giovedì 2 Maggio 2024

Materiali alternativi nella moda: tra possibilità, limiti e difficoltà

Quella dei materiali è una delle questioni più discusse quando si tratta di dare alla moda un’impronta più sostenibile. Tutte le risorse, infatti, provengono dalla terra, siano esse di origine animale (lana, pelle, seta), vegetale (come cotone, lino, canapa ma anche le viscose ottenute dalla polpa degli alberi) o minerale (come il petrolio estratto per farne poliestere&Co.). E, proprio per questo, non infinite. Da qui l’esigenza di valutare nuove strade e studiare materiali di nuova generazione in grado di ridurre l’impatto ambientale. Sfide e ricerche che vanno avanti da anni, tra risultati percorribili, idee poco scalabili e fallimenti. Materiali intelligenti, fabbricazioni più simili ai processi naturali, tessuti riciclati da processi circolari: le novità in ballo sono tante. Alcune in fase embrionale, altre sperimentate e solo in attesa di poter essere diffuse su larga scala. Che siano la soluzione o l’ennesima scappatoia verso nuove strade per non aggiustare il tiro su quelle vecchie, solo il tempo ce lo dirà. 

Bio-Based: quello che c’è da sapere

Bioneer – pioniere biologico – è un termine coniato all’inizio degli anni novanta, periodo in cui le bio-tecnologie sono state messe al servizio della società per sviluppare materiali biodegradabili coltivati ​​in laboratorio da utilizzare principalmente nella moda, nel design e nell’architettura. Esiste una fitta comunità di biologi, scienziati dei materiali e ingegneri che impiegano batteri, funghi, alghe, tè fermentato, lievito e altri microrganismi, per produrre indumenti, imballaggi ed elementi di design per interni. Sembra fantascienza e a tratti moralmente discutibile, ma questo tipo di progressi biotecnologici hanno il potenziale per ridurre l’uso eccessivo del suolo, dell’acqua e del degrado ambientale in generale; così come la riduzione dell’allevamento del bestiame, dei rifiuti e dell’uso di sostanze chimiche tossiche.

Colei che ha dato vita a questo movimento è la pioniera visionaria Suzanne Lee, che dal 2003, insieme al collega scienziato David Hepworth, ha iniziato ad usare bagni e giardini per coltivare materiali. Come? Utilizzando gli stessi ingredienti che si usano per preparare la Kombucha, come zucchero, aceto di sidro di mele e tè verde. Così Suzanne ha sviluppato i primi capi realizzati con cellulosa batterica. Ci sono voluti numerosi esperimenti con la fermentazione per avere un materiale simile alla pelle che possa essere gettato nel bidone del compostaggio poiché è sia biodegradabile sia compostabile. Oggi Suzanne è capo della BioFabricate, prima società di consulenza al mondo dedicata al bio design, e di Modern Meadow Inc, una rete di sviluppatori di materiali il cui scopo è fondere design, biologia e tecnologia ed il cui motto è “creare, non distruggere“.

Ma cosa significa esattamente bio-based?

Per essere definito tale, un materiale deve essere in totalmente o in parte derivato da una biomassa ottenuta da piante o vegetali, e che abbia subito una trasformazione fisica, chimica o biologica (attenzione, bio-based non vuol dire biodegradabile). A loro volta i materiali bio-based si dividono in biosintetici, quando la biomassa viene trasformata da micro organismi o biofabbricati, prodotti direttamente da cellule viventi, come batteri, lieviti o miceli (radice dei funghi). I materiali bioassemblati, invece, sono coltivati e poi trasformati grazie ad altri piccoli organismi, tra cui i batteri.

Sembra complicato, in realtà quasi tutte le elaborazioni di questi nuovi materiali si basano sull’osservazione della natura, degli animali e dei processi vitali di alcuni micro organismi. Come nel caso della MicroSilk, una seta ricavata da zucchero, lievito, acqua, elaborata dalla Bolt Threads, azienda californiana fondata nel 2009. Partiti osservando per prima cosa le caratteristiche della proteina della seta, poi la relazione tra il DNA dei ragni e le fibre che producevano, hanno cercato di riprodurre le solite proteine attraverso processi tecnologici e di fermentazione, ottenendo delle fibre molto simili alla seta ed utilizzata per la prima volta da Stella McCartney nel 2017. 

