venerdì 3 Maggio 2024

Torino: dopo un anno e mezzo finisce l’odissea repressiva degli studenti contro l’alternanza scuola-lavoro

Nella giornata di domenica le forze dell’ordine hanno notificato la revoca delle ultime misure cautelari ancora in atto nei confronti degli studenti coinvolti negli scontri avvenuti di fronte alla sede di Unione Industriale di Torino, il 18 febbraio del 2022. In quell’occasione, nel corso di una protesta per la morte di Giuseppe Lenoci e Lorenzo Parelli avvenute durante le attività di alternanza scuola-lavoro, una parte del corteo studentesco aveva cercato di entrare presso la sede di Unione Industriale, per cercare un simbolico confronto con una delle istituzioni considerate responsabili della morte dei due giovani. Da qui alcuni tafferugli con i carabinieri presenti («tre minuti e cinquanta in tutto, come scritto negli atti ufficiali» riferisce a L’Indipendente uno dei presenti), in seguito ai quali qualche agente riporta leggeri ferite, con una settimana circa di prognosi. Seppur ora liberi dalle misure che ne hanno ristretto il movimento per diversi mesi, tutti gli studenti risultano ancora imputati nel processo, la cui ultima udienza si svolgerà il 22 settembre prossimo.

L’autunno del 2022 è segnato dalle rivolte studentesche, che infiammano i licei di tutta Italia. Gli studenti stanno riemergendo a fatica dal periodo Covid, durante il quale la malagestione del sistema scolastico e la scarsa attenzione prestata alle loro esigenze hanno lasciato profonde ferite nei ragazzi, difficili da rimarginare. In quello stesso periodo Lorenzo Parelli muore, appena diciottenne, schiacciato da una lastra di metallo mentre svolgeva il proprio percorso di alternanza scuola lavoro (PCTO) all’interno dell’azienda Burimec di Lauzacco (Udine). Lorenzo non è il primo, e certamente non l’ultimo: di fatto, sono 18 gli studenti che hanno perso la vita in un percorso di alternanza lavoro dal 2017, 300 mila gli infortuni. Le istituzioni, sorde agli appelli degli studenti, reprimono le proteste con la violenza: ne è un esempio quanto accaduto a Torino, in piazza Arbarello, il 28 gennaio 2022, quando le forze dell’ordine prima impediscono al corteo studentesco – composto per la maggior parte da ragazzi minorenni tra i 16 e i 17 anni – di muoversi per poi, senza un motivo apparente, accanirsi con violenza sui ragazzi coi manganelli, ferendone alcuni in modo molto grave, tanto da richiedere l’intervento di alcune ambulanze. Episodio gravissimo, derubricato dall’allora ministro dell’Interno Luciana Lamorgese come «un cortocircuito». Per provare a venire incontro alle richieste degli studenti, il governo Meloni interviene, nel gennaio 2023, ampliando la copertura assicurativa degli studenti che intraprendono un PCTO: ora potranno continuare a morire, ma almeno saranno assicurati.

Una manifestante colpita alla testa da una manganellata – Foto di Valeria Casolaro per L’Indipendente

La protesta del 18 febbraio 2022 si svolge in questo clima. È Emiliano, uno degli studenti colpiti in prima persona dalle misure cautelari perché presente quel giorno, a raccontarcela. «Nel corso della manifestazione un gruppo di persone ha provato ad aprire il cancello, come a dire ‘Se non volete parlarci allora veniamo noi a parlare a voi: siamo stati picchiati, siamo stati ignorati, ora vogliamo avere un confronto’. Il cancello si apre di un metro e mezzo circa: quello che si era pensato era di mettere, in maniera simbolica, un piede dentro il giardino di Confindustria. A quel punto però si sono schierati i reparti dei carabinieri: da qui è seguito qualche minuto di tensione – meno di quattro, secondo gli atti della Digos. L’hanno definita un’azione violenta, ma in realtà di è trattato di qualche minuto di tafferugli a fronte di una manifestazione di 3-4 ore, durante i quali, inizialmente, la polizia ha anche manganellato». Quando sono arrivati gli atti della polizia con le relative denunce, racconta Emiliano, sarà reso noto che sei carabinieri e un commissario di polizia avevano riportato ferite lievi, con prognosi dai 3 agli 8 giorni. Tanto è bastato, tuttavia, per denunciare e arrestare i ragazzi per azione violenta e lesione a pubblico ufficiale.

