martedì 11 Novembre 2025
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Sfidando censura e odio per raccontare Gaza sui social: intervista a Karem “from Haifa” Rohana

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Accento toscano, ma il suo cuore palestinese, Karem Rohana è scampato all’eccidio in corso a Gaza perché la sua famiglia ha avuto la possibilità, e la fortuna, di emigrare. Discendente da una famiglia di Haifa, che con la nascita di Israele ha perso tutto ed è diventata arabo-israeliana, Karem, fin da bambino, vive in Italia. E attraverso il suo profilo Instagram, “Karem From Haifa”, racconta la storia e la causa palestinese e contribuendo a diffondere la verità su quanto accade a Gaza e nei territori occupati sfidando la censura e l’odio dei supporters di Israele, al punto da aver subito anche un brutale pestaggio. L’Indipendente lo ha raggiunto per una intervista.

Leggendo la tua storia, sono rimasta colpita dalla tua doppia cittadinanza per così dire. Tu sei palestinese, ma hai un passaporto israeliano. Cosa si prova a vivere da palestinese in uno stato come quello di Israele? 

I palestinesi che vivono dentro lo Stato di Israele sono meno colpiti da violenze fisiche rispetto agli abitanti di Gaza o della Cisgiordania, (in Cisgiordania ad esempio l’Occupazione passa attraverso la militarizzazione del territorio e una violenza sistematica) ma siamo colpiti da violenze identitarie. Un palestinese che vive in Israele di fatto non può essere palestinese. Non ti puoi dichiarare palestinese, non puoi usare simboli palestinesi. Ci sono tante tradizioni palestinesi che sono state vietate per legge, come la raccolta della za’atar, una spezia che fa parte della nostra tradizione culinaria. Nel 48 Israele ha cancellato l’identità palestinese e continua a farlo tuttora. I palestinesi, inoltre, non hanno gli stessi diritti dei cittadini israeliani: ci sono cittadini di serie a e cittadini di serie b, cioè noi. 

Parlando invece di Gaza e della Cisgiordania; nel quotidiano, nella vita di tutti i giorni, come si manifesta la presenza israeliana? 

Non esiste un aspetto della tua vita in Cisgiordania o a Gaza che non sia controllato da Israele. Checkpoint disseminati lungo tutto il territorio, requisizioni di terre e proprietà che vengono poi assegnate a quelli che si definiscono «Coloni», violenze continue e perfino uccisioni. Ma tutto questo tipo di violenza non puoi neanche denunciarla. Quando dei militari assaltano il tuo villaggio, confiscando e distruggendo tutto quello che possedevi e coltivavi magari da generazioni, tu poi per ottenere giustizia dovresti rivolgerti alla polizia militare. Tribunali cioè che sono fatti di quelle persone che hanno preso di mira il tuo villaggio. E che tipo di giustizia puoi sperare di ottenere? Esistono infatti due tipi di tribunali: i tribunali civili per gli israeliani, e i tribunali militari per i palestinesi. Noi siamo l’unico posto al mondo dove i minori, anche i bambini, vengono giudicati da tribunali militari.

Mi domando come si possa vivere con la consapevolezza di non essere realmente libero, di non avere un tribunale, uno Stato, un corpo di Polizia che ti difenda… anzi, oggi essere palestinese significa vivere con la certezza che tutto ciò che conosci e ami può esserti strappato via da un momento all’altro. Qual è secondo te la cosa più preziosa di cui ti privano?  O la più dolorosa?

Soprattutto ti tolgono il «tempo». Per fare una qualsiasi cosa, dalla più importante alla più banale, ci metti ore, perché gli israeliani controllano i tuoi spostamenti. Ci sono ovunque posti di blocco. Se vieni fermato a un posto di blocco, la polizia può trattenerti per ore. O arrestarti per nessun motivo, oltre al fatto di essere palestinese. Ti pesa anche il dover convivere con l’assenza di qualsiasi punto fermo, di qualsiasi certezza. Non hai la certezza di poter andare a scuola, perché da un momento all’altro quella scuola possono demolirla per «ragioni militari». Tu stesso puoi venire ucciso, una realtà con cui ogni palestinese deve scendere a patti.

