«Prima qui non c’erano queste malattie, noi indigeni non ci ammalavamo di cancro, ora ci sono vari casi nel territorio. Tra le donne aumentano gli episodi di tumore al seno e all’utero, tra gli uomini alla prostata. Noi non soffrivamo di diarrea né di asma, i bambini non avevano disturbi dell’attenzione, invece ora i casi sono molti… siamo preoccupati». Così racconta M., unico infermiere indigeno del villaggio Yalawapiti, nell’Alto Xingu, Stato di Mato Grosso, in Brasile, mentre prepara uno sciroppo a base di radici per curare il ginocchio di sua moglie. In questa regione, oggi conosciuta come Territorio Indigeno Xingu (TIX) vivono da secoli 16 diverse etnie, ognuna con la propria lingua, cultura e cosmovisione.
Il TIX è il primo territorio indigeno ad essere stato riconosciuto come tale dal governo Brasiliano già nei primi anni sessanta. L’obiettivo era quello di proteggere tanto il suo valore socio-culturale – composto da una gran varietà di rituali, musica, arti marziali, medicina ancestrale, lingue e artigianato – quanto la ricchezza del suo ecosistema – definita dalla particolarità di trovarsi in una fascia di transizione tra il bioma del cerrado, anche conosciuto come savana brasiliana, e la foresta amazzonica. Un obiettivo che, ai miei occhi di straniero, sembra essere stato raggiunto.
Arrivando nella comunità Yawalapiti fa effetto vedere che nessuno utilizza vestiti. Qualcuno si limita a fasciarsi la pancia sotto l’ombelico con una fascia di cordini di tessuto decorato. Altri si dipingono con urucu, una tinta rossa, e jenipapu, una tinta nera, entrambe ricavate da frutti di piante endemiche. Parlano la loro lingua originaria e gli uomini dalle loro case all’alba ululano per “iniziare il giorno insieme”. Le donne si dedicano alla cucina, alla cura della casa e all’artigianato e nello svolgere queste attività cantano accompagnate dai bambini. Gli adolescenti sono reclusi. Dai 12 ai 15 anni infatti è obbligatoria la reclusione in uno scompartimento delle grandi case di legno e paglia. Il fine è quello di meditare e allenarsi, conoscersi e diventare più forti. Sorprendente è infatti la forza fisica e la muscolatura sviluppata di tutti gli uomini, che mettono alla prova attraverso un’arte marziale ancestrale chiamata huka huka. In questa lotta, il cui obiettivo è far cadere di schiena a terra l’avversario, gli uomini di tutte le aldeie – ovvero i vari villaggi indigeni – si sfidano alla conquista del titolo di campione.
La minaccia dell’industria agroalimentare
Le lunghe strade sterrate che danno accesso al TIX si fanno spazio in un vero e proprio oceano di soia prima di raggiungere la foresta vergine del territorio indigeno. È quasi angosciante addentrarsi nelle infinite distese di campi coltivati: sembrano non finire mai. Centinaia di camion vanno e vengono dagli stabilimenti dove il raccolto viene immagazzinato, sollevando enormi nuvole di polvere. Su cartelli malconci si possono leggere i nomi di grandi multinazionali come Cargill, Bunge o Amaggi. Quasi tutte le più grandi fazendas di soia, infatti, vendono il loro raccolto a questi giganti dell’agroalimentare che si occupano poi di distribuirlo nel mondo. A confermarlo è Ewesh, giurista indigeno che mi ha accolto presso la sede di ATIX (Associação Terra Indígena Xingu) e che da anni difende il suo popolo dalle minacce dell’agricoltura intensiva: «Cargill, Bunge e Amaggi monopolizzano la fase di stoccaggio e transporto di praticamente tutta la soia prodotta in questa regione, sono poche le fazendas che non dipendono da queste multinazionali». È proprio Ewesh a darmi la possibilità di entrare nel territorio dell’Alto Xingu e organizzare il mio viaggio per raggiungere la comunità Yawalapiti: sette ore di macchina e una di canoa lungo il fiume Xingu. Durante le prime 5 ore di fuoristrada il panorama è costituito unicamente da campi di soia e silos. Poi si entra nell’area protetta attraverso una strada sterrata che fa breccia nella moltitudine di piante della foresta vergine. Infine, una canoa guidata da Tumin, il leader del villaggio Yawalapiti, scorre rumorosa sul grande fiume Xingu.
