Man mano che le barche della Global Sumud Flotilla si avvicinano al territorio palestinese, il pericolo di eventuali azioni israeliane aumenta. In Italia, invece, la disinformazione dilaga, promossa dal governo e dai media mainstream. Nell’arco di queste ultime settimane, sono diverse le menzogne diffuse sulla missione e sul quadro giuridico entro cui essa si muove: la narrazione dominante ha trasformato le acque palestinesi in «territorio israeliano», il blocco marittimo su Gaza in un’azione riconosciuta dal diritto internazionale, le potenziali operazioni israeliane contro gli attivisti in manovre legittime. Nel tentativo di screditare l’iniziativa umanitaria, gli attivisti della Flotilla sono stati dipinti come «irresponsabili» dalle tendenze piromane, capaci di condurre veri e propri atti di auto-sabotaggio al solo scopo di attirare i riflettori, mentre la stessa missione, sorta con l’esplicito scopo di rompere l’assedio, è stata nel migliore dei casi circoscritta al solo tema degli aiuti, fino a essere accusata di essere «finanziata dai terroristi» senza alcuna prova reale.
1. La Flotilla è finanziata da Hamas
Uno dei primi giornali a scagliarsi contro l’iniziativa è stato Il Tempo, con la sua «inchiesta» sulla rete del terrore dietro la Flotilla. L’articolo del Tempo riporta un documento pubblicato dal ministero della Diaspora di Tel Aviv, in cui Israele svelerebbe i presunti legami della GSF con Hamas e i gruppi palestinesi. Il rapporto, tuttavia, non prova niente. Esso fa il nome di cinque membri di associazioni di attivisti per la Palestina legate alla GSF: il primo, Yahia Sarri, avrebbe avuto contatti con membri dei Fratelli Musulmani e di Hamas e mostrerebbe affinità con le ideologie di Daesh; tre gruppi non sono solo distinti, ma in conflitto da anni, visto che Hamas ha abbandonato la propria affiliazione con i Fratelli Musulmani nel 2017 e ha sempre combattuto contro l’ISIS. In ogni caso, il ministero non chiarisce in che termini i presunti contatti di Sarri con tali gruppi dimostrerebbero che dietro la GSF ci siano proprio queste organizzazioni.
Come per Sarri, anche per gli altri quattro: il secondo nome che compare è quello di un giornalista palestinese, reo di avere lavorato per un media di proprietà di Hamas; il terzo attivista, è menzionato perché arrestato in Egitto durante la marcia su Gaza di giugno, e come lui il quarto; l’ultimo, invece, è un membro di BDS accusato di legami con “gruppi terroristici” per alcuni suoi post sui social. In nessuno dei loro casi vengono portati elementi che colleghino la loro partecipazione a gruppi attivisti che appoggiano la GSF con presunti finanziamenti o coinvolgimenti diretti del «terrorismo» con la Flotilla.
Ieri, al documento del ministero della Diaspora è seguita una rivelazione di altri due documenti rinvenuti a Gaza e pubblicati dal ministero degli Esteri israeliano. Questi, secondo Israele e i media italiani che li hanno ripresi, dimostrerebbero che la GSF avrebbe ricevuto finanziamenti da Hamas: il primo documento è una semplice lettera alla Conferenza Popolare per i Palestinesi all’Estero (PCPA), un’organizzazione palestinese che raccoglie membri della diaspora palestinese. Il secondo, invece, è una tabella con dei nomi di individui legati alla PCPA, tra cui figura quello di un imprenditore che avrebbe donato «dozzine di barche» alla Flotilla. Anche in questo caso, tuttavia, i documenti non citano alcun finanziamento.
2. Gli attacchi alla Flotilla sono una montatura

Nei primi giorni di settembre a dominare i titoli di giornale sulla Flotilla sono stati gli attacchi con drone scagliati contro le barche ancorate in Tunisia. Gli attivisti, in questo caso, sono stati accusati di avere inscenato gli attacchi ricevuti per attirare l’attenzione dei media. L’accendino, i giubbetti, la traiettoria, titola Il Giornale, interrogandosi su ciò che non torna nel racconto della Flotilla. Secondo il quotidiano, l’attacco con droni, di cui sono presenti più video con audio e diversi testimoni, sarebbe in realtà un colpo di pistola di segnalazione «amica» andato male. Nonostante la pubblicazicone di foto e video dei detriti dei dispositivi incendiari e dei successivi attacchi in mare, le teorie del complotto sono andate avanti per giorni, tanto che c’è chi è arrivato a pensare che fosse tutto organizzato appositamente dagli attivisti – a quanto pare giornalisti di tutto il mondo compresi visto che nessuno a bordo ha denunciato niente.