Quando si parla di Palestina e di Israele si incomincia partendo dal 7 ottobre, come se fosse una data simbolica che ha fatto da spartiacque nell’immaginario collettivo tra un «prima» e un «dopo». Tu credi sia giusto?

Il 7 ottobre fu il giorno in cui morirono per colpa di Hamas tanti israeliani, ma ci si dimentica che prima, per i palestinesi, ogni giorno poteva essere il 7 ottobre. I palestinesi morivano, ma nessuno ne parlava. Nessuno se ne interessava. Quel tipo di violenza che ha scosso l’opinione pubblica, com’è giusto che sia, era però esercitato nei confronti dei palestinesi tutti i giorni.

Nadav Weimen, il direttore dell’associazione Braeking the Silence, che raccoglie le testimonianze e i racconti di ex soldati dell’IDF che lottano contro l’Occupazione, ha raccontato di un tipo di violenza sistematica. Queste sono le sue parole: «Ogni notte mettevamo in atto un’operazione chiamata “Straw Window”. Essa consisteva in sostanza nell’impossessarsi di una casa privata palestinese e convertirla in un avamposto militare; e come lo facevamo? Assaltando letteralmente la casa nel bel mezzo della notte, trascinando tutti i membri della famiglia giù dai loro letti e confinandoli tutti in una stanza così che non potessero disturbarci. (…) Lo scopo era di far percepire la nostra presenza e di rinnovare nei palestinesi la consapevolezza di chi aveva il loro controllo.» Ecco, io mi domando: come possa una società come quella israeliana, vicina per cultura, tradizioni e filosofia all’Occidente, accettare che questo tipo di violenza e di brutalità coesista al suo interno. Tu cosa ne pensi?

La società israeliana deve ignorare certi suo aspetti, i più violenti e scabrosi, per mantenere viva l’Occupazione. Si tratta di una società che ha accettato una violenza intrinseca strutturale. Per andare avanti devono fingere di non sapere e di non vedere, o al contrario giustificare questa violenza sostenendo che tutto ciò viene fatto in nome della sicurezza. Per garantire e proteggere la «nostra sicurezza», così dicono. Ma di fatto questo tipo di violenza non fa che alimentare estremismi, odio e fenomeni di guerriglia armata; oggi c’è Hamas, ma domani chissà quanti altri ne nasceranno se non si interrompe questa spirale di violenza.

In questi ultimi anni sei stato sempre più presente sui social, fino a costruirti una comunità con migliaia e migliaia di lettori. Come ti è nata l’idea di raccontare la Palestina usando i social?

L’idea mi è nata dall’esigenza che avvertivo di parlare della Palestina, in un momento in cui nel dibattito pubblico e politico non trovava spazio. All’epoca non si poteva parlare di Palestina, era un argomento tabù. Ricordo che quando uscì il report di Amnesty International sull’apartheid palestinese, riconoscendo che quello vissuto dai palestinesi ora in Cisgiordania ora a Gaza era un vero e proprio apartheid, la politica e le istituzioni all’epoca finsero di ignorarlo. O addirittura lo censurarono. Così decisi di crearmi da solo uno spazio dove poter dar voce a tutto questo.

Proprio in questi giorni al centro del dibattito pubblico, soprattutto in Italia, vi è l’uso della parola «genocidio». Lo scrittore israeliano David Grossman ha ammesso che quello portato avanti da Israele a Gaza è un genocidio; della stessa opinione è la storica Anna Foa. Qual è la tua opinione? 

Il termine genocidio presuppone che dietro vi sia una disumanizzazione di certi gruppi etnici e quindi presuppone un’ideologia che va smantellata, perché non è compatibile con i valori umani. Se parliamo di crimini di guerra, possiamo sempre sperare di identificare e punire i colpevoli, in questo caso il governo di Netanyahu, se, invece, riconosci il genocidio, sei costretto ad ammettere che dietro c’è tutta una struttura ideologica che lo porta avanti. In questo caso la disumanizzazione del popolo palestinese.

