domenica 28 Aprile 2024

Tempesta su Zara: la multinazionale dei vestiti usa il massacro di Gaza per marketing?

Il noto marchio di fast-fashion Zara sta affrontando una campagna di boicottaggio a livello mondiale a seguito della sua ultima campagna pubblicitaria. I modelli e le modelle sono infatti ritratti su di uno sfondo che dovrebbe essere uno studio d’arte, ma che a molti ha ricordato le immagini di Gaza distrutta che circolano in queste settimane. A destare particolare scalpore sono le immagini dei manichini avvolti in panni bianchi e scotch, una posizione che, secondo le critiche, ricorda tremendamente le immagini dei cadaveri della popolazione di Gaza, massacrata in queste settimane dall’aggressione israeliana. La reazione è stata immediata: in tutto il mondo si è diffusa la campagna di boicottaggio del brand, che ha spopolato sui social sotto l’hashtag #BoycottZara. Nella giornata di ieri, le immagini sono sparite sia dal sito che dall’app.

Inditex, multinazionale spagnola proprietaria del marchio Zara, ha dichiarato che i contenuti sono stati rimossi come esito di una normale procedura di aggiornamento dei contenuti, specificando che la collezione Atelier era stata concepita a luglio e realizzata a settembre, prima dello scoppio della guerra in Palestina, lo scorso 7 ottobre. Tuttavia, non è la prima volta che il marchio Zara affronta una campagna di boicottaggio per offese rivolte alla Palestina e al popolo palestinese. In un messaggio inviato via Instagram (poi cancellato) al modello palestinese Qaher Harhash, risalente al 2021, la capo stilista per il settore femminile Vanessa Perilman aveva dichiarato che «Gli israeliani non insegnano ai bambini a odiare nè a lanciare pietre contro i soldati come fa la tua gente» e che «Forse se la tua gente fosse istruita non farebbe saltare in aria gli ospedali e le scuole che Israele ha contribuito a pagare a Gaza». Il messaggio era giunto in risposta a un post pro-Palestina pubblicato da Harhash a seguito della guerra durata 11 giorni tra Israele e Hamas, che ha causato oltre 230 morti tra i palestinesi. Nel 2022, inoltre, Joey Schwebel (presidente di Trimera Brands, multinazionale della moda che controlla Zara Israel e altri marchi della spagnola Inditex) ha ospitato nella propria casa di Ra’anana, nel nord di Tel Aviv, un evento per la campagna elettorale dell’ultranazionalista Ben Gvir, attuale ministro della Sicurezza nazionale israeliana. Ben Gvir non ha mai fatto segreto della propria attitudine verso il popolo palestinese: nell’agosto di quest’anno, per esempio, aveva difeso un israeliano che aveva ucciso a colpi di pistola un palestinese dichiarando che avrebbe dovuto essergli appuntata una «medaglia d’onore». A seguito dell’evento promosso da Schwebel, in moltissimi hanno pubblicato sui social media foto e video di sè stessi mentre davano alle fiamme abiti di Zara acquistati in precedenza, chiedendo, anche in quell’occasione, un boicottaggio mondiale del marchio.

Anche in questa occasione, le proteste per la campagna Atelier si sono presto diffuse in tutto il mondo, con la vandalizzazione di alcuni punti vendita e le proteste degli attivisti all’interno dei negozi. Questa mattina, il brand ha pubblicato sulla propria pagina Instagram un post dove spiega che l’intenzione era quella di “rappresentare una serie di immagini di sculture non terminate nello studio di uno scultore” e che la campagna “è stata creata con il solo intento di mostrare capi artigianali in un contesto artistico. Sfortunatamente, alcuni clienti si sono sentiti offesi dalle immagini, che sono state ora rimosse, vedendo in esse qualcosa che era ben lontano dall’intento per il quale erano state create. Zara si rammarica per il malinteso e ribadisce il proprio rispetto verso tutti“. Tuttavia, sono molti a commentare che le scuse siano troppo blande e che siano arrivate troppo in ritardo.

 

Visualizza questo post su Instagram

 

Un post condiviso da ZARA Official (@zara)

Che si tratti effettivamente di una leggerezza, di un incidente commesso per errore di valutazione, o di una effettiva provocazione, nessuno può al momento dirlo con certezza. Ciò che è certo è che una parte di società civile si conferma attenta ai messaggi veicolati (soprattutto) dai grandi brand, i quali travalicano i confini della semplice pubblicità per trasmettere un messaggio più ampio, con evidenti ripercussioni. E proprio perchè consapevoli che gran parte del potere delle multinazionali passa anche attraverso l’immagine di sè che queste costruiscono e promuovono, una delle prime azioni intraprese dai sostenitori della Palestina a seguito dello scoppio della guerra, il 7 ottobre scorso, è stato mettere in luce i legami che molte di queste hanno con Israele e chiederne il boicottaggio dei prodotti. Sottovalutare la potenza di queste azioni risulta, oltre che incredibilmente ingenuo, anche estremamente controproducente.

[di Valeria Casolaro]

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1 commento

  1. Grazie V Casolaro, articolo importante che mette in evidenza la possibile influenza della società civile sulle scelte dei grandi marchi. Influenza difficile da applicare alle scelte dei politici e che ispira una necessaria estensione della democrazia magari con una maggiore partecipazione tramite una serie di voti ed opinioni via web.
    I.E.: il controllo attuato con le varie app tipo IO, Identità digitale, etc…che identificano gli individui, potrebbe essere a doppio senso e dare la possibilità agli individui cittadini di esprimere il loro parere sulle scelte dei governi e dell’Europa.

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