3. “Non è una vera missione umanitaria: non vogliono portare gli aiuti”
Nei suoi vari interventi, la premier Meloni ha spesso affermato che quella della GSF non sarebbe una missione umanitaria accusando gli attivisti di non volere davvero consegnare gli aiuti. Su questo punto, la GSF è sempre stata limpida: lo scopo della missione non si limita alla consegna degli aiuti umanitari, che loro stessi ammettono essere simbolici e di quantità fin troppo ridotta per sfamare la popolazione di Gaza, ma intende smuovere i governi perché facciano pressione su Israele e gli impongano di fermare il genocidio. Lo ha detto la portavoce del gruppo Maria Elena Delia nel corso della sua intervista a L’Indipendente: «L’obiettivo è semplice. Dire no al genocidio, rompere il blocco di Gaza, e chiedere a gran voce la riapertura dei corridoi umanitari istituzionali». Il punto non è mai stato quello di consegnare gli aiuti, ma quello di fermare i massacri e istituire corridoi umanitari solidi, ed è sempre stato esplicito. In tal senso, le parole di Meloni sembrano essere tese a l’attenzione sul reale scopo del progetto, così da potere accusare l’iniziativa di essere velleitaria e «irresponsabile».
4. “L’Italia potrebbe consegnare gli aiuti quando vuole”
Sulla scia dello spostamento dell’attenzione sulla questione degli aiuti Meloni ha affermato che «non c’è bisogno di infilarsi in un teatro di guerra per consegnare aiuti che il governo italiano avrebbe potuto consegnare in poche ore». La domanda sorge spontanea: se davvero poteva, perché non lo ha fatto? La consegna degli aiuti umanitari a Gaza è infatti più complessa di quanto sembri, perché Israele controlla tutte le vie d’accesso alla Striscia. Questo significa che perché essi entrino, di fatto, serve il permesso israeliano. Visti i costanti bombardamenti, se l’Italia volesse consegnare degli aiuti non lo farebbe di prima mano, bensì affidandoli ad agenzie internazionali o attive sul posto come la Croce Rossa o i vari uffici dell’ONU. Il problema, tuttavia, continuerebbe a porsi: controllando i valichi di frontiera, è Israele a gestire cosa entra nella Striscia.
Il tutto non considera che una volta entrati, gli aiuti vanno distribuiti, e con l’istituzione della Gaza Humanitarian Foundation, lo Stato ebraico ha accentrato la maggior parte delle attività nei centri GHF. Questa è tra le altre una delle ragioni per cui il vero scopo della Global Sumud Flotilla è forzare il blocco israeliano: la missione vuole rompere l’assedio israeliano e creare un reale corridoio umanitario che non dipenda dalla volontà di Israele. Gli unici a poterlo fare realmente, tuttavia, sono i governi, esercitando pressioni su Tel Aviv.
5. Le acque di Gaza sono israeliane

Tra le più reiterate menzogne sulla missione, alimentate direttamente dalla politica, vi sono quelle relative al quadro giuridico in cui essa si inserisce. Tajani ha parlato di «territorio israeliano», e Crosetto di acque «di un altro Paese che può considerare [ndr. l’entrata nel proprio territorio] un atto ostile», riferendosi chiaramente a Israele. La GSF, tuttavia, non prevede di entrare in territorio israeliano: le navi della Flotilla navigano piuttosto in acque internazionali e contano di sbarcare sui litorali gazawi, ossia in acque che il diritto internazionale riconosce alla Palestina. Il territorio marittimo palestinese è infatti tracciato in una dichiarazione del 2019, che risponde alle disposizioni della Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto del Mare (UNLOCS), di cui la Palestina è firmataria dal 2015; la UNLOCS è il principale trattato internazionale che regola la gestione dei territori marittimi e riconosce come parte del territorio degli Stati tutte le acque entro le 12 miglia dalla costa. L’Italia stessa ha ratificato la Convenzione, e, con essa, oltre 160 Paesi.
6. Il blocco israeliano è legale
Parlando dell’ipotesi di entrata nelle acque gazawi, Crosetto ha espresso la sua preoccupazione sul destino della missione, affermando di dare «per scontato» che gli attivisti verrebbero arrestati. Le parole di Crosetto suggeriscono che una simile operazione da parte di Israele sarebbe normale o legittima, ma anche in questo caso, non è così: contrariamente a quanto sostengono in molti, il blocco navale di Israele non è riconosciuto dalle istituzioni internazionali; il falso mito sulla presunta legalità del blocco navale ruota attorno al cosiddetto “rapporto Palmer” del 2011, con il quale l’omonima commissione si esprimeva sull’attacco alla nave della Freedom Flotilla Mavi Marmora condotto dalle IDF, in seguito a cui l’esercito israeliano uccise 10 attivisti. Il rapporto condanna l’attacco e giudica il blocco legale per motivi di sicurezza; esso però non ha alcun valore vincolante, ed è meramente consultivo.
Anche se il blocco fosse legale, inoltre, la legge internazionale non permetterebbe a Israele di bloccare le navi o arrestare gli attivisti a bordo. L’Articolo 59 della IV Convenzione di Ginevra impone infatti alla “potenza occupante” di un “territorio occupato” di “accettare le azioni di soccorso organizzate a favore di detta popolazione”, di facilitarle, e di garantire il libero passaggio degli aiuti umanitari; tale prassi è confermata anche dal manuale di San Remo sulla legge internazionale nei conflitti marini. Secondo la legge internazionale, se le navi della GSF dovessero entrare in acque palestinesi, Israele potrebbe inviarvi le proprie truppe, che tuttavia potrebbero solo ispezionarle; Israele non può impedirne arbitrariamente il passaggio o confiscarne il carico, a meno di trovare beni illegali. Qualsiasi azione in acque internazionali è invece illegale.