venerdì 26 Aprile 2024

L’Italia è tornata una terra di emigranti

Era il 30 giugno 1966 quando Telemondo, una delle prime televisioni libere del nostro Paese, raccolse le testimonianze di decine di lavoratori italiani che ogni mattina attraversavano la frontiera con la Svizzera per affrontare una lunga giornata di lavoro, tra razzismo e alienazione. In quegli anni erano circa 17 mila i frontalieri che entravano nello Stato elvetico all’alba e tornavano in Italia al tramonto. La voce narrante di Telemondo tracciava il quadro alienante e schematico che contornava la loro vita, inserita in una routine quotidiana fatta di lavori usuranti, pasti frugali e controlli alle dogane: «tutti gesti che ormai facevano automaticamente quando arrivavano faccia a faccia con l’uomo della frontiera. Erano così abituati a vedersi che quasi non si conoscevano. Sembravano eternamente distratti, pieni di sonno o di stanchezza». Tra le varie testimonianze colpisce quella di una signora di 63 anni che, per fare la domestica a Lugano, si sveglia alle 5 del mattino. Così, dopo due ore di viaggio per arrivare nella città elvetica, inizia la sua giornata lavorativa lunga dieci ore con annesso ritorno a casa alle 7 e un quarto di sera. Un’altra intervista, questa volta a un uomo meridionale sulla quarantina, scoperchia il vaso di Pandora: la freddezza e gli insulti razziali verso i lavoratori italiani. Alla domanda: «Si sente mai a disagio?», l’uomo risponde di no, ma poi continua con «Si pensa sempre ai familiari lontani, si aspetta sempre Natale, Ferragosto…». La potenza evocativa del “sempre” è forte e non lascia spazio a dubbi interpretativi: si lavora e nel frattempo si aspettano i pochi giorni di festa per riprendere a star bene. Una vita di sacrifici e sopravvivenza, carica non d’affetto verso il Paese ospitante ma di rancore, dal momento che in Svizzera si doveva guadagnare il pane ma si sarebbe stati meglio in Italia. Un rancore represso e spezzo razionalizzato nello scandalo di fronte al progresso, fenomeno assai diffuso negli anni ’60 tra la classe adulta italiana, come testimonia il documentario Comizi d’amore di Pier Paolo Pasolini.

Ma l’America è lontana

[Immigranti italiani all’arrivo ad Ellys Island, New York – 1900]
Ad affrontare una vita difficile non sono stati soltanto gli emigranti italiani in Europa, ma anche coloro che hanno tentato la fortuna Oltreoceano, sulle rotte del sogno americano. Dal 1820 al 1939, anno dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale, gli italiani che emigrarono negli Stati Uniti furono oltre 5 milioni, in cerca di “fortuna”, quindi qualcosa in più di un semplice lavoro migliore. Negli anni in cui stava concludendo il suo processo di unificazione, l’arretrato Regno d’Italia si ritrovò soffocato dai debiti contratti e pertanto decise di ridurre la spesa pubblica, aumentando le tasse. Emblematica fu nel 1868 la tassa sul macinato, prontamente soprannominata “tassa della fame” perché provocò un forte incremento del prezzo del pane e dei derivati del grano. La sovrappopolazione, la povertà, la mancanza di prospettive e le promesse degli “agenti di emigrazione” furono fattori determinanti per l’abbandono del Regno. Dal 1906 al 1915 la Basilicata perse quasi il 40% della sua popolazione a causa dell’emigrazione, per l’iniziale felicità del governo che vedeva le persone più “povere e pericolose” abbandonare il Paese. Soltanto in seguito le istituzioni compresero che anche i lavoratori specializzati e le “menti brillanti” stavano lasciando il Regno d’Italia, in cerca di una vita migliore e di salari più alti. Di fronte a una commissione del Congresso degli Stati Uniti, un politico calabrese affermò che l’emigrazione dal Sud fosse andata troppo oltre e che si sentisse dispiaciuto per la scoperta dell’America da parte di Cristoforo Colombo.