Degli 11 denunciati, 3 sono finiti in carcere, 4 ai domiciliari (per tre di loro convertiti poi in obblighi di firma). Una di loro, Sara, è rimasta per oltre 7 mesi ai domiciliari per aver parlato al megafono durante lo svolgersi dell’azione. «Io sono stato alle Vallette per un mese, di cui i primi 10 giorni in isolamento perché ero risultato positivo al tampone, e poi un paio di settimane in sezione» racconta Emiliano, ventiduenne all’epoca dei fatti, che commenta così l’esperienza: «C’è un motivo se la galera non si augura a nessuno: ci vuole tantissimo tempo per avere accesso alle cose cui hai diritto, compresi i medicinali e le visite mediche. Io personalmente non ho subito violenze o pressioni psicologiche, ma alle guardie penitenziare non interessa niente di nessuno. A me nessuno ha spiegato nulla quando sono entrato lì: né a quante telefonate avessi diritto né che potessi fare richiesta per la tessera telefonica (che comunque dovevo pagare) per telefonare, né che mandare un telegramma costasse tantissimo, sono riuscito ad avere un contatto con l’esterno dopo cinque giorni, i colloqui dopo dieci. Con la scusa del Covid non potevo contattare nessuno, nemmeno via videochiamata. Potevo vedere solo i secondini che mi portavano i pasti. Dopo tre o quattro giorni di isolamento mi hanno mandato dei libri, ma non c’era molto altro da fare se non aspettare che passasse il tempo. Io l’ho fatto per 10 giorni: non voglio immaginare chi lo fa per 10 anni». Francesco e Jacopo, tradotti in carcere come Emiliano, sono stati inseriti in una sezione diversa, all’interno di una cella chiusa, «senza possibilità di lavarsi per cinque giorni» poiché, dal momento che erano entrati in contatto con un soggetto positivo, non avevano accesso alle docce insieme agli altri detenuti. «Per fortuna sono stati molto aiutati dagli altri detenuti, perché c’è una grandissima solidarietà tra la popolazione carceraria, soprattutto con gli ultimi arrivati» racconta Emiliano. Nel frattempo, il processo nei loro confronti non era ancora iniziato. «Il pm ha giustificato la necessità delle misure con il fatto che noi abbiamo dei carichi pendenti, ma sono cose per le quali nemmeno c’è stato ancora il processo e quindi è probabile che saremo pure assolti. Chi fa attivismo nel sociale lo sa, le denunce fioccano come coriandoli a Carnevale».

Il 6 giugno, Emiliano e Jacopo potranno uscire dal carcere solo per finire a casa agli arresti domiciliari con il braccialetto elettronico. «In realtà saremmo dovuti uscire molto prima, perché ci erano stati accordati i domiciliari, ma non si trovava il braccialetto e allora siamo rimasti dentro 10 giorni in più». Fino al 27 dicembre, data in cui la misura verrà convertita in obbligo di firma, per loro non sarà possibile vedere nessuno se non i familiari conviventi, né sostenere gli esami universitari, effettuare visite mediche o comunicare con l’esterno, se non previa autorizzazione del giudice. «Inizialmente il gip mi ha rifiutato anche la richiesta di vedere la mia fidanzata, dicendomi che dovevo circostanziare il motivo della richiesta. Sono state necessarie cinque richieste per poter avere accesso a un contatto telefonico». Per Francesco, accusato di aver graffiato lo zigomo del commissario capo Frenda, il periodo detentivo durerà due mesi e mezzo, ma una volta uscito sarà messo ai domiciliari senza braccialetto – potendo così ricevere visite e lavorare in smart working. «Il criterio in base al quale sono state decise misure diverse per tutti è un grande mistero, del quale non siamo venuti a capo. Eppure i capi d’accusa erano gli stessi per tutti».

Il 27 dicembre i domiciliari vengono convertiti in obbligo di firma e lo scorso fine settimana, ad oltre un anno e mezzo dai fatti, le misure cautelari vengono revocate per tutti. Nel frattempo, lo scorso gennaio, è iniziato il processo a loro carico, la cui ultima udienza si svolgerà il 22 settembre. Durante il periodo dei domiciliari «ho dovuto fare richieste per qualsiasi cosa, dal poter fare visite mediche al dare gli esami in università, alcuni dei quali ho dovuto rimandarli proprio per via di tutta la burocrazia che c’è dietro alle richieste, che non hanno fatto arrivare l’autorizzazione in tempo. Inoltre, nonostante indossassi il braccialetto, venivo continuamente controllato dai carabinieri, che passavano a citofonare anche due volte a notte – ovvero tra l’una e le sei – fino a tre volte a settimana. Per fortuna ho le spalle larghe e ho avuto moltissimo supporto dalla mia famiglia, ma non è stato facile. Sono riuscito abbastanza a tenere botta, come si suol dire, e non sarà questo a convincermi a smettere a fare attivismo e a lottare per i diritti, per le cause ecologiste, pacifiste, antifasciste e antisessiste. Non l’ho fatto per tutti questi mesi e non lo farò ora: continuerò finché posso a lottare per un mondo più giusto e più democratico».

[di Valeria Casolaro]

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