Dopo l’annuncio di Macron e di Starmer, molti paesi europei e non, stanno discutendo della possibilità di ufficializzare il riconoscimento dello Stato di Palestina. Io, invece, mi chiedo quanto il riconoscimento tardivo della Palestina come Stato possa realmente incidere sulle sorti del popolo palestinese, in un contesto in cui il diritto internazionale, come ci insegna la Storia recente e passata, viene puntualmente calpestato. Secondo te è ancora possibile l’opzione del «due popoli, due Stati?» Oppure tu auspichi e vorresti qualcosa di diverso?

La soluzione dei due Stati a ora non è fattibile. Non è accettata nemmeno da chi la millanta. Di fatto è una narrazione che serve a legittimare la politica portata avanti da Israele, perché nel frattempo (così si giustificano i paesi occidentali) stiamo riconoscendo lo Stato palestinese. E continua a non andare alla radice del problema: uno Stato come quello di Israele basato su una supremazia etnico-religiosa non potrà mai accettare l’esistenza di uno Stato palestinese. La soluzione percorribile per me è uno Stato unico, uno Stato democratico che accolga tutti, israeliani e palestinesi, senza più fare discriminazioni. Una convivenza pacifica tra i due popoli non vuol dire dimenticare ciò che è stato, ma rispettare la terra, il posto, i diritti umani non solo di alcuni ma di tutti.

Ferragosto: domani “bollino rosso” per il caldo in 16 città italiane

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Per Ferragosto, il ministero della Salute ha previsto 16 città italiane con il livello massimo di rischio caldo, indicato come “bollino rosso”: Bologna, Bolzano, Brescia, Firenze, Frosinone, Genova, Latina, Milano, Perugia, Rieti, Roma, Torino, Trieste, Venezia, Verona e Viterbo. Questo livello di rischio riguarda le condizioni meteorologiche pericolose per la salute, non solo per le persone vulnerabili, ma anche per i soggetti sani. Le temperature previste variano tra i 34°C di Milano e i 38°C di Firenze. Si prevede che l’ondata di calore, causata da un anticiclone subtropicale, durerà almeno fino al 17-18 agosto.

Serbia, manifestazioni antigovernative: scontri con polizia e gruppi pro-Vucic

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Ieri, per il secondo giorno di fila, si sono tenute diverse manifestazioni in varie aree della Serbia, che hanno portato a scontri tra la polizia e i dimostranti. Nella capitale Belgrado, i manifestanti si sono radunati vicino alla piazza del parlamento, ma sono stati fermati dalla polizia, che avrebbe usato gas lacrimogeni per disperderli. A Kraljevo, si sono verificati scontri tra manifestanti antigovernativi e sostenitori del presidente Vucic, che la polizia avrebbe provato a sedare separando i gruppi. Scontri anche nella stessa Novi Sad, città da cui è partita la mobilitazione, dove i gruppi pro-Vucic avrebbero lanciato petardi contro quelli antigovernativi.

Ubako-I: la misteriosa società italiana senza soldi che costruisce la Siria del futuro

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Una misteriosa azienda italiana è legata a un progetto plurimiliardario per costruire una cittadella futuristica in un quartiere di Damasco. Si tratta di Ubako-I SRL, che ha firmato un memorandum con il governo siriano per sviluppare il piano Damascus Towers City, dal valore di 2,5 miliardi di euro. Un progetto mastodontico, la “Damasco due” del futuro: 60 torri alte fino a 45 piani, campi sportivi, zone commerciali, alberghi e ventimila appartamenti. Ma a costruirlo sarebbe una Srl con sede in un anonimo palazzo di Milano, un solo dipendente e un fatturato inferiore a quello della tabaccheria sotto casa: appena duecentomila euro. Come è possibile che una realtà del genere abbia vinto l’appalto per costruire la nuova Damasco? Per provare a capirlo ci siamo imbattuti in sedi inesistenti, persone inventate a capo della società e soci dell’azienda dei quali l’unica traccia è la partecipazione a una puntata nel programma tv Sos Tata.

