mercoledì 4 Giugno 2025

Il paradosso di Giovanni Brusca, il mafioso libero grazie alla legge voluta da Falcone

Dopo 25 anni di carcere e quattro di sorveglianza, uno dei boss più sanguinari di Cosa Nostra è definitivamente libero. Giovanni Brusca, autore di circa 150 omicidi e, almeno secondo le ricostruzioni ufficiali, soggetto che ha fisicamente innescato l’esplosivo che il 23 maggio 1992 ha sventrato l’autostrada di Capaci, ha finito di pagare il suo debito con la giustizia. Lo ha fatto usufruendo di significativi benefici penitenziari, avendo scelto di collaborare con i magistrati e contribuito ad aprire il vaso di Pandora sugli affari di Cosa Nostra e i rapporti tra mafia e universo politico. A permetterglielo, una legge fortemente voluta dalla sua più illustre vittima, Giovanni Falcone, il quale aveva compreso il ruolo cardine che i collaboratori di giustizia avrebbero potuto rivestire non solo nella lotta alla mafia, ma anche agli ambienti della “zona grigia”.

Giovanni Brusca, capomandamento di San Giuseppe Jato, venne arrestato la sera del 20 maggio 1996 in contrada Cannatello, frazione balneare del comune di Agrigento. Nella sua lunga carriera criminale, Brusca – anche detto “lo scannacristiani” – si macchiò di una serie di delitti efferati, che ne hanno fatto uno dei latitanti più ricercati fino alla cattura. Oltre che per la strage di Capaci, Brusca è stato considerato responsabile dell’organizzazione della strage di via D’Amelio e della pianificazione degli attentati del 1993 a Milano, Roma e Firenze, nonché di avere ordinato il rapimento e l’uccisione del piccolo Giuseppe Di Matteo – imprigionato per 779 giorni, poi ammazzato e sciolto nell’acido – per vendicare la collaborazione con la giustizia del padre del bambino, il mafioso Santino Di Matteo. Lo stesso Brusca ha più volte ammesso di avere ordinato o partecipato a oltre cento omicidi.

Nonostante tutto, da sabato scorso Brusca è un uomo libero. Ciò è potuto accadere perché il boss, in seguito alla cattura, decise di abbandonare i ranghi di Cosa Nostra e affidarsi allo Stato come collaboratore di giustizia. E la sua non è stata una collaborazione di poco conto, anzi. Tra le altre cose, Brusca ha infatti raccontato ai magistrati le operazioni che contrassegnarono l’organizzazione della strage di Capaci e dell’omicidio del piccolo Di Matteo, fornendo agli investigatori preziose informazioni per ricostruire in modo incontrovertibile l’articolazione del “commando” dei corleonesi di Totò Riina. Ma Brusca andò oltre, chiarendo ai pm i nessi tra la mafia e grossi pezzi della politica democristiana, così come il cambio di strategia di Cosa Nostra alle elezioni degli anni Ottanta, quando Riina – in pieno Maxiprocesso – decise di voltare le spalle alla DC e dare il voto al Partito Socialista, e infine i legami tra la mafia e Forza Italia. Inoltre, Brusca fu il primo pentito a parlare della “Trattativa Stato-mafia”, sostanziatasi nell’invito al dialogo che gli ufficiali del ROS veicolarono, tra la morte di Falcone e quella di Borsellino, ai vertici di Cosa Nostra.

La legge sui benefici penitenziari ai collaboratori di giustizia fu intensamente promossa dal magistrato Giovanni Falcone, memore del grande ruolo che i pentiti di mafia avevano avuto nel Maxiprocesso alla mafia degli anni Ottanta, sfociato in una sentenza definitiva della Cassazione che, il 30 gennaio 1992, mise il timbro sull’impianto accusatorio e sullo strategico utilizzo dei pentiti. Questo approccio culminò nell’approvazione di una normativa ad hoc, la legge 15 marzo 1991, n. 82, che ha previsto la possibilità di ridurre drasticamente la pena – 26 anni di carcere anziché l’ergastolo – in cambio della collaborazione. Inoltre, il provvedimento ha introdotto misure di protezione personale, inclusa la scorta e il programma di protezione estremamente riservato per il soggetto e i suoi stretti congiunti.

Quando, 4 anni fa, Brusca lasciò il carcere, molti leader politici – tra cui l’attuale premier Giorgia Meloni – definirono «vergognoso» e «inaccettabile» che un boss mafioso del suo calibro potesse godere dei benefici penitenziari, facendo finta di non ricordarsi che l’ideatore di quel provvedimento era stato proprio Giovanni Falcone. Nessuna parola è però stata da loro pronunciata quando, negli ultimi mesi, sono stati concessi permessi premio al boss stragista Giovanni Formoso, agli spietati killer di mafia Raffaele Galatolo e Paolo Alfano, allo storico capomandamento Ignazio Pullarà e ad altri mafiosi di spicco come Franco Bonura, Gaetano Savoca e Tommaso Lo Presti. I quali sono accomunati da una peculiarità che li differenzia in maniera assai significativa da Brusca: non hanno mai voluto collaborare con la giustizia. Tale scenario trae origine da un approccio giurisprudenziale molto più permissivo rispetto al passato per i boss che non si pentono, segnato da dirimenti sentenze della Corte Europea dei Diritti Umani e della Corte Costituzionale, le quali hanno reso non più assoluto il divieto di permessi premio e libertà condizionale per la mancata collaborazione con la giustizia. Una strada che, con ogni probabilità, porterà a una drastica riduzione del numero dei pentiti. I quali, diversamente da chi ha sempre tenuto la bocca serrata davanti ai pm, sembrano fare più paura a molti personaggi che siedono sugli scranni più alti delle gerarchie istituzionali del nostro Paese.

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Stefano Baudino

Laureato in Mass Media e Politica, autore di dieci saggi su criminalità mafiosa e terrorismo. Interviene come esperto esterno in scuole e università con un modulo didattico sulla storia di Cosa nostra. Per L’Indipendente scrive di attualità, politica e mafia.

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