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C’era una volta uno stato di nome Iraq

Lo scorso mercoledì centinaia di manifestanti, per lo più supporter del leader politico sciita Muqtada al-Sadr, hanno preso d’assalto la sede del parlamento iracheno [1]. Nessun legislatore era presente quando i manifestanti sono penetrati nella fortificata green zone della capitale Baghdad, sede di edifici governativi e missioni diplomatiche, e le forze di sicurezza presenti sono riuscite a gestire la situazione senza ricorrere alla forza. I manifestanti, oltre a protestare contro la corruzione endemica presente in Iraq, condannavano anche la scelta da parte delle forze politiche rivali di candidare Mohammed Shia al-Sudani per la carica di primo ministro.

 

Al-Sudani, ex ministro ed ex governatore provinciale sarebbe, secondo i manifestanti,  una figura politica troppo vicina all’Iran e quindi inadatta per la carica di primo ministro. In Iraq è in corso una crisi politica nata dal fatto che il Paese è senza un premier dall’ottobre del 2021, quando si sono tenute le ultime elezioni parlamentari. La crisi si è accentuata nelle ultime settimane: a giugno l’alleanza politica facente capo ad al-Sadr, che aveva ottenuto alle ultime elezioni 74 seggi sui 329 disponibili, si è dimessa in massa. Al-Sadr vorrebbe infatti formare un governo di coalizione nazionale, utilizzando i voti di curdi e sunniti, soluzione che non piace ad un altra delle principali forze politiche del paese, la Shia Coordination Framework, guidata dall’ex primo ministro Nouri al-Maliki.

Districarsi tra i vari interessi, intrecci e alleanze che compongono la vita politica dell’Iraq è compito difficile. La triste realtà è che l’Iraq sta ancora facendo i conti con le conseguenze dell’invasione americana del 2003. Nei vent’anni che sono passati gli iracheni, pagando un prezzo altissimo in termini di vite umane [8], hanno dovuto affrontare un’invasione militare, il terrorismo dello Stato Islamico, violenze settarie e una guerra civile che sembra non finire mai. L’Iraq è un paese estremamente frammentato, con divisioni sia etniche che religiose andate esacerbandosi per via dell’instabilità in cui è piombato il Paese negli ultimi anni. La principale causa di tensione è quella di natura religiosa che divide sciiti e sunniti. Durante la dittatura di Saddam Hussein, dal 1979 al 2003, i sunniti – che rappresentano circa il 35% delle popolazione – sono riusciti a mantenere le principali posizioni di potere, mentre a seguito della rimozione del dittatore le posizioni di potere sono state occupate quasi esclusivamente dai politici sciiti – il restante 65% della popolazione.

Lo scenario politico odierno è caratterizzato dalla lotta tra le formazioni politiche sunnite, sciite e quelle dei curdi nella regione semi-autonoma del nord. Lotte che hanno spesso anche un carattere interno e che vedono affrontarsi partiti politici della stessa setta religiosa: ne è un esempio il contrasto tra le fazioni sciite di al-Sadr e di Shia Coordination Framework. Tensioni simili esistono anche tra le altre formazioni politiche, come i contrasti in seno ai curdi del Partito Democratico del Kurdistan (PDK) e quelli del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK). Anche tra i sunniti i contrasti non mancano, in particolare tra forze politiche più moderate e vicine agli Stati Uniti e quelle più radicali vicine ai gruppi fondamentalisti islamici. Numerosi gruppi politici dispongono poi di milizie armate con cui controllare direttamente il territorio per guadagnare potere e influenza. Nell’instabilità dell’Iraq giocano poi un ruolo cruciale anche i fattori esterni e la lotta per l’influenza sopra il Paese che viene combattuta da Stati Uniti, Iran e altre potenze regionali interessate. Con la caduta di Saddam Hussein il vicino e storico rivale Iran è stato in grado di allargare sempre di più la propria influenza sfruttando i legami religiosi con la maggioranza della popolazione sciita. La crescita dell’influenza iraniana in Iraq e di conseguenza nell’intero Medio Oriente è evidentemente un fattore inaccettabile per gli altri Paesi che si contendono il controllo della regione, ovvero Stati Uniti, Israele e Arabia Saudita. A questi, va aggiunta la Turchia, che grazie alla situazione di caos generale porta avanti da mesi una campagna di bombardamenti aerei [9] nella regione autonoma del Kurdistan iracheno per annientare, con la scusa della lotta al terrorismo, i militanti del PKK.

Le lotte per il potere negli anni hanno sicuramente lasciato un chiaro sconfitto: il popolo iracheno. Sono oltre 4,5 milioni i bambini [15] che vivono sotto la soglia di povertà, in un Paese che sta diventando sempre più povero e inquinato e dove corruzione, criminalità e violenze sono all’ordine del giorno. Ancora una volta appare evidente che non basta “solo” la democrazia (esportata a suon di bombe) per aiutare un popolo.

[di Enrico Phelipon]