Di Ubako-I non si sa apparentemente niente. Tutto ciò che è noto è che è stata fondata a Milano nel 2022, anno in cui risulta avere fatturato 209.007 euro, con un utile di 3.316 euro in negativo. Nel 2025, il suo capitale sociale è di 16.000 euro, e ha un solo dipendente. L’azienda ha creato profili sulle piattaforme social Instagram e Facebook solo qualche ora dopo l’annuncio del memorandum; accanto a esse, sono comparse analoghe pagine arabe dell’azienda siriana coinvolta con gli stessi nome e logo, e omologa ragione sociale. Se si cerca il nome di Ubako sul motore di ricerca di Google i primi risultati – non viziati dai cookie – corrispondono a una stazione funicolare giapponese. L’azienda, insomma, sembra comparire dal nulla.

Scavando nei meandri del web, però, siamo riusciti a scovare il suo sito. Questo risulta creato nel maggio del 2025, e mostra un’azienda attiva prevalentemente nella produzione di ascensori di lusso e nella fornitura di materiali. Il sito fa due nomi che ci pare di avere già sentito: Giovanni Rossi e Alessia Conti, rispettivamente amministratore delegato e capa operativa. Cercandoli, si trovano, come prevedibile, miriadi di persone diverse; nessuna di loro, però, sembra collegata a Ubako-I. Il sito dell’azienda, tuttavia, rimanda alla pagina Facebook personale di un uomo chiamato Bassam Al Sabea, senza immagine profilo che scrive solo in arabo. Bassam sostiene di essere un costruttore con aziende negli Stati Uniti e in Libano. Ha condiviso il rendering del progetto e, intervistato da un’emittente siriana, viene presentato come il «direttore dell’italiana Ubako». Lo stesso Bassam descrive Ubako-I come «parte di un consolidato gruppo di aziende fondato nel 1892 a Milano, in Italia», il cui «fatturato annuo è stimato in decine di miliardi di euro».

Il momento dell’annuncio del memorandum con il governo siriano (Bassam è l’individuo all’estrema sinistra).

In uno scenario tanto surreale, sono parecchie le cose che non tornano; sembra che lo abbiano notato anche gli utenti siriani dei social, che nei commenti sotto i post di Bassam hanno iniziato a premere sul costruttore, chiedendo spiegazioni. Per diradare la nebbia, abbiamo provato a raggiungere i contatti forniti da sito e piattaforme dell’azienda. Cercando risposte, però, sono solo sbocciate nuove domande: abbiamo chiamato il numero italiano da tre recapiti diversi, ma tutto ciò che abbiamo ottenuto subito dopo esserci presentati è stato un fermo «non sono interessato». Il numero siriano, invece, non ci ha nemmeno risposto, e come esso la mail aziendale. Decisi a trovare risposte, ci siamo diretti di persona presso la sede dell’azienda che però risultava una mera sede di rappresentanza.

Dopo due giorni di ricerca a vuoto, abbiamo optato per l’unica strada rimasta: scaricare la visura camerale della società. Abbiamo scoperto che Ubako-I è di proprietà di due uomini, entrambi nati nel 2002: Fayez Al Sabea, che detiene la quasi totalità delle quote, ed Edoardo Zaccour, che possiede solo l’1% del capitale; di Giovanni Rossi, neanche l’ombra. Il cognome del primo ci ha subito fatto pensare a Bassam; siamo riusciti a trovarlo e abbiamo provato a metterci in contatto con lui, ma per l’ennesima volta non abbiamo ottenuto alcuna risposta. Abbiamo dunque cercato Zaccour, che, nonostante il nome singolare, non sembrava avere lasciato tracce sul web. Siamo però approdati a SOS Tata: l’unico indizio che rimandasse a una persona col suo nominativo era infatti una puntata del noto show televisivo, risalente al 2005. Il bambino della puntata, all’epoca, aveva proprio 3 anni. In un misto di nostalgia e disorientamento, abbiamo guardato l’episodio: il padre del bambino, Mario Zaccour, risultava lavorare in aziende specializzate nella fornitura di ascensori, uno dei settori principali in cui Ubako-I sostiene di operare. Abbiamo deciso di contattarlo.