Simile ma partendo da una materia prima differente è la storia di MyloTM, un materiale simile alla pelle realizzato con micelio, la radice batterica dei funghi. Il micelio viene coltivato e monitorato nei laboratori, evitando l’allevamento del bestiame, gli sprechi di materiale e i gas serra dispersi nell’aria per produrre pelle. Tutte queste sono alternative pratiche, ecologiche e realizzate in un’ottica circolare. Talmente valide che qualche mese fa la stessa Bolt Threads ha dovuto annunciare la sospensione del suo lavoro su questo materiale per mancanza di fondi (il che fa pensare che a scommettere su reali alternative per cercare di riparare ai danni del sistema moda siano veramente in pochi… forse per mancanza di interesse nel cambiare il sistema stesso?!?). Nel frattempo le sperimentazioni non si sono mai fermate, e tanti materiali fanno capolino sul mercato, derivati da piante, alghe o scarti dell’industria alimentare. 

AlgiKnit e SeaCell™ sono entrambi materiali ottenuti dalle alghe. Bananatex® è il primo tessuto tecnico durevole realizzato con le piante di banano Abacá coltivate naturalmente. Orange Fiber è una fibra tessile artificiale di origine naturale, estratta da scarti della produzione degli agrumi (tutti, non solo le arance da cui prende il nome). Il brevetto di questa trovata è Made in Italy, diventato realtà grazie alla visione di due ragazze siciliane. Una volta immesso sul mercato in fase sperimentale, il primo a investirci è stato Salvatore Ferragamo, per le sue collezioni di abbigliamento donna. Piñatex è il frutto delle esplorazioni di Carmen, esperta di pelletteria, durante un viaggio nelle Filippine. Dopo sette anni di ricerca e sviluppo, la sua azienda, Ananas Anam, ha creato un tessuto non tessuto in simil-pelle con l’uso di foglie di ananas. Altro brevetto italiano è quello di Vegea, alternativa alla pelle realizzata con gli scarti della lavorazione dell’uva. Bucce e semi sono recuperati, processati e trasformati in un materiale che alla vista si presenta come la vera pelle. La sua produzione, infatti, non usa solventi tossici, metalli pesanti o sostanze dannose per l’uomo e l’ambiente. Sempre in casa Frumart, passando dalla terra del vino a quella delle mele, è nata Apple Skin, un materiale che contiene il 50% degli avanzi dell’industria delle mele. Desserto è  una pelle di cactus vegana a base biologica, coltivata in Messico in una piantagione completamente bio (no pesticidi ed erbicidi e alimentata solo dall’acqua piovana). 

Dove arrivano i problemi

Nonostante un interesse reale nel fornire alternative al materiali tradizionali (soprattutto alla pelle animale, dove entra in gioco la componente etica e la voglia di fornire alternative vegane che non presentino derivati del petrolio al loro interno), le cose vanno a rilento; entrare veramente a regime, permettendo a questi materiali di diventare scalabili ed essere in grado di offrire prestazioni e prezzi concorrenziali, è complicato, soprattutto quando queste imprese si trovano a dover competere con i materiali esistenti, che hanno caratteristiche e funzionalità ben precise. In moltissimi casi, ad esempio, la percentuale di bio-massa utilizzata non raggiunge il 100% e spesso deve essere mescolata con componenti di origine plastica, per conferire caratteristiche come resistenza, impermeabilità e facilità nel lavaggio. In questo caso, vista l’attenzione crescente delle persone verso alternative più sostenibili e l’uso improprio che spesso si fa di certi termini, è bene controllare l’etichetta di composizione: laddove compaiono le sigle PU o PVC siamo in presenza di derivati del petrolio. Tra start up che falliscono, problemi tecnici, difficoltà nell’entrare seriamente nel mercato con disponibilità utili a sviluppare una produzione vera e propria, la strada è ancora lunga e tortuosa. 

Ma di sicuro non finisce qui e, mentre sto scrivendo, qualcuno starà brevettando qualcosa di nuovo con il quale (si spera) far prendere alla produzione tessile una direzione sostenibile, circolare e che sia capace di fare a meno di risorse vergini. Nel frattempo, sempre meglio fare con quello che c’è già.

[di Marina Savarese]

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