L’abuso di pesticidi è tollerato dallo Stato
«Dovresti vedere, durante la stagione delle piogge, gli aerei che passano per spargere i pesticidi – mi dice Tumin con tono serio – sembra pioggia polverizzata e ha un odore forte. Negli ultimi quattro anni lo stanno facendo con sempre maggiore frequenza e sempre più vicino al nostro territorio». In Brasile l’uso di pesticidi è regolato dalla legge 7802/1989, che impone controlli e limitazioni piuttosto restrittive all’uso di qualsiasi sostanza potenzialmente cancerogena. Ciononostante, il Brasile ne è il maggior consumatore al mondo. Basti pensare che il 20% della produzione mondiale di pesticidi è acquistato in questo Paese. Questo è dovuto all’assenza di un meccanismo di controllo efficace da parte degli organi pubblici, oltre ad un tasso di produzione estremamente elevato. Inoltre, la forte presenza di colture transgeniche che aumenta esponenzialmente la resistenza dei microrganismi nocivi, parassiti e piante infestanti ai pesticidi, costringe i produttori a continuare ad utilizzare nuove combinazioni chimiche, sempre più velenose e invasive.
Uno studio del CSP (Centro Saude Publica) dimostra che in Brasile sono 450 le sostanze chimiche permesse per uso agricolo, tra cui pesticidi e fertilizzanti. Solo considerando i pesticidi, lo stesso studio rivela che il 67% è associabile a danni cronici alla salute. È inoltre necessario menzionare che il 45% delle sostanze chimiche utilizzate in Brasile sono proibite nell’Unione Europea. Ad esempio, se in Brasile è permesso l’utilizzo di 10mg di glifosato per kg di soia, nell’UE la quantità legale è ridotta a 0.2mg/kg. È inoltre proibito spargere via aerea sostanze chimiche sulle colture europee, mentre in Brasile è una pratica largamente diffusa. Un altro esempio è quello dell’atrazina, erbicida altamente nocivo sia per l’uomo che per l’ambiente, spesso collegato a casi di squilibri ormonali, che nell’UE è proibito dal 2004. In Brasile invece è il quarto pesticida più utilizzato, con 287.000 tonnellate acquistate solo nel 2018. Altri esempi sono il Paraquat, fatale per gli esseri umani se ingerito, il fipronil, carbendazim e il permethrin, tutti e tre altamente tossici per i gli ecosistemi acquatici.
Considerando che i popoli indigeni dell’alto Xingu, storicamente pescatori, hanno una dieta basata unicamente su pesce e farina, non è un caso che i tipi di cancro riscontrati dall’infermiere Yawalapiti nel territorio indigeno siano proprio gli stessi che varie ricerche mediche collegano all’esposizione ai pesticidi. Proprio un recentissimo studio dell’Università Federale del Mato Grosso conferma che nelle regioni dove vengono utilizzati più pesticidi è maggiore il tasso di mortalità e morbilità per cancro tra i bambini e adolescenti dagli 0 ai 19 anni. Nella metà dei casi si è trattato di leucemia. La maggior parte dei pesticidi che abbiamo menzionato, infatti, sono idrosolubili. Vengono trasportati dai fiumi e si depositano nelle lagune, finendo ingeriti dalla fauna acquatica. Inoltre, con l’evaporazione dell’acqua, queste sostanze entrano nel ciclo della pioggia, finendo quindi col contaminare anche il suolo, quindi le piante e gli animali.
Le persone anziane intervistate nel villaggio Yawalapiti mi dicono che in passato i fiumi erano più ricchi di pesce e che i raccolti davano molti più frutti, che c’erano più passeri che cantavano, più api per fare il miele e che le scimmie prima giocavano coi bambini dietro alle case, mentre ora non se ne vedono quasi più. Si legge sul volto del padre di Tumin la tristezza nel tornare a casa a mani vuote dopo la battuta di pesca. Prima era impossibile che succedesse. Per fortuna oggi un giovane del villaggio ha pescato una tartaruga acquatica, conosciuta come tracajá, di cui molte popolazioni indigene dell’amazzonia brasiliana vanno ghiotte. Gli uomini si riuniscono quindi al centro del villaggio, sotto un tetto di paglia dove le donne non sono ammesse, per cucinare alla griglia la preda del giorno e bere succo del frutto piki, scherzosamente definito la “birra dello Xingu”.
Un problema che sembra trascendere la politica
Il racconto di Tumin illustra un’altra dimensione importante dell’uso dei pesticidi in Brasile, ovvero quella politica. Come sottintende il leader indigeno, negli ultimi quattro anni di governo Bolsonaro l’utilizzo di pesticidi era infatti fortemente aumentato. Basti pensare che, solamente durante i primi 100 giorni di governo, il leader conservatore aveva approvato l’uso di 152 nuovi pesticidi. Secondo i dati del Ministero dell’Agricoltura i pesticidi ammessi nel 2010 erano 104, nel 2018 diventarono 450, mentre oggi se ne contano oltre 1.500. Evidentemente non del tutto sazia nei suoi enormi appetiti, la lobby dell’agroalimentare sta spingendo per una deregolamentazione totale dell’uso di queste sostanze attraverso l’approvazione del cosiddetto poison package, una riforma del quadro normativo che faciliterebbe l’accesso di pesticidi altamente tossici nel mercato brasiliano, esponendo migliaia di persone, indigene e non, a rischi di avvelenamento. La pericolosa legge, approvata dalla Camera il 9 febbraio 2022, durante il governo Bolsonaro, è oggi in attesa della votazione in senato. Il ritorno al potere di Lula, però, ha riacceso la speranza negli oppositori del pericoloso progetto legislativo. Le promesse del nuovo presidente – che ha istituito per la prima volta un ministero per le Popolazioni Indigene – lasciano sperare che anche in questo settore si procederà in un’ottica di protezione.