Mario, finalmente, ci ha fornito qualche chiarimento: Fayez Al Sabea è il figlio di Bassam Al Sabea, arrivato in Italia per studiare ingegneria civile all’università. Mario e Bassam si conoscono da diversi anni, perché hanno collaborato in passato nello sviluppo di alcuni progetti, per cui Mario ha fornito ascensori. All’epoca dell’arrivo di Fayez in Italia, Mario era stato contattato dal suo amico di lunga data per dare una mano al figlio a sistemarsi. Mario ci ha comunicato di non sapere niente né del progetto attivo in Siria, né del coinvolgimento di Edoardo nella costituzione di Ubako-I, che credeva essere registrata con il solo nome di Fayez. Edoardo, secondo la spiegazione fornitaci dal padre, sembrerebbe essere stato utilizzato come secondo prestanome per la creazione della società italiana, così da fornirle una parvenza più “reale”.

I chiarimenti fornitici da Mario rispecchiano in parte una spiegazione fornita da Bassam agli utenti Facebook, arrivata dopo le incessanti richieste: «Il quadro giuridico di Ubako-I è concepito per garantire la flessibilità necessaria per stipulare accordi con aziende e governi al di fuori dell’Unione Europea, come il governo siriano e altri, nel rispetto delle leggi internazionali ed evitando la trappola delle sanzioni economiche imposte a determinati Paesi. Questa struttura giuridica consente al gruppo di assicurarsi ampi mercati di esportazione per i suoi prodotti al di fuori dell’Unione Europea, senza alcun impatto sulla società madre». Secondo le stesse parole di Bassam, insomma, Ubako-I fa parte di un sistema di scatole di rappresentanza fatto apposta per accedere alle offerte di diversi Paesi; se Bassam suggerisce tra le righe che a essere a capo del sistema vi sia la divisione italiana, però, i dati camerali dell’azienda suggeriscono il contrario, ossia che essa sia una delle scatole vuote piuttosto che il vertice della catena.

A confermarlo è arrivato lo stesso Mario: Fayez «non fa niente», ci ha detto. «Tutto ruota attorno a Bassam», che tra l’altro, al contrario di quanto egli sostenga, non avrebbe mai avuto alcun rapporto con aziende o finanziatori italiani; non possiamo verificare questa informazione, ma va sottolineato che cercando il nome di Bassam su internet (tanto traslitterato in diversi modi, quanto scritto in arabo), non si trova nulla che lo colleghi a delle aziende italiane diverse da Ubako-I. Ubako-I, secondo Mario, sarebbe stata costituita per partecipare ai bandi siriani più facilmente accessibili alle aziende estere, specialmente se europee. Nel progetto Damascus Towers City, inoltre, l’azienda costituirebbe un buon “volto” da mostrare al pubblico, essendo essa una ditta straniera di un Paese influente. Lo stesso progetto non è una novità: Damascus Towers City sarebbe stata pensata da Bassam nel 2010, sotto il regime del presidente Bashar al Assad. Pare che Bassam fosse addirittura riuscito a proporlo e ad arrivare a un accordo preliminare; alla fine, però, si risolse tutto in un nulla di fatto.

