giovedì 18 Dicembre 2025

Come il mercato “green” dei crediti di carbonio minaccia le popolazioni indigene

Tra le misure pensate per contrastare le emissioni di CO2 a livello planetario, esiste da anni un meccanismo basato sui cosiddetti “crediti di carbonio”. In pratica, le grandi aziende che, per le proprie attività industriali, emettono quantitativi ingenti di CO2 possono (o devono, a seconda dei settori) impegnarsi a ripagare i loro effetti negativi sul Pianeta acquistando crediti: ogni credito rappresenta una tonnellata di CO2 che è stata ridotta o “sequestrata” da progetti ecologici (come piantare alberi o installare energie rinnovabili). A vendere questi crediti sono aziende e organizzazioni che operano in settori che assorbono CO2, come la semina di grandi quantitativi di alberi. Si tratta di un meccanismo criticato da tempo, sia perché, anziché spingere le aziende più inquinanti a ridurre il loro impatto, si limita a farle pagare una piccola somma compensativa, sia perché il sistema dei crediti di carbonio si è trasformato ben presto in un business sul quale i fondi d’investimento lucrano in modo speculativo, acquistandoli e rivendendoli sul mercato azionario. Solo nel mercato europeo, nel 2023, il valore dei crediti di carbonio ha raggiunto l’impressionante cifra di 770 miliardi di euro. Oltre a queste criticità, ne sta emergendo un’altra ancor più grave: il meccanismo dei crediti di carbonio si sta rapidamente trasformando in una minaccia esistenziale per i territori dei popoli indigeni in tutto il mondo, poiché spesso sono proprio i loro territori — ancora non toccati dalle attività industriali — a essere il luogo ideale per allestire i progetti di compensazione. Molto spesso, infatti, la creazione di aree protette, come le foreste, che fungono da serbatoio di carbonio, comporta lo sfratto delle popolazioni locali o la negazione dei loro diritti sulla sussistenza.

Mercato del carbonio: business, mercificazione della natura e greenwashing

Nell’ambito dell’Accordo di Parigi del 2015, i Paesi hanno istituito il quadro “REDD+” per proteggere le foreste. “REDD” è l’acronimo di “Riduzione delle emissioni derivanti dalla deforestazione e dal degrado forestale nei Paesi in via di sviluppo”, mentre il “+” indica ulteriori attività legate alle foreste che proteggono il clima, in particolare la gestione sostenibile delle foreste e la conservazione e il miglioramento degli stock di carbonio forestale. Nell’ambito dei programmi REDD+, i Paesi in via di sviluppo possono ricevere pagamenti per la compensazione delle emissioni di carbonio prodotte dagli Stati più industrializzati, così come dalle grandi aziende private. In sostanza, si tratta di un meccanismo che rientra nel cosiddetto mercato del carbonio, ideato per la prima volta in occasione della stipula del Protocollo di Kyoto e sviluppato a partire dal 2005 con l’entrata in vigore del Trattato firmato in Giappone. Da allora, si è creato un nuovo business che mercifica la natura, con lo scopo dichiarato di porre un freno al riscaldamento climatico.

La crescita di valore prevista per il mercato dei crediti di carbonio nei prossimi anni

I programmi inerenti a REDD+ rispondono all’idea che la “monetizzazione” delle foreste, che forniscono benefici ecosistemici tramite l’emissione di crediti di carbonio, contribuisca a scongiurare un ulteriore aumento della temperatura globale. A sua volta, la vendita di questi crediti dovrebbe generare un flusso di reddito da reinvestire nella conservazione delle foreste. Una ricerca pubblicata su Science ha rivelato, prevedibilmente, che i crediti di carbonio derivanti da progetti di riforestazione non compensano la maggior parte delle emissioni rilasciate dalle attività industriali. Un gruppo internazionale di scienziati ha esaminato 26 siti in cui sono stati realizzati progetti di contrasto alla deforestazione REDD+ in tre diversi continenti. Il dubbio principale riguarda come gli sviluppatori calcolino l’impatto dei loro progetti: circa il 94% dei crediti di carbonio derivanti da questi non rappresenterebbe una reale mitigazione delle emissioni climalteranti. Una contraddizione che coinvolge anche le Nazioni Unite, le quali, da un lato,  mettono in guardia sulla concreta possibilità che dietro la facciata dell’ecologismo si celino comunicazione ingannevole (il cosiddetto “greenwashing”) e violazioni dei diritti umani, mentre dall’altro — attraverso il Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo (UNDP) — supportano il mercato dei crediti di carbonio, definendolo parte delle strategie per promuovere lo sviluppo sostenibile e la lotta contro il cambiamento climatico.

Popoli indigeni e mercato del carbonio: sfollamento e violazione dei diritti umani

La faccia oscura di questo meccanismo già problematico è costituita da quello che possiamo definire “neocolonialismo del carbonio” degli Stati ricchi, non solo più occidentali, nei confronti di quelli poveri e delle comunità locali che vivono grazie ad economie di sussistenza.

