giovedì 5 Giugno 2025

In dieci anni oltre 6.400 attacchi hanno colpito gli attivisti ambientali

Oltre 6.400 attacchi contro difensori dei diritti umani sono stati registrati tra il 2015 e il 2024, il 75% dei quali rivolti a chi difende l’ambiente, le comunità locali e i territori indigeni. Lo attesta un nuovo rapporto pubblicato dal Business & Human Rights Resource Centre (BHRRC), che spiega come il settore minerario risulti il più pericoloso (1.681 attacchi), seguito da agricoltura industriale, combustibili fossili, energie rinnovabili e disboscamento. Le regioni più colpite sono America Latina, Caraibi, Asia e Pacifico. Un attacco su cinque ha colpito popolazioni indigene, che rappresentano il 31% delle vittime uccise. Oltre 3.300 casi sono cause legali pretestuose. La maggior parte degli episodi resta impunita, alimentando un clima di violenza sistemica.

America Latina, Caraibi e Asia-Pacifico rappresentano le aree più pericolose: qui si concentra, come evidenziato dal rapporto, il 71% degli attacchi documentati. L’Africa segue con 583 casi, un terzo dei quali solo in Uganda. In America Latina, sei paesi (Brasile, Messico, Honduras, Colombia, Perù e Guatemala) concentrano da soli il 35% degli attacchi globali. Il solo Honduras, con appena lo 0,1% della popolazione mondiale, rappresenta il 6,5% degli attacchi. In Asia spiccano le Filippine (411 casi), India (385), Cambogia (279) e Indonesia (216). Nelle Filippine e in America Latina si registrano anche la maggior parte degli omicidi di difensori dei diritti umani indigeni, che rappresentano il 31% delle vittime totali. Il bilancio delle vittime è drammatico: quasi 1.100 omicidi in dieci anni, 52 solo nel 2024. A questi si aggiungono almeno 116 casi di rapimenti e sparizioni forzate, concentrati soprattutto in Messico e nelle Filippine. Secondo quanto attestato dalla ricerca, qui la maggior parte degli attacchi rimane impunita, alimentando una cultura della violenza sistemica. L’impatto delle aggressioni è devastante: intimidazioni, danni fisici, isolamento sociale, conseguenze economiche e psicologiche.

Un segnale inquietante arriva anche da contesti considerati democratici. Nel Regno Unito, gli attacchi sono aumentati da 7 nel 2022 a 21 nel 2023 (anno dell’introduzione del controverso Public Order Act), fino a 34 nel 2024. Il 91% riguarda molestie giudiziarie, spesso rivolte a chi critica il settore dei combustibili fossili. In tutto il mondo, oltre metà degli attacchi (3.311) si concretizza in procedimenti giudiziari, arresti arbitrari e SLAPP (azioni legali strategiche contro la partecipazione pubblica). Oltre 530 i casi di SLAPP documentati dal 2015, di cui il 69% con accuse penali che prevedono pesanti pene detentive. Il settore minerario è il più coinvolto (31% dei casi). Con l’aggravarsi della crisi climatica, molti attivisti – soprattutto giovani e popoli indigeni – hanno praticato forme di disobbedienza civile per denunciare l’inerzia dei governi e fermare i progetti estrattivi. In risposta, numerosi Stati hanno varato leggi repressive, intensificato la sorveglianza, limitato il diritto di protesta e classificato gli attivisti come “terroristi” o “anti-sviluppo”. Un esempio emblematico è Panama, dove la protesta contro un contratto minerario con la canadese First Quantum Minerals ha provocato una durissima repressione: almeno 30 arresti, 21 accuse di terrorismo, diversi feriti e tre omicidi. Le imprese coinvolte hanno ignorato le richieste di risposte da parte del Resource Centre.

Il report sottolinea come molti Stati non solo manchino al loro dovere di protezione, ma siano parte attiva degli attacchi, anche attraverso la magistratura, le forze armate o la polizia. Spesso agiscono in collusione con imprese private o gruppi non statali, dando priorità al profitto piuttosto che ai diritti umani. Secondo i Principi Guida delle Nazioni Unite, le imprese hanno l’obbligo di prevenire e rimediare a ogni violazione legata alle proprie attività. Tuttavia, anche nei casi in cui il legame diretto con l’attacco non sia evidente, esse dovrebbero usare la propria influenza per tutelare chi difende i diritti umani.

Nel documento vengono enucleati dati circostanziati, ma largamente incompleti, dal momento che le gravi restrizioni allo spazio civico e i timori per la sicurezza personale impediscono spesso la denuncia di molte violazioni. In numerosi Paesi, l’assenza di monitoraggio da parte dei governi contribuisce a mantenere nell’ombra un fenomeno sistemico. Come evidenzia la stessa ricerca, ciò che emerge è solo “la punta dell’iceberg”. Il report si chiude con un appello chiaro: una giusta transizione climatica e una società equa non sono possibili senza la protezione dei difensori dell’ambiente. Oggi, infatti, difendere il pianeta può spesso significare rischiare la vita.

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Stefano Baudino

Laureato in Mass Media e Politica, autore di dieci saggi su criminalità mafiosa e terrorismo. Interviene come esperto esterno in scuole e università con un modulo didattico sulla storia di Cosa nostra. Per L’Indipendente scrive di attualità, politica e mafia.

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