mercoledì 1 Maggio 2024

La battaglia per il patrimonio ecclesiastico: la dimensione religiosa del conflitto in Ucraina

Ore tese per il conflitto russo-ucraino. Durante le agitazioni di Prigožin e gli ininterrotti attacchi sulle regioni di Donetsk e Lugansk, su uno dei tanti fronti invisibili di questa guerra continua ad infuriare la battaglia tra la Chiesa Ortodossa Canonica e quella Autocefala.

L’intelligence russa ha denunciato un accordo tra il governo ucraino e UNESCO per la traslazione dei valori della Kiev-Pechersk Lavra in Occidente. Secondo la SVR infatti, le autorità ucraine hanno già cominciato un inventario delle icone e delle reliquie sacre, da trasportare in Europa grazie all’intermediazione di ONG come la svizzera ALIPH, alleanza internazionale che si propone di mettere in salvo il patrimonio culturale proveniente da zone di conflitto. Che il presidente dell’associazione sia T. Kaplan, collezionista privato americano, desta non poche preoccupazioni sulla meta finale delle icone sacre una volta uscite dalla Lavra: “Purtroppo tutto sarà portato via e venduto. Poco male se viene venduto, e non distrutto” commenta R. Silant’ev, membro del consiglio russo di esperti per la conduzione della perizia statale sugli oggetti religiosi. “Tutti sperano nell’interesse personale di queste persone e nel loro desiderio di fare soldi. Solo questo ci darà la possibilità di restituirli ai santuari: [ricomprandoli] come successe con i bolscevichi”. Anche la Zacharova ha commentato l’indiscrezione, parlando di una vera e propria “evacuazione” messa in atto dalla politica di Zelenskij, atta solo a “distruggere le basi tradizionali della società ucraina e minare i legami spirituali secolari condivisi dai nostri popoli”.

Illazioni propagandistiche? Se da parte ucraina non ci sono state conferme o smentite, è fatto che il patrimonio della chiesa di Kiev faccia gola all’Occidente da diverso tempo. E a dirla tutta, l’indiscrezione è già in parte realtà: per intercessione dell’ALIPH, che leggiamo avrebbe speso “milioni di dollari per aiutare a salvare il patrimonio artistico ucraino”, il 14 giugno sono state trasportate in gran segreto 16 opere dal Museo Bohdan di Kiev al Louvre.

La lotta per il controllo dei beni ecclesiastici dal Comunismo ad oggi

Salvataggio o esproprio che sia, assistiamo all’ennesimo scontro da inquadrare nella crisi dell’Ortodossia slava, crisi che infiamma dai tempi della costituzione dello Stato ucraino dopo la caduta dell’Unione Sovietica e sembra ancora non trovare risoluzione. Ne abbiamo parlato con il Protorej Aleksandr, arciprete della diocesi di Lugansk e delegato dei rapporti tra Chiesa e Stato. Padre Aleksandr opera nel Santuario in onore dell’Icona della Madre di Dio di Lugansk, bersaglio dei colpi di artiglieria ucraini all’inizio della guerra in Donbass nel 2014. “Quello che è successo in Ucraina è un precedente molto pesante, un’interferenza [dello Stato] negli affari della Chiesa. È come durante il periodo della persecuzione sovietica dopo la Rivoluzione d’Ottobre, quando lo Stato diceva che non facevamo parte della loro visione del mondo, della loro ideologia bolscevica.” Già con Lenin prendeva piede la convinzione che i beni detenuti dalla Chiesa fossero in realtà ricchezze detratte al popolo, il quale, attraverso i tribunali rivoluzionari, doveva riappropriarsi di ciò che è suo e processare i responsabili. Un furore ideologico manipolatorio, veicolato da una propaganda impegnata nel creare lo stereotipo del sacerdote corrotto, che ha portato a decenni di processi, omicidi, sottrazione di beni preziosi, oltre che alla creazione del “movimento degli innovatori”, movimento interno della chiesa Ortodossa, progressista e filocomunista, il quale, nello svolgersi degli anni della rivoluzione sovietica, lavorò ai fianchi per creare uno scisma all’interno del mondo ortodosso slave. Su basi, inutile a dirsi, di motivazioni squisitamente politiche. 

A quanto pare la secolarizzazione dei beni, la persecuzione del personale ecclesiastico e la rottura della comunione di Fede non rappresentano tra le popolazioni slave solo dei torbidi ricordi del passato. “Non si sono inventati nulla, hanno solo preso ciò che c’era di brutto del periodo sovietico, del periodo in cui venivano attuate le persecuzioni verso la Chiesa e le hanno solo riattualizzate. Capite, è chiaro che queste persone ci ritengono nemici. E come vanno trattati i nemici? Bisogna espropriargli le chiese, picchiarli, ucciderli, metterli in galera, esattamente come quando nel periodo sovietico esistevano i nemici del popolo”.