Ad oggi, tuttavia, le mosse del presidente socialista risultano ondivaghe. Da una parte Lula ha approvato importanti provvedimenti per la protezione dell’Amazzonia e dei popoli indigeni incontattati (ovvero quelle popolazioni che non hanno mai avuto contatti diretti con altri gruppi umani e che rischierebbero lo sterminio a causa di batteri e virus verso i quali non hanno anticorpi se le attività umane arrivassero a lambire i loro territori), dall’altra le decisioni che il ministero dell’agricoltura (MAPA) sta prendendo non sono per niente rassicuranti. Recente è la controversa approvazione della legge 16 del 06 aprile 2023, che garantisce l’introduzione nel mercato brasiliano di 44 nuovi pesticidi pericolosi, tra cui l’insetticida Acefato, noto per sterminare enormi quantità di api, o l’erbicida S-Metolacloro, altamente cancerogeno.
La duplice complicità dell’UE
Molti sospettano che dietro a questa decisione ci siano le pressioni delle istituzioni europee che, se sul loro territorio vietano molte sostanze giudicate pericolose, all’estero fanno invece pressione per aumentare la produzione per poter aumentare le importazioni. «La prima volta che vidi spargere i pesticidi con un aeroplano non sapevo cosa fossero, così un giorno lo chiesi ad un fazendero e lui mi disse che era veleno. Allora io gli chiesi perché avvelenassero i prodotti che consumavano, e lui mi rispose che non li consumavano, ma mandavano tutto in Cina e in Europa», mi ha detto Tumin durante un intervista. È proprio così: dati alla mano, ho potuto confermare a Tumin che circa il 70% della soia prodotta in Brasile viene esportata; che la Cina, in testa alla classifica dei Paesi importatori di soia brasiliana, importa il 40% dell’export totale brasiliano; che l’Europa, al secondo posto, nel 2021 ne ha importata per un valore totale di 14 miliardi di dollari e che solo nel porto di Rotterdam ne sono entrate 6,7 milioni di tonnellate. Gli ho spiegato che l’Olanda è il maggiore importatore di soia in Europa, seguito da Spagna, Germania e Italia e che da questi porti viene poi distribuita negli altri Stati membri dell’UE. Infine, gli ho mostrato studi che confermano che l’85% di questa soia è usata per fornire gli allevamenti intensivi di bovini, suini e di pesce.
«Questo significa che la produzione di carne e pesce per consumo umano nell’UE è alimentata da prodotti coltivati con enormi quantità di pesticidi altamente tossici?» mi chiede Tumin. Gli faccio cenno di sì mentre lui ha la faccia perplessa di chi, giustamente non comprende la logica di un sistema alimentare tanto distorto. Rincaro la dose e gli rivelo un’altra cruda verità, ovvero che la gran parte dei pesticidi importati in Brasile sono prodotti da compagnie con sede in Europa. Non sorprende camminare per le strade di Querencia, ai confini del TIX, ed incontrare uffici della Bayer (colosso farmaceutico tedesco) e della Basf (industria chimica tedesca). Insieme alla svizzera Syngenta, queste imprese controllano il 54% del mercato mondiale dei pesticidi. Un recente report pubblicato da Greenpeace dimostra che sono 71 le sostanze considerate estremamente pericolose nell’UE, e quindi proibite, che la Bayer vende in Brasile. La FAO ha stimato che queste siano state utilizzate nelle colture brasiliane per un totale di 380.000 tonnellate. Tra queste vale la pena menzionare il clorpirifos e l’imidacloprid, così tossiche che un solo grammo potrebbe sterminare quasi 10 milioni di api, e di cui il Brasile fa un grande uso. Solo nel 2018 ne ha importate rispettivamente 7,16 milioni di chili e 10 milioni di chili.
Alla fine della mia intervista mi sono sentito come in dovere di scusarmi con Tumin, in quanto cittadino europeo e a nome di tutti coloro che sono parte di questa industria ecocida. Perché se è vero che le fila del mercato alimentare sono tirate da un manipolo di aziende multinazionali, è altrettanto certo che i dati che ho rivelato a Tumin, e ora a tutti voi, sono pubblici e dovrebbero spingere noi cittadini-consumatori a fare maggiore attenzione a quello che acquistiamo, perché anche del nostro consumo troppo spesso famelico e inconsapevole si nutrono gli appetiti insostenibili dei colossi dell’agroalimentare.
[testo e foto di Francesco Torri]
Illuminante grazie