sabato 27 Aprile 2024

“Tutto imparammo dell’amore”, una poesia di Emily Dickinson (1862)

Tutto imparammo dell’amore:
alfabeto, parole,
un capitolo, il libro possente,
poi la rivelazione terminò.

Ma negli occhi dell’altro
ciascuno contemplava un’ignoranza
divina, ancora più che nell’infanzia;
l’uno all’altro, fanciulli,

tentammo di spiegare
quanto era per entrambi incomprensibile.
Ahi, com’è vasta la saggezza
e molteplice il vero!

C’è un’ignoranza primitiva, priva di parole, un silenzio mitologico che riempie gli occhi e lascia muti, interdetti. Un silenzio che attraversa le ore e che non chiede di essere capito. Giacomo Leopardi, ne La sera del dì di festa canta di una donna che dorme nelle sue “chete stanze” mentre “già tace ogni sentiero”. La sospensione di ogni parola, e quindi di ogni durata, non è perfettamente silenzio ma densità obliqua di una intesa che non deve trovare espressione, saggezza quasi contemplativa che rende vana e inutile ogni verità, ogni preparazione razionale.

Chi è poeta sa che l’amore è “una realtà emotiva”, come dice James Hillman, una amplificazione dell’archetipo del puer aeternus, del fanciullo eterno, “un albeggiare continuo” che annuncia lo sbocciare non interessandosi del raccogliere. L’amore come uno stato di attesa e di molteplicità potenziale, che però non conosce la pazienza ma soltanto il vagabondare.

Così tutto quello che si è imparato dell’amore, quel che si crede di sapere si cancella e insieme si approfondisce in uno sguardo. L’alfabeto, cioè il dirsi basilare di un sentimento, è destinato a essere sovrastato, “those lines do lie” (“queste linee mentono”), scriveva Shakespeare, i versi che ti ho scritto mentivano perché mentire, non aderire al vero è la condizione dell’amore quando vuole trovare parole, perché il vero suo linguaggio è Eros, la forza pulsionale dominata dalle immagini, “come il vento scagliato contro le querce sui monti”, così cantava Saffo. La voce di Eros è un soffio che allude e accenna senza dire (annotava Corrado Bologna in uno splendido studio sulla voce), Amore detta al poeta le sue ragioni, diceva la poesia dello Stil Novo, ragioni che però non sono espressioni ma sintomi. “Silenzioso amore mio”, come nella canzone di Giorgia, oppure “amore prepotente”, secondo un’altra canzone. Un amore dunque che sfugge alle regole della comunicazione, che fa parte di quei suoni, di quelle entità sfuggenti che trasportano e trasfigurano una energia disarticolata e che rivelano l’incapacità di esternare logicamente.

Come dice Dickinson in un’altra sua poesia, “his ignorance – the Angel/ that pilot him along”, (“la sua ignoranza è l’angelo che gli fa da pilota”). Avevo intitolato uno scritto di un anno fa su L’Indipendente, L’analfabeta e il poeta. Appunto tutti e due felici prigionieri dei limiti del dire, delle trappole dell’intuizione.

[di Gian Paolo Caprettini]

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