Le tappe dello Scisma

[Kiev – Monastero delle Grotte.]
Il contesto che porta le istituzioni ecclesiastiche ucraine alla situazione attuale è uno scenario arzigogolato di continui tentativi di organizzazione della società: una nascita indotta e assistita di una Nazione, la quale, dopo il crollo dell’Unione Sovietica, si ritrova a fare i conti con la propria frammentazione etnica e sociale. Come ampiamente analizzato nei saggi del professore di diritto ecclesiastico Giovanni Cimbalo, al momento della crisi dell’URSS l’Ucraina presenta diverse entità territoriali, alle quali corrispondono in sostanza due chiese: quella greco-cattolica (UGCC) e la Chiesa Ortodossa Ucraina, facente capo al Patriarcato di Mosca (UPC-MP). Dal sinodo del 1990 quest’ultima trova la sua costituzione attuale, con il riconoscimento di chiesa auto-governata: uno status che lascia alla Chiesa ucraina ampia autonomia, riconosciuta da Mosca proprio in previsione di una maggiore necessità di indipendenza dello Stato ucraino, in effetti venuta in essere dopo la caduta del blocco sovietico. Ciononostante, a causa di dissensi interni nella gestione delle gerarchie, si creano fratture nell’istituzione: da un lato Filaret, con la Chiesa Ortodossa Ucraina- Patriarcato di Kiev, dall’altro la UAOC, Chiesa Ortodossa Autocefala Ucraina, formatasi intorno alla figura del suo Metropolita Mystislav, tornato dopo decenni dagli Stati Uniti. Non a caso, il bacino di utenza di quest’ultima è costituito dall’enorme diaspora ucraina nel mondo, le cui presenze si contano in maggior numero in America, Italia, Australia e Romania.

Gli anni ‘90 rappresentano un susseguirsi di disposizioni in cui il limite tra Stato, spinta nazionalista e credo religioso diventa sempre più labile. “Per capire l’essenza della questione, di questa distruzione odierna, bisogna andare indietro nel tempo. Già durante la Perestrojka, apparve questo movimento, un’organizzazione nazionalista chiamata Rukh. Arrivò il momento in cui presero il potere, e formularono questa ideologia in modo chiaro e coerente: noi siamo l’Ucraina non la Russia.” Per Padre Aleksandr lo sviluppo del nazionalismo ucraino e la frattura religiosa sono processi che camminano su binari paralleli. In questo contesto la ricerca di Autocefalia rappresentava la necessità di fornire un sostegno religioso, importantissima incubatrice dei valori slavi, alle scelte politiche: la Chiesa passa progressivamente al servizio dello Stato, in uno scambio reciproco di legittimazione, potere e, soprattutto, di sostegno economico. Uno scenario che stride con la natura stessa, universale e sovranazionale, della chiesa Ortodossa (da qui la denominazione del Patriarcato di Mosca e di tutte le Russie): “Chiunque può creare un dissenso religioso, ma questo non sarà né canonico, né ecclesiastico, né rispettoso del nostro ordine costruito in mille anni. Perché per loro è importante avere la Lavra? Perché la Lavra rappresenta un posto sacro che appartiene all’intero mondo russo, al popolo della Rus’. A questo mondo appartengono gli ucraini, i bielorussi, i russi e tutti questi sono ortodossi. Tutto questo serve per riformulare il concetto di chiesa canonica in un progetto politico, che dia una giustificazione alla formulazione dell’idea di Ucraina.” 

Il ruolo della diaspora e il processo di europeizzazione

Lo scenario ucraino prebellico risulta essere diviso sul piano politico e spirituale: se da un lato l’Ucraina punta all’integrazione europea, dall’altro non vuole (o riesce) a liberarsi dell’ingombrante presenza del fratello russo. Gli anni di livellamento del regime sovietico non lasciano margine di compromesso, specie se affiancati a una narrazione storica sempre più improntata su un nazionalismo forzato, che trascura i benefici delle relazioni economiche con la Russia e trascina così l’Ucraina nella posizione di Stato-cuscinetto. Questa instabilità gioca a favore dell’Europa, che vede ingrossare le fila degli ucraini costretti dall’impoverimento all’emigrazione verso Ovest, impoverimento esacerbato dal progressivo smantellamento del primo concorrente dell’Europa in tema di industrie e giacimenti: il Donbass. Ecco che il ruolo di una Chiesa Autocefala, con un potere già radicato nella diaspora, diventa fondamentale nell’estremizzazione del nuovo “uomo ucraino”: manodopera a basso costo a disposizione dell’Occidente, il nuovo Eldorado in cui si riscoprono addirittura le (astoriche) origini ariane della Rus’.