Nella maggior parte dei casi, gli emigranti italiani sono finiti per essere manodopera a basso costo dei medi e grandi industriali americani, andando a riempire un vuoto lasciato dai lavoratori locali, non più disposti a svolgere mansioni umili e spesso pericolose. Al posto delle migliori condizioni, gli italiani sono andati incontro a emarginazione e razzismo, complici anche le idee di un connazionale: il medico veronese Cesare Lombroso, sostenitore convinto della teoria del “criminale nato”. Durante i suoi studi, egli misurò la testa e varie parti del corpo di migliaia di connazionali, in particolare meridionali, stilando una descrizione tipo: grandi di corporatura, scuri, pelosi e con naso e orecchie bassi. Il medico li paragonò prima ai primati inferiori e poi affermò che avessero maggiori probabilità di commettere crimini violenti quando arrivavano negli Stati Uniti rispetto agli immigrati provenienti da Germania, Norvegia, Austria, Svezia, Inghilterra e ogni altro Paese europeo. L’opinione pubblica, convinta dalle idee di Lombroso, bollò gli italiani (con un certo accanimento verso i meridionali) come selvaggi e stupratori, incolpandoli del crimine che era in aumento negli Stati Uniti. La Commissione per l’immigrazione concluse nel famigerato rapporto Dillingham del 1911: “Alcuni tipi di criminalità sono inerenti alla razza italiana. Nell’immaginario collettivo, i crimini di violenza personale, rapina, ricatto ed estorsione sono peculiari del popolo italiano”. Seguì l’Immigration Act del 1924, legge che impedì alla maggior parte degli italiani di entrare nel Paese, causando un calo dell’immigrazione dall’Italia del 90%. In quegli stessi anni, a peggiorare lo status di coloro che provenivano dalla penisola fu – in un’operazione di grossolana generalizzazione, stigma tipico del fenomeno migratorio – la nascita di Cosa nostra statunitense nei quartieri poveri popolati prevalentemente da italiani, come nella Lower East Side di New York.

La migrazione italiana e l’eccezione argentina

[Una vignetta di Louis Dalrymple comparsa sulla rivista Judge che rappresenta gli immigrati italiani come ratti mafiosi, socialisti, anarchici ed assassini – 1903]
La storia dell’emigrazione italiana tra il XIX e il XX secolo riserva, tuttavia, diversi casi di eccezionalità. Il più noto è quello argentino. Dalla metà dell’Ottocento a oggi, il Paese sudamericano ha accolto oltre 3 milioni di italiani, formando nel tempo la più consistente collettività italiana al di fuori della penisola. Attualmente, sono quasi un milione i cittadini iscritti all’Anagrafe degli Italiani Residenti all’Estero (AIRE), a cui si aggiunge un elevato numero di oriundi, circa 20 milioni (più della metà della popolazione totale). A differenza dell’accoglienza riservata nell’America del Nord, gli italiani godettero in Argentina del cosiddetto “pregiudizio positivo”. Per la trasformazione industriale del Paese, considerato fino a quel momento il granaio del mondo, erano necessarie braccia e menti e per questo motivo il governo favorì l’immigrazione.