Nonostante le spiegazioni di Mario L’Indipendente rispecchino in parte quella rilasciata pubblicamente da Bassam, resta da comprendere per quale motivo sia stata coinvolta una società di rappresentanza italiana. Ad alimentare i dubbi è giunto – di nuovo – lo stesso Bassam, con un altro post su Facebook. Il costruttore sostiene di avere «un piano di finanziamento» integrato basato sul mercato finanziario italiano, sulle già citate aziende plurimiliardarie italiane (che Bassam sostiene di rappresentare «da oltre trent’anni») e sul «sostegno della Fondazione Nazionale Italiana Garanzia dell’Export, che fornirà garanzie per prestiti per favorire l’esportazione di prodotti italiani all’estero». Quello alla «Fondazione» è un chiaro riferimento a SACE, gruppo assicurativo-finanziario italiano per il sostegno alle imprese, sotto diretto controllo del Ministero dell’Economia e delle Finanze. Secondo Bassam, insomma, Damascus Towers City avrebbe il sostegno di un’agenzia ministeriale. Abbiamo immediatamente scritto a SACE per chiedere chiarimenti, ma i ritmi estivi degli uffici ministeriali non ci sono stati di aiuto.

Un estratto del rendering del progetto.

A fornire una spiegazione è arrivato, inaspettatamente, Fayez, che ha preferito parlare per iscritto. Le domande principali che gli abbiamo posto erano quattro: che ruolo svolge Ubako-I nel progetto? Di chi parla Bassam quando si riferisce a un presunto «consolidato gruppo di aziende» multimiliardarie risalente al 1892? C’è davvero un accordo con SACE? Chi è Giovanni Rossi? Fayez, dopo giorni passati a spiegarci il progetto, gli ideali delle torri farfalla, e il funzionamento del memorandum (che da quanto ci comunica sarebbe stato siglato con Ubako Siria come appaltatore principale), ci ha parlato del suo “piano di finanziamento”: dopo avere ottenuto il terreno dal governo, Ubako Siria effettuerebbe i lavori iniziali per lo sviluppo della cittadella (a spese proprie), per poi aprire le sottoscrizioni degli appartamenti ai futuri cittadini con acconti compresi tra il 10% e il 15% del valore degli immobili e il resto della cifra rateizzabile in cinque anni.

A quel punto i fondi che proverrebbero da chi ha comprato gli appartamenti verrebbero messi in un conto vincolato congiunto tra l’azienda e il governo siriano, che permetterebbe l’utilizzo dei fondi solo mediante la firma di entrambe le parti; tali fondi, assicura Fayez, verrebbero spesi solo per costruire e per chiedere alle banche l’emissione di lettere di credito verso i possibili fornitori italiani. Tra questi ultimi figurerebbero le solite aziende miliardarie per cui Bassam avrebbe svolto ruoli di «agente esclusivo per la Siria», e con cui intratterrebbe relazioni di stretta amicizia. Passato un anno o costruiti cinque piani di una delle torri, Ubako-I si trasformerebbe in SPA, puntando a raggiungere la soglia valoriale di un miliardo di euro. Le azioni della società verrebbero usate come ulteriore garanzia, e ove fosse necessario, si chiederebbero a SACE ulteriori garanzie. Il ruolo di Ubako-I, invece, appare poco chiaro: nella sostanza, l’azienda farebbe da ponte con le imprese italiane che investono e forniscono materiale.

Il piano descritto da Fayez, che egli, come Bassam, dice essere pronto a venire realizzato «immediatamente», è estremamente generico e controverso, e le risposte alla maggior parte dei nostri dubbi lo sono state allo stesso modo. Le quattro domande principali, tuttavia, inoltrate più volte nell’arco di svariati giorni, sono rimaste inevase: dei presunti rapporti da «agente» di Bassam con le multinazionali italiane e del consorzio 1892, di cui non figura alcuna traccia sul web, non è stato fornito alcun chiarimento esplicito; di accordi vigenti con SACE, neanche (anche se sembra implicito che non ve ne sia nessuno); il ruolo di Ubako-I, invece, viene relegato a quello di procurement hub e di finanziatore sul mercato secondo un non meglio precisato piano per trasformarla in SPA che la coinvolgerebbe dopo almeno un anno, tempistica che non spiega per quale motivo sia stata inclusa nel memorandum. Nei giorni, Fayez non ci ha parlato del suo effettivo ruolo nell’azienda, in che termini egli sia coinvolto e come partecipi effettivamente al progetto, senza chiarire se il suo ruolo sia effettivo o paragonabile a quello di un prestanome. Come se ciò non bastasse, dopo oltre una settimana di ricerche, non abbiamo ancora sentito il nome di Giovanni Rossi.