La posizione delle chiese scismatiche nello scenario post-Maidan si concretizza in costanti incitazioni all’odio e sostegno alla guerra, tanto da far guadagnare a Filaret il soprannome di černij patriarch, il “patriarca nero” che arriva a negare l’esistenza della presenza russofona in Donbass, sostenendo de facto la guerra civile e la pulizia etnica scatenata dal 2014 nella regione. “Non abbiamo mai chiesto di essere Russia, al contrario, volevamo vivere in pace e armonia come russi, fuori dalla Russia, su territorio ucraino, proprio come durante l’Unione Sovietica” afferma Padre Aleksandr. La soluzione sovranazionale panortodossa non ha però più ragion d’essere: il credente russo che fa capo a Mosca è un collaborazionista. “[*L’Ortodossia panslava] può assomigliare a una specie di diritto internazionale, per il quale nella Costituzione dell’Ucraina e della Russia viene assicurata la mia libertà religiosa personale. Nessuno può impormi qualsivoglia paradigmi o idee con l’aiuto di meccanismi o strumenti statali. Ma se in tutti i canali ucraini dicono che gli appartenenti alla chiesa canonica ortodossa ucraina sono spie di Mosca, perché il nostro Patriarca [*che è russo] è il capo della nostra Chiesa, questo è decisamente un tipo di sistema di persecuzione.”

Di religioso, a questo scontro non rimane ormai più nulla: a partire dal 2016, Porošenko intraprende una serie di tentativi per ottenere il Tomos di Autocefalia per le chiese scismatiche ucraine. Tentativi che culmineranno nel 2018, anno in cui le chiese ricevono l’appoggio del Patriarcato di Costantinopoli e si uniscono sotto la denominazione di Chiesa Ortodossa dell’Ucraina (PCU)

Il ruolo della chiesa scismatica nell’“operazione militare speciale”

Da febbraio 2022 la questione religiosa è diventata una delle protagoniste fondamentali dello scenario bellico. Il rapporto di legittimazione reciproco tra Chiesa Autocefala e il governo di Zelenskij ha portato a un susseguirsi di eventi violenti nei confronti della comunità ortodossa canonica: dalla sospensione dei contratti di affitto dei luoghi di culto, allo sfratto dei monaci dal Monastero delle Grotte fino ad arrivare all’arresto del Metropolita Pavel. I canali di informazione sono aggiornati quotidianamente con testimonianze di costanti provocazioni, violenze psicologiche e fisiche da parte di fedeli pieni di livore della nuova Chiesa Autocefala (a parere del Protorej Aleksandr “spesso neanche credenti o pagani”) nei confronti del personale ecclesiastico e dei confratelli di fede rimasti legati alla Chiesa Canonica.

“Il popolo dei fedeli è stato volutamente diviso e questa narrazione politica divisiva poco si adatta alle leggi dogmatiche ortodosse”, così ci spiega Padre Aleksandr. “Il potere e il suo operato tende a sacralizzare se stesso (…) Così è tutto giustificabile. E come si rende giustificabile l’ingiustificabile? Basta piazzare le proprie persone, che dettano le proprie regole”. In queste nuove regole culmina il processo di unificazione del potere religioso e quello dello Stato: così si arriva, ad esempio, a consacrare un’icona raffigurante Bandera e Shukhevych, o a portare in regalo al Papa un’icona con Gesù oscurato e una Madonna in tenuta anti proiettile. E se l’iconoclastia non fosse abbastanza per solcare la falda con il mondo ortodosso russo, l’Ucraina accelera il processo adottando il calendario giuliano rivisitato, un “neo-gregoriano” in cui le festività si allineano con quelle occidentali: il Natale verrà celebrato il 25 dicembre, con conseguente cambiamento della data di Pasqua.

Secondo le affermazioni di padre Aleksandr “non c’è nazionalità tra gli ortodossi. Nella Chiesa non è importante quale nazionalità tu abbia, importante è solo il tuo percorso verso Cristo. È importante capire il tuo percorso interno, il tuo miglioramento, il tuo saper servire Dio e le persone”. La storia sembra però aver scritto un percorso diverso per il credo ucraino, indissolubilmente legato dagli eventi al suo progetto politico. Un progetto, è proprio il caso di dirlo, davvero poco ortodosso.

[di Rossella Maraffino]

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