giovedì 25 Aprile 2024

C’era una volta uno stato di nome Iraq

Lo scorso mercoledì centinaia di manifestanti, per lo più supporter del leader politico sciita Muqtada al-Sadr, hanno preso d’assalto la sede del parlamento iracheno. Nessun legislatore era presente quando i manifestanti sono penetrati nella fortificata green zone della capitale Baghdad, sede di edifici governativi e missioni diplomatiche, e le forze di sicurezza presenti sono riuscite a gestire la situazione senza ricorrere alla forza. I manifestanti, oltre a protestare contro la corruzione endemica presente in Iraq, condannavano anche la scelta da parte delle forze politiche rivali di candidare Mohammed Shia al-Sudani per la carica di primo ministro.

 

Al-Sudani, ex ministro ed ex governatore provinciale sarebbe, secondo i manifestanti,  una figura politica troppo vicina all’Iran e quindi inadatta per la carica di primo ministro. In Iraq è in corso una crisi politica nata dal fatto che il Paese è senza un premier dall’ottobre del 2021, quando si sono tenute le ultime elezioni parlamentari. La crisi si è accentuata nelle ultime settimane: a giugno l’alleanza politica facente capo ad al-Sadr, che aveva ottenuto alle ultime elezioni 74 seggi sui 329 disponibili, si è dimessa in massa. Al-Sadr vorrebbe infatti formare un governo di coalizione nazionale, utilizzando i voti di curdi e sunniti, soluzione che non piace ad un altra delle principali forze politiche del paese, la Shia Coordination Framework, guidata dall’ex primo ministro Nouri al-Maliki.

Districarsi tra i vari interessi, intrecci e alleanze che compongono la vita politica dell’Iraq è compito difficile. La triste realtà è che l’Iraq sta ancora facendo i conti con le conseguenze dell’invasione americana del 2003. Nei vent’anni che sono passati gli iracheni, pagando un prezzo altissimo in termini di vite umane, hanno dovuto affrontare un’invasione militare, il terrorismo dello Stato Islamico, violenze settarie e una guerra civile che sembra non finire mai. L’Iraq è un paese estremamente frammentato, con divisioni sia etniche che religiose andate esacerbandosi per via dell’instabilità in cui è piombato il Paese negli ultimi anni. La principale causa di tensione è quella di natura religiosa che divide sciiti e sunniti. Durante la dittatura di Saddam Hussein, dal 1979 al 2003, i sunniti – che rappresentano circa il 35% delle popolazione – sono riusciti a mantenere le principali posizioni di potere, mentre a seguito della rimozione del dittatore le posizioni di potere sono state occupate quasi esclusivamente dai politici sciiti – il restante 65% della popolazione.

Lo scenario politico odierno è caratterizzato dalla lotta tra le formazioni politiche sunnite, sciite e quelle dei curdi nella regione semi-autonoma del nord. Lotte che hanno spesso anche un carattere interno e che vedono affrontarsi partiti politici della stessa setta religiosa: ne è un esempio il contrasto tra le fazioni sciite di al-Sadr e di Shia Coordination Framework. Tensioni simili esistono anche tra le altre formazioni politiche, come i contrasti in seno ai curdi del Partito Democratico del Kurdistan (PDK) e quelli del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK). Anche tra i sunniti i contrasti non mancano, in particolare tra forze politiche più moderate e vicine agli Stati Uniti e quelle più radicali vicine ai gruppi fondamentalisti islamici. Numerosi gruppi politici dispongono poi di milizie armate con cui controllare direttamente il territorio per guadagnare potere e influenza. Nell’instabilità dell’Iraq giocano poi un ruolo cruciale anche i fattori esterni e la lotta per l’influenza sopra il Paese che viene combattuta da Stati Uniti, Iran e altre potenze regionali interessate. Con la caduta di Saddam Hussein il vicino e storico rivale Iran è stato in grado di allargare sempre di più la propria influenza sfruttando i legami religiosi con la maggioranza della popolazione sciita. La crescita dell’influenza iraniana in Iraq e di conseguenza nell’intero Medio Oriente è evidentemente un fattore inaccettabile per gli altri Paesi che si contendono il controllo della regione, ovvero Stati Uniti, Israele e Arabia Saudita. A questi, va aggiunta la Turchia, che grazie alla situazione di caos generale porta avanti da mesi una campagna di bombardamenti aerei nella regione autonoma del Kurdistan iracheno per annientare, con la scusa della lotta al terrorismo, i militanti del PKK.

Le lotte per il potere negli anni hanno sicuramente lasciato un chiaro sconfitto: il popolo iracheno. Sono oltre 4,5 milioni i bambini che vivono sotto la soglia di povertà, in un Paese che sta diventando sempre più povero e inquinato e dove corruzione, criminalità e violenze sono all’ordine del giorno. Ancora una volta appare evidente che non basta “solo” la democrazia (esportata a suon di bombe) per aiutare un popolo.

[di Enrico Phelipon]

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