L’economia di sussistenza, praticata dalla totalità delle popolazioni indigene, è una tipologia di sistema economico in cui vige uno scambio non monetario, basato esclusivamente sull’utilizzo di risorse naturali come fonte primaria e assoluta per garantire il sostentamento e la sopravvivenza. Le tecniche di approvvigionamento del cibo e dei beni che caratterizzano l’economia di sussistenza sono la piccola agricoltura, la raccolta, la caccia, la pesca e la pastorizia. In questo tipo di economia, ogni singolo membro della comunità provvede al sostentamento proprio e degli altri tramite cooperazione, solidarismo, condivisione e dono, garantendo così la sopravvivenza di tutti. L’utilizzo delle risorse naturali non è finalizzato al massimo sfruttamento delle stesse, e quindi al profitto, ma unicamente al sostentamento della comunità. Il mercato del carbonio e, nello specifico, i programmi REDD+ intaccano in maniera significativa l’economia di sussistenza di molte comunità locali e popolazioni indigene dei Paesi poveri del mondo, quando non la sopprimono del tutto, minacciando profondamente l’integrità sociale di tali comunità.

IInfatti, le aree sottoposte ai programmi del mercato del carbonio, come le foreste, diventano zone protette dove non si può svolgere alcuna attività. Il parallelismo è quello con i parchi nazionali, istituiti per la prima volta al mondo negli Stati Uniti, con il prezzo più alto pagato dalle popolazioni indigene locali, i cosiddetti indiani. Negli USA, il primo parco nazionale fu creato nel 1872, spinto da quell’ambientalismo elitario dei coloni bianchi, che Joan Martinez Alier, in Ecologia dei poveri, chiama “culto della wilderness”. Scriveva Alier: «La principale proposta politica di questa corrente dell’ambientalismo consiste nel mantenere le riserve naturali, chiamate parchi nazionali o naturali, libere dall’interferenza umana. Esistono gradazioni circa la quantità di presenza umana tollerata dai territori protetti, che vanno dall’esclusione totale alla gestione congiunta con le popolazioni locali. I fondamentalisti del silvestre pensano che la gestione congiunta non è altro che un modo fi fare di necessità virtù: il loro ideale è l’esclusione. Una riserva naturale può ammettere visitatori, ma non abitanti umani». Ed è così che le popolazioni indigene degli Stati Uniti sono state cacciate, un’altra volta, dalle aree che venivano costituite come parchi nazionali.

Adesso la storia si ripete in altre zone del mondo. Con il pretesto di salvare il Pianeta dalle emissioni inquinanti di Stati e multinazionali, le popolazioni indigene vengono escluse e i loro diritti umani violati. Così è successo, e continua a succedere, in Kenya, dove la popolazione indigena Ogiek viene sfrattata dai propri territori perché designati all’interno di programmi REDD+. A denunciarlo sono state tre importanti organizzazioni per i diritti umani – Survival International, Amnesty International e Minority Rights Group – durante la cerimonia di apertura del vertice sul clima di Dubai, COP28, nel novembre 2023. Negli sfratti, hanno precisato le ONG, stanno giocando un ruolo chiave i progetti di conservazione legati al mercato dei crediti di carbonio.

Una donna Ogiek di fronte a quel che rimane della sua casa distrutta durante gli sfratti forzati compiuti dalle autorità keniote [foto di Survival International]
Così accade anche in Cambogia. “Carbon Offsetting’s Casualties: Violations of Chong Indigenous People’s Rights in Cambodia’s Southern Cardamom REDD+ Project” è il titolo del rapporto stilato da Human Rights Watch, che riguarda un progetto portato avanti dal Ministero dell’Ambiente cambogiano e dal gruppo di conservazione Wildlife Alliance. Il progetto coinvolge mezzo milione di ettari nelle montagne del Cardamomo, un’area di foresta pluviale che è stata la casa del popolo indigeno Chong per secoli. Il progetto è stato operativo per più di due anni senza consultare la popolazione locale, che deve affrontare sgomberi forzati e accuse penali per l’agricoltura di sussistenza che continua a praticare nei propri territori tradizionali. «Le strategie di conservazione che emarginano e puniscono le popolazioni indigene per affrontare la crisi ambientale globale sono inaccettabili e controproducenti. Il progetto Southern Cardamom REDD+ dovrebbe essere rivisto per garantire l’effettiva partecipazione del popolo Chong alle decisioni chiave, alla titolazione delle terre comunali indigene e agli accordi di condivisione dei benefici, riconoscendo ai Chong la proprietà del carbonio immagazzinato nei loro territori», ha dichiarato Luciana Téllez Chávez, ricercatrice ambientale senior di Human Rights Watch.

Lo stesso avviene in altre zone del mondo, dal Perù al Ghana, all’Angola, alla Tanzania, all’Uganda, allo Zimbabwe e allo Zambia. Le popolazioni indigene locali vengono sfrattate dai propri territori perché sottoposti alle regole dei programmi inerenti al mercato dei crediti di carbonio che, alla stregua dei parchi nazionali, non ammettono presenza umana, nemmeno di coloro che praticano un’economia di sussistenza, la quale, contrariamente al capitalismo industriale, non sfrutta il territorio per creare eccedenze e profitto, non depaupera le risorse e non inquina. Dunque, i diritti umani delle popolazioni indigene vengono violati per proteggere aree che non sono a rischio a causa della loro presenza, ma perché qualcuno, da qualche altra parte nel mondo, sfrutta e inquina l’ambiente.

[di Michele Manfrin]

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