domenica 28 Aprile 2024

Cos’è il ‘premierato’ che il governo Meloni vuole introdurre cambiando la Costituzione

Il governo Meloni è pronto a mettere mano alle riforme costituzionali, puntando tutto sul cosiddetto “premierato”, sistema che trova il suo fulcro nell’elezione diretta del presidente del Consiglio. In un vertice tenuto a Palazzo Chigi, infatti, i partiti di maggioranza si sono compattati sui contenuti della bozza del disegno di legge costituzionale che porta il nome di Maria Elisabetta Casellati, ministro per le Riforme, che approderà ufficialmente in Consiglio dei Ministri venerdì prossimo. Insieme all’elezione diretta del premier, cuore di una riforma su cui la maggioranza dovrà cercare di trovare un ampio (e molto difficile) consenso parlamentare, ci sono anche un consistente premio di maggioranza al fine di garantire l’agognata “governabilità” ai vincitori delle elezioni, un cambio di regole inerenti le conseguenze della caduta del governo e delle dimissioni del governo per evitare “ribaltoni”, nonché lo fine della nomina dei senatori a vita da parte del Capo dello Stato. Per adesso, però, le opposizioni – al netto di Italia Viva – si uniscono nel fronte del no.

Il nuovo testo, nello specifico, apporterebbe modifiche agli articoli 88 (sul potere del Presidente della Repubblica di sciogliere le Camere), 92 (sulla nomina del presidente del Consiglio) e 94 della Costituzione (sulle mozioni di fiducia e sfiducia ai governi). Se attualmente la Carta attribuisce al Presidente della Repubblica il potere di nominare il presidente del Consiglio, con l’entrata in vigore del nuovo testo potrebbe solo limitarsi a conferirgli l’incarico. Il presidente del Consiglio dei ministri, infatti, verrebbe “eletto a suffragio universale e diretto per la durata di cinque anni”. Si prevede inoltre che le votazioni per l’elezione del presidente del Consiglio e delle Camere avvengano tramite “un’unica scheda elettorale” e che la legge disciplini “il sistema elettorale delle Camere secondo i principi di rappresentatività e governabilità e in modo che un premio assegnato su base nazionale garantisca ai candidati e alle liste collegati al presidente del Consiglio dei ministri il 55 per cento dei seggi nelle Camere”. Insomma, un cospicuo premio di maggioranza in favore della fazione a sostegno del candidato vincente, in modo tale che il nuovo premier possa contare su una solida maggioranza.

Dopo essere stato eletto, il presidente del Consiglio dovrebbe, come avviene oggi, ottenere la fiducia di Camera e Senato. Ove ciò non succedesse, però, secondo la bozza del nuovo ddl, il Presidente della Repubblica avrebbe il dovere di sciogliere le Camere portando il Paese a nuove elezioni. Nel testo preparato da Casellati, con la finalità di garantire stabilità all’Esecutivo e precludere il continuo ricorso al voto, si ipotizza inoltre che, in caso di dimissioni del primo ministro, il presidente della Repubblica possa assegnare l’incarico di formare un nuovo governo al presidente del Consiglio dimissionario o, in alternativa, a un altro parlamentare eletto e a lui collegato. In ultimo, scomparendo l’elezione dei senatori a vita, a ottenere la carica sarebbero solo gli ex Presidenti della Repubblica.

La riforma ideale di Fratelli d’Italia, presentata in campagna elettorale, era in realtà piuttosto diversa. Giorgia Meloni si è infatti sempre detta favorevole al Presidenzialismo – ovvero all’elezione diretta del Presidente della Repubblica. La presidente del Consiglio ha però deciso di virare sul “premierato”, per sancire un terreno comune con i partner di coalizione e tentare di trovare qualche sponda nei partiti di opposizione. Per adesso, però, Pd, M5S, Azione, Avs e Più Europa, in difesa della “democrazia rappresentativa”, hanno seccamente bocciato all’unisono la proposta. L’unico ad averla accolta con entusiasmo è stato Matteo Renzi, che da sempre appoggia l’idea dell’elezione diretta del presidente del Consiglio.

Ad ogni modo, l’iter che il provvedimento dovrà seguire sarà lungo e articolato. Secondo quanto prescritto dall’articolo 138 della Carta, infatti, per riformare la Costituzione sono necessarie due deliberazioni per ciascuna camera, a distanza di non meno di tre mesi l’una dall’altra. Per approvare definitivamente il testo, in occasione della seconda deliberazione, le camere devono approvare con il sì di almeno i 2/3 dei membri. Significa che a quelli dei parlamentari della maggioranza si dovrebbero aggiungere necessariamente almeno 21 voti tra le fila delle opposizioni al Senato e ben 63 alla Camera: una missione molto difficile. Esiste anche una seconda strada possibile: una riforma costituzionale può essere approvata anche con maggioranza semplice, ma in questo secondo caso può essere sottoposto a referendum per diventare definitiva. L’ultimo a provarci, sette anni fa, fu proprio Matteo Renzi: gli andò molto male, perché i cittadini bocciarono il disegno di modifica al quale aveva deciso di legare il suo destino politico, che infatti da allora vide una parabola discendente. Ad ogni governo la sua sfida.

[di Stefano Baudino]

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