* Replica di Edoardo Zaccour in merito alle dichiarazioni di Mario Zaccour: in data 17 ottobre, l’avvocato Alessandro Volpi, in qualità di legale di Edoardo Zaccour, su richiesta del suo assistito, ci ha inviato alcune dichiarazioni che pubblichiamo al fine di garantire il diritto di replica:

«Nel mese di Aprile 2022 il Signor Fayez Al Sabea ha costituito a Milano davanti al Notaio Ridella la società Ubaku – I S.r.l. In particolare, il signor Fayez, amico di famiglia del signor Edoardo Zaccour, proponeva a quest’ultimo di partecipare, a titolo di amicizia, nella società Ubaku I S.r.l. con una quota pari all’ 1% del capitale, del valore di euro 160,00 nominali (di cui versati euro 40,00).

La società veniva costituita in quanto il padre del signor Fayez, Bassam, era in procinto di sviluppare un’importante iniziativa immobiliare in Siria della quale la Ubaku – I S.r.l. sarebbe stata la rappresentante in Italia e avrebbe curato gli aspetti relativi all’acquisto di materiale edilizio nonché, una volta terminata la costruzione degli immobili, eventualmente la loro commercializzazione in Italia e nel continente Europeo.

La proposta di entrare in società con Fayez era (ed è) giustificata esclusivamente dallo stretto rapporto di amicizia intrattenuto tra i due ragazzi, senza che da tale rapporto derivino o siano mai derivati vincoli o limitazioni di qualsivoglia titolo o natura in relazione alla gestione del pacchetto azionario citato; Edoardo Zaccour, quindi, mai è stato prestanome di alcuno e gode, come ha sempre goduto, della titolarità delle azioni in piena autonomia.

Ogni affermazione contraria, ed in particolare le affermazioni riportate nel Vostro articolo, apparentemente riferibili al padre del Signor Edoardo Zaccour, Signor Mario Zaccour, in merito alla riferita fittizietà della intestazione delle quote (e quindi al ruolo di prestanome di Edoardo) sono quindi destituite di fondamento».

Estonia, espulso un diplomatico russo

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L’Estonia ha espulso un diplomatico russo per «violazioni delle sanzioni» e «crimini contro lo Stato». A dichiararlo è stato il ministero degli esteri del Paese, ripreso dallo stesso ministro. A venire espulso è quello che viene definito «Primo Segretario dell’ambasciata» russa a Tallinn, dichiarato persona non grata. Secondo quanto comunica il ministro, il diplomatico sarebbe stato coinvolto in «tentativi diretti e attivi di minare l’ordine costituzionale dell’Estonia» e di «interferire negli affari interni» del Paese.

Petriano: la mobilitazione popolare ferma la costruzione della discarica

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La giunta regionale delle Marche ha scongiurato la costruzione di una discarica nel Comune di Petriano, in provincia di Pesaro e Urbino, riconoscendo al luogo interessato dalla sua costruzione il vincolo paesaggistico. La decisione è arrivata dopo una ingente mobilitazione dal basso, che ha coinvolto anche l'ex sindaco di Petriano, il quale, per tutelare il proprio Comune, si era rivolto alla Commissione regionale per la tutela del paesaggio. L'area interessata è quella della frazione di Riceci, sulle colline del Montefeltro. «Uno scudo per il territorio», ha commentato Roberto Malini di Every...

