sabato 27 Aprile 2024

La rivolta dei raccoglitori di tè del Kenya contro l’automazione

I raccoglitori di tè del Kenya continuano a portare avanti la propria lotta contro l’automatizzazione del lavoro nei campi. Nell’ultimo anno gli occupati del settore –  centinaia di migliaia, visto che il Paese è il terzo esportatore al mondo della pianta da infuso – hanno danneggiato almeno dieci grandi macchine – per un valore di circa 1,2 milioni di dollari – utilizzate dai più noti marchi globali per raccogliere le foglie in maniera più rapida e tagliare i costi.

Una rivolta più volte sfociata in violenti scontri con le forze dell’ordine e che non sembra potersi, almeno per ora, placare. Sempre più aziende, infatti, si affidano all’automazione: Semafor Africa scrive che ogni mietitrice meccanizzata può sostituire circa 100 lavoratori. Numeri che in un settore che in Kenya garantisce 200mila posti di lavoro diretti – e circa 2 milioni indiretti, occupati principalmente da donne e giovani – suonano come una minaccia.

Dall’altra parte, per aumentare competitività e profitti sulle enormi distese di coltivazioni di tè in bustina possedute, ammortizzando allo stesso tempo le spese, le grandi multinazionali – come Associated British Foods ed Ekaterra, proprietarie rispettivamente dei noti marchi Twinings e Lipton – reputano imprescindibile l’utilizzo di macchinari. Soprattutto perché, pensando al risparmio, come ha detto Wu Luofa, dell’Istituto di ingegneria agraria della provincia cinese di Jiangxi, la raccolta manuale del tè rappresenta oltre la metà del costo della sua produzione. Tant’è che affidarsi alle macchine comporta un più che dimezzamento della spesa, tenuto conto che i macchinari possono abbassare i costi della raccolta da 15 a 4 scellini al chilo (circa 9 a 2 centesimi di euro). Un investimento più ‘alto’ è ritenuto invece necessario solo nel caso dei prodotti più pregiati, ricavati dalla lavorazione delle foglie più piccole e giovani, che unicamente l’occhio attento di una persona in carne ossa è in grado di individuare.

Tuttavia in Kenya non tutti si sono dichiarati contrari all’automazione. Tabitha Njuguna, amministratrice delegata di AFEX, società che compra e vende valute, ha detto che «è necessario adottare nuove tecnologie per liberare il potenziale dell’agricoltura in tutta l’Africa» e che quindi dovrebbero essere accolte come una cosa positiva, «nonostante la frustrazione di alcuni lavoratori».

Quella dell’automazione è una questione piuttosto divisiva, che in realtà sta riguardando tutto il mondo. Desiderosi di aumentare le vendite e sollevare i lavoratori da compiti banali (o semplicemente sollevare i lavoratori), anche rivenditori e supermercati stanno aggiungendo robot ai corridoi dei loro negozi e dei loro magazzini. Grosse società e multinazionali stanno implementando in maniera progressiva il personale robot, come la statunitense Walmart (proprietaria dell’omonima catena di negozi), che ha presentato un proprio centro completamente automatizzato in Florida, a Brooksville: 130.000 metri quadri di carrelli elevatori che scaricano i pallet dal retro di dozzine di rimorchi di trattori; prodotti in scatola e per la pulizia sfrecciano sui nastri trasportatori; la merce ordinata in base al reparto e al corridoio del negozio, prima di essere impilata con estrema precisione. Il tutto avviene senza personale umano ma solamente con l’utilizzo di robot e veicoli che si guidano da soli.

Il progetto del gigante Walmart è quello automatizzare ognuno dei 42 centri di distribuzione regionale. Ma non è solo Walmart a spingere verso questa direzione. Anche Amazon ne è pioniera nei propri magazzini ed è probabile che l’ondata non si arresti: d’altronde l’efficientazione della logistica porterebbe ad un risparmio che nei soli Stati Uniti ammonterebbe per i privati intorno agli 82 miliardi di dollari.

[di Gloria Ferrari]

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