Nella Costituzione argentina del 1853 all’articolo 25 si legge: “Il governo federale incoraggerà l’immigrazione europea; non potrà restringere, limitare o gravare con alcuna imposta l’ingresso nel territorio argentino degli stranieri che abbiano per oggetto coltivare la terra, migliorare le industrie, introdurre e insegnare le scienze e le arti”. Diversi furono gli emigranti che misero in moto le doti imprenditoriali, diventando protagonisti nella fondazione di nuove città. Si pensi a Colonia Caroya, nella Provincia di Córdoba, che con le sue feste tipiche diviene ogni anno la capitale del “Friuli nel mondo” o alla provincia di Río Negro e precisamente a Villa Regina, dove gli emigranti italiani trasformarono il deserto in frutteti, vigneti, piantagioni di foraggi, granturco e ortaggi. Fu proprio grazie alla loro capacità di operare nel settore agricolo in condizioni proibitive che gli italiani riuscirono a trasformare le terre loro affidate rendendole fertili. Furono in grado di migliorare le tecniche di coltivazione e di aumentare la base produttiva dei terreni. Nel 1895, su un totale di 407.503 proprietari agricoli più di un quarto erano di nazionalità straniera e tra i poderi gestiti dagli immigrati più della metà (62.975) avevano un titolare italiano.

Diversi, infine, i contributi alle arti, all’industria e allo sport. A Buenos Aires, il 3 aprile 1905, un gruppo di adolescenti di origine italiana si riunì per dar vita a una squadra di calcio: scartato il nome Hijos de Italia, venne scelto Boca Juniors, attualmente uno dei club più titolati al mondo e l’unico a non essere mai retrocesso dalla prima divisione argentina. Il quartiere Boca era considerato una sorta di piccola Genova, popolato da emigranti italiani in maggioranza liguri. Ancora oggi, nelle sue strade è possibile mangiare focaccia genovese e farinata, con i tifosi che vengono chiamati anche “Xeneize”, che significa appunto “genovese” nel dialetto ligure. Nonostante i vari risultati positivi conseguiti dagli italiani in Argentina, non mancarono gli aspetti di accentuata durezza: dalla fatica fisica per la coltivazione dei terreni (nonostante le migliori tecniche apportate) alla vita in abitazioni improvvisate, soprattutto nei primi anni successivi all’arrivo, passando per il rapporto talvolta conflittuale con la popolazione locale e per gli scarsi ricavi a seguito della concorrenza dei prodotti provenienti dal Canada, dall’Australia e dalla Russia.

Non è un Paese per giovani

Il fenomeno migratorio, durante la seconda metà del secolo scorso, ha visto mutare le proprie direttrici e così l’Europa è passata dall’essere continente di fuga a terra promessa per milioni di persone. Ad ogni modo, l’abbandono del proprio Paese da parte dei cittadini europei non si è arrestato, aumentando invece in modo costante nel corso del decennio scorso. L’Italia, in particolare, si ritrova a fronteggiare un saldo negativo tra i cittadini che lasciano il Paese e quelli che vi ritornano. «A partire sono principalmente i giovani – e tra essi giovani con alto livello di formazione – per motivi di studio e di lavoro. Spesso non fanno ritorno, con conseguenze rilevanti sulla composizione sociale e culturale della nostra popolazione», ha dichiarato il presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Tra il 2012 e il 2019 gli italiani che hanno spostato la residenza dall’Italia all’estero sono costantemente aumentati, rimanendo stabili anche nel 2020. Nell’anno della pandemia da Covid-19 furono in 121 mila a spostare la residenza all’estero, quasi il doppio dei 68 mila registrati nel 2012. Secondo l’AIRE, il numero degli espatriati italiani che hanno deciso di vivere all’estero è in costante aumento, tanto da passare dai 5,2 milioni del 2018 ai 5,8 del 2021. Tra questi, 1,2 milioni (21%) hanno un’età compresa tra i 18 e i 34 anni. Attualmente, gli expat italiani sono circa 600 mila in più rispetto agli stranieri che risiedono regolarmente in Italia, con il saldo che si riduce di anno in anno: nel 2019 gli stranieri che hanno preso residenza in Italia sono stati 333 mila, a fronte di 180 mila cancellazioni (+153 mila). Nel 2020, sono diminuite sia le iscrizioni sia gli abbandoni, fermi rispettivamente a quota 247 ila e 160 mila, salvo poi risalire nel 2021, che ha chiuso con un saldo positivo di 157 mila nuove residenze.

