Come hanno testimoniato numerosi amici e collaboratori di Giovanni Falcone, quest’ultimo si diceva convinto che dietro il fallito attentato all’Addaura – ordito ai suoi danni nel giugno del 1989 – aleggiasse proprio la figura di Contrada.

L’omicidio Mattarella presentò da subito elementi che fecero supporre una convergenza tra mafia ed eversione neofascista. Fu proprio Giovanni Falcone a ipotizzare che gli esecutori materiali del delitto potessero essere Valerio Fioravanti e Gilberto Cavallini dei NAR (Nuclei Armati Rivoluzionari). A supporto di questa tesi, Falcone citò in Commissione Antimafia (1988) la dichiarazione di Cristiano Fioravanti, che accusò il fratello Valerio di essere uno degli esecutori. In un’audizione del 1990, Falcone parlò di «mandanti sicuramente all’interno della mafia, oltreché ad altri mandanti evidentemente esterni», lasciando intendere una possibile compenetrazione delle due piste. Tuttavia, le indagini non raccolsero prove conclusive e la pista fu archiviata. Un nuovo fascicolo indica oggi come possibili esecutori due mafiosi: Antonino Madonia (già ergastolano per numerosi omicidi eccellenti) e Giuseppe Lucchese. Secondo questa ricostruzione, sarebbe stato Madonia a sparare. Con la svolta dell’arresto di Piritore, però, potrebbe riaprirsi uno scenario ben più ampio e problematico.

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Stefano Baudino

Laureato in Mass Media e Politica, autore di dieci saggi su criminalità mafiosa e terrorismo. Interviene come esperto esterno in scuole e università con un modulo didattico sulla storia di Cosa nostra. Per L’Indipendente scrive di attualità, politica e mafia.

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