sabato 21 Giugno 2025

Mori e De Donno in Commissione Antimafia ripetono anni di bugie su stragi e arresti eccellenti

Da alcune settimane, la Commissione Antimafia è teatro dell’audizione di Mario Mori – ex capo del ROS ed ex direttore dei servizi segreti – e del suo fidato braccio destro Giuseppe De Donno, che hanno giocato con le parole per riscrivere la storia sui retroscena della strage di via D’Amelio e sulle indagini sui rapporti mafia-politica. Lo hanno fatto minimizzando persino l’importanza della villa palermitana in cui Riina trascorreva la latitanza con moglie e figli, di cui scelsero di interrompere la sorveglianza poche ore dopo l’arresto del boss, oltre a insinuare presunte omissioni della Procura di Palermo nel corso dell’inchiesta incentrata sul rapporto “mafia-appalti” del ROS. Ritenuto dai carabinieri – nonché dalla presidente della Commissione Chiara Colosimo, che non ha fatto mistero della stima verso i due alti ufficiali – la principale causale dietro alla morte di Paolo Borsellino. Il tutto, però, è smentito da fatti, sentenze, documenti e testimonianze.

Il covo di Riina

Totò Riina, insieme al suo autista Salvatore Biondino, venne arrestato dai carabinieri del Ros a Palermo, a circa 800 metri dalla villa di via Bernini in cui abitava con la sua famiglia, il 15 gennaio 1993. Appresa la notizia, la Procura predispose i provvedimenti necessari per la perquisizione del covo, a cui si opposero però Mori e Sergio De Caprio (alias Capitano Ultimo, uomo che aveva arrestato il boss). A loro dire, infatti, non era vantaggioso procedere subito all’irruzione, poiché, non essendo ancora trapelata in ambienti mafiosi la notizia dell’arresto, attendendo “alla finestra” i movimenti attorno al covo avrebbero potuto avere luogo nuovi importanti sviluppi investigativi. La Procura si fece convincere. 15 giorni dopo, però, i magistrati scoprirono che il pomeriggio dello stesso giorno in cui il boss di Cosa Nostra fu arrestato, senza che nessuno ne avesse dato comunicazione, la sorveglianza del covo era stata interrotta dal ROS. Covo che il 2 febbraio venne trovato completamente ripulito.

In Commissione antimafia, Mori ha asserito che la villa non era «il covo» di Totò Riina, ma un semplice alloggio «dove viveva la moglie con i figli» e che il boss frequentava «saltuariamente». «Mai – continua Mori – avrebbe tenuto in casa cose e documenti connessi alla sua attività criminale». Mentre Mori minimizza, però, pesano come macigni le parole messe nero su bianco dalla sentenza, divenuta definitiva, che pure lo assolse per l’interruzione della sorveglianza “perché il fatto non costituisce reato”. I giudici evidenziarono infatti la sussistenza di una «erronea valutazione degli spazi di intervento» da parte degli imputati e di gravi «responsabilità disciplinari» per il fatto di non aver comunicato alla Procura la decisione di sospendere la sorveglianza, in nome di uno «spazio di autonomia decisionale» – ancora oggi rivendicato da Mori – del tutto inesistente. I giudici hanno inoltre sancito che «l’omessa perquisizione della casa» in cui Riina abitava e «l’abbandono del sito sino ad allora sorvegliato» hanno «comportato il rischio di devianza delle indagini, che, difatti, nella fattispecie si è pienamente verificato». Già il 15 gennaio, infatti, vi era la «concreta e rilevante probabilità» che nel covo «esistesse altra documentazione». Probabilità che ha trovato conferma nelle deposizioni fatte in aula dai collaboratori di giustizia Giovanni Brusca e Nino Giuffrè, come anche da Gioacchino La Barbera. Quest’ultimo rivelò che una squadra di persone, su ordine del mafioso Giovanni Sansone, ripulì la casa da ogni traccia.

Mafia-appalti e via D’Amelio

Lo scorso 16 aprile, Mori e De Donno avevano già parlato in Commissione, producendo una memoria ai commissari di Palazzo San Macuto colma di bugie e imprecisioni, ben riassunte e spiegate da una lunga relazione diramata dal gruppo del Movimento 5 Stelle, che ha contestato la loro ricostruzione. Ricordiamo qui solo le più eloquenti.