«Nostalgia canaglia di un Paese che sogna e che sbaglia», cantavano Al Bano e Romina nel 1987. 33 anni dopo, a fronte di 121 mila expat, si sono registrati 56 mila italiani rimpatriati, con un saldo negativo di circa 65 mila persone, in aumento rispetto al 2019, quando la differenza tra entrate ed uscite è stata pari a 54 mila. Tanti, troppi i fattori che, battendo anche le motivazioni affettive (prime tra le ragioni del ritorno a casa), spingono all’abbondono dell’Italia, l’unico Paese europeo in cui i salari sono diminuiti (-2,9%) rispetto al 1990. Nello stesso periodo, in Svezia si è registrato un incremento del 63%, mentre in Norvegia e Finlandia rispettivamente del 39% e del 32%. Anche nei Paesi mediterranei come Francia e Spagna i salari sono aumentati: +31% per Parigi e +6% per Madrid.

D’altro canto, in Italia, è cresciuto il malessere dei lavoratori. Secondo una ricerca di Bain & Company sulle generazioni under 35, i giovani lavoratori italiani sono tra i più stressati al mondo, al terzo posto dopo quelli del Giappone e del Brasile. Il 64% degli intervistati ha affermato di sentirsi sopraffatto o sotto pressione a lavoro a causa di diversi fattori: dai carichi non sostenibili alla sensazione di dover essere sempre disponibili, passando per ambienti organizzativi tossici. Vi si aggiunge poi la mancanza di gratificazione personale, soprattutto con i nuovi lavori digitali. Diverse sono, ad esempio, le esperienze di social media manager costretti a ricoprire anche il ruolo di content creator, SEO specialist, responsabile della comunicazione interna, traduttore e copywriter «perché in Italia una sola persona deve svolgere 6 ruoli diversi», a fronte di uno stipendio non proporzionale. A tutto ciò si aggiunge l’essere sminuiti, soprattutto dalle generazioni adulte, perché «cosa sarà mai gestire un profilo Instagram».

Generalmente, durante il primo lungo viaggio lontani da casa, le persone capiscono dove voler mettere radici, se nel proprio Paese o all’estero. L’estraniazione come via per conoscersi e pesare sulla bilancia affetti e opportunità per realizzarsi. È per questo motivo che ai giovani – e non solo – veniva consigliato un periodo di “pausa” per viaggiare dopo la conclusione degli studi: il cosiddetto anno sabbatico, fenomeno negli anni caduto in disuso e diventato un taboo, quasi una blasfemia nell’era della competizione e della velocità che sprona a concludere quanto prima la propria formazione per non subire penalizzazioni nel mondo del lavoro. È questo a cui pensano, o sono indotte a pensare, le nuove generazioni: correre per non restare indietro, terminando il percorso di studi nei tempi prestabiliti ma con evidenti lacune e senza il piacere della conoscenza perché consumati dalla fretta. Ciò genera frustrazione e, indirettamente, odio verso l’ambiente circostante, da cui ci si allontana per abbandonare rabbia e amarezza. A partire con loro sono anche le possibilità di cambiamento per l’Italia, un Paese che potrebbe vivere di successi ma si limita a sopravvivere tra i fallimenti. La missione di trasformare quello che ne La meglio gioventù viene definito un posto bello ma inutile finisce sulle spalle di chi resta e di chi torna, rapiti evidentemente dai moti della passione. Un compito difficile, in un Paese storicamente avverso al cambiamento, ma necessario per fermare l’abbandono spinto non dalla volontà ma dalla necessità, che si palesa a livello regionale, nazionale e internazionale. Un discorso di fatto estendibile al mondo intero e per il momento proprio in modo esclusivo degli Stati ideali, dove la migrazione è un fenomeno non più legato al lavoro, alla povertà e alla guerra bensì al desiderio umano di conoscenza.

[di Salvatore Toscano]

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