Nella memoria, i ROS continuano a sostenere che Paolo Borsellino non fosse stato informato della parziale richiesta di archiviazione su “mafia-appalti” presentata dai colleghi della Procura il 13  luglio  1992. A smentirli, questa volta, è la sentenza-ordinanza n. 2108/97 R. G., del 15 marzo 2000 del GIP presso il Tribunale di Caltanissetta, in cui si legge: «Il dott. Borsellino era certamente informato di tali sviluppi processuali, perché la vicenda mafia-appalti, unitamente ad altre indagini di rilievo, era stata oggetto, proprio in quel periodo e prima della sua partenza per la rogatoria internazionale, di una discussione tra i vari colleghi del suo Ufficio, alla presenza del medesimo dott. Borsellino». Inoltre, le accuse di insabbiamento rivolte alla Procura circa il filone politico‑amministrativo delle inchieste mafia‑appalti si infrangono invece contro la mole di provvedimenti cautelari, sequestri patrimoniali e condanne emessi tra il 1989 e il 1998.

Per avvalorare l’assunto che l’indagine “mafia-appalti” sarebbe stata castrata dalla Procura di Palermo con l’obiettivo di evitare di portare alla luce con indagini approfondite i legami tra politica, mafia e imprenditoria, Mori e De Donno citano un presunto passaggio dei “Diari di Falcone”, pubblicati postumi il 24 giugno 1992 sul quotidiano Il Sole 24 Ore, in cui il magistrato avrebbe giudicato la decisione della Procura relativa all’annotazione “Mafia e appalti” del ROS una «scelta riduttiva per evitare il coinvolgimento di personaggi politici». In realtà, quella frase non esiste e non è mai stata pubblicata su quei diari. Ancora più paradossale è un’altra mossa del ROS, ovvero quella di sostenere che Falcone avrebbe definito «inattendibili» le dichiarazioni di Alberto Lo Cicero sulla pista nera delle stragi (che la Commissione Antimafia a guida Colosimo sembra cercare con tutte le energie di scacciare dal novero dei possibili moventi sottesi alla strage): Lo Cicero iniziò a collaborare con la giustizia il 24 luglio 1992, due mesi dopo la morte di Falcone, un anno e cinque mesi dopo che, nel febbraio del 1991, Falcone aveva lasciato Palermo per divenire direttore generale degli affari penali al Ministero della Giustizia. Ergo, non fu mai nelle condizioni di occuparsene.

Le anomalie

Dati alla mano, le anomalie sulla gestione del rapporto, più che ai magistrati di Palermo, sembrano essere riconducibili proprio a dinamiche interne all’universo dei ROS. La storia racconta infatti che, nel maggio del 1991, su varie testate vennero pubblicati articoli di stampa in cui si affermava che la Procura si fosse rifiutata di ricevere l’informativa mafia-appalti prodotta dai ROS del febbraio 1991 e che i magistrati avrebbero insabbiato posizioni di importanti politici, alcuni dei quali ricoprivano incarichi governativi. Qualcosa di incomprensibile, perché nell’informativa del febbraio 1991 di questi importanti esponenti politici in realtà non si parlava proprio. I loro nomi sarebbero invece comparsi il 5 settembre del ’92 (dopo la morte di Borsellino), in una seconda informativa, in cui si facevano espliciti riferimenti a Calogero Mannino, Salvo Lima e Rosario Nicolosi. «La cosa grave – aveva spiegato il magistrato Roberto Scarpinato, all’epoca alla Procura di Palermo, sentito al processo sul depistaggio delle indagini sulla strage di via D’Amelio – è che nella nuova informativa vi erano intercettazioni di questi personaggi che risalivano al 1990». E, sebbene le intercettazioni fossero del 1990, «in quell’informativa del febbraio 1991 non venivano indicate nelle 900 pagine e nei 488 allegati». Eppure, su queste strane circostanze, la Commissione Antimafia non sembra affatto propensa a voler indagare.

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Stefano Baudino

Laureato in Mass Media e Politica, autore di dieci saggi su criminalità mafiosa e terrorismo. Interviene come esperto esterno in scuole e università con un modulo didattico sulla storia di Cosa nostra. Per L’Indipendente scrive di attualità, politica e mafia.

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