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Le fiamme sul Vesuvio hanno compromesso uno dei principali scrigni di biodiversità italiani

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Dopo giorni di lotta incessante, l’incendio che ha devastato le pendici del Vesuvio è stato finalmente domato grazie all’intervento coordinato di Vigili del Fuoco, Protezione Civile, volontari e, nelle ultime ore decisive, a un temporale pomeridiano che ha aiutato a contenere gli ultimi focolai. Nel picco di maggior intensità, sul posto operavano oltre cento vigili del fuoco, sei Canadair e quattro elicotteri. Restano aperti i lavori di bonifica per mettere in sicurezza le aree bruciate ed evitare pericolosi reinneschi. Le fiamme, divampate nella notte tra il 7 e l’8 agosto nella pineta di Terzigno, si sono propagate velocemente verso Boscotrecase, Trecase e Torre del Greco, alimentate da caldo torrido, siccità e vento, distruggendo oltre 560 ettari di vegetazione, pari a oltre 5 km² del Parco Nazionale del Vesuvio. Stiamo parlando di una superficie che rappresenta il 6% dell’area protetta nazionale, un prezioso ecosistema ricco di specie animali e vegetali compromesso da atti verosimilmente dolosi.

Danni limitati ad agricoltura e abitazioni

Sarebbero andati distrutti circa 3 ettari di vigneti, l’1% delle vigne dell’areale del Lacryma Christi, varietà di uva autoctona del Vesuvio [foto Parco Nazionale del Vesuvio]
Le procure di Nola e Torre Annunziata hanno aperto due inchieste parallele, collaborando per chiarire l’origine del rogo. Al momento non sono state trovate tracce di inneschi artificiali, ma l’ipotesi prevalente resta quella dell’origine dolosa, come nella maggior parte degli incendi boschivi in Italia. Gli investigatori stanno analizzando immagini di videosorveglianza e verificando eventuali ritardi nella gestione delle prime segnalazioni di piccoli roghi già dal 20 luglio. Il caso richiama alla memoria il devastante incendio del 2017, che distrusse più di 20 km² dell’area naturale del vulcano partenopeo. All’epoca tutte le persone indagate furono assolte e non vennero mai individuati i responsabili. In questo caso, nonostante la vastità del fronte di fuoco, quantomeno i danni all’agricoltura sarebbero stati limitati rispetto al rischio iniziale. Sarebbero andati distrutti circa 3 ettari di vigneti, l’1% delle vigne dell’areale del Lacryma Christi, varietà di uva autoctona del Vesuvio. Risparmiato il pomodorino del piennolo del Vesuvio DOP, mentre si segnalano perdite contenute e danni ad altre produzioni tipiche come le albicocche Pellecchiella. La Regione Campania ha promesso in ogni caso sostegni alle aziende agricole colpite. Non ci sono stati danni a case o infrastrutture, grazie al contenimento delle fiamme lontano dai centri abitati. Ad ogni modo, non esiste ancora una stima reale dei danni perché, sebbene l’incendio sia stato quasi del tutto spento, non è ancora stato possibile effettuare ricognizioni complete.

Compromesso un prezioso ecosistema naturale

Il Ministro della Difesa Crosetto, ha definito l’evento «un disastro naturale da arginare con ogni mezzo»

Certo è che a pagare il prezzo più caro è stato invece l’ecosistema naturale. Al riguardo si è espresso anche il Ministro della Difesa Crosetto, definendo l’evento «un disastro naturale da arginare con ogni mezzo». Il rogo ha infatti colpito duramente una delle aree protette più preziose d’Italia. Il Parco Nazionale del Vesuvio ospita oltre 700 specie vegetali, tra cui la rara Silene giraldi, presente solo sulle pendice del “gigante” e sulle isole di Capri ed Ischia, e diverse specie di ginestra. Degni di nota inoltre dei piccoli nuclei relitti di betulla (Betula pendula), specie tipica di boschi mediamente freschi che ricoprivano le pendici del vulcano in passato, quando le condizioni climatiche erano meno torride di quelle attuali. Abbondano poi le specie tipiche della macchia mediterranea e, con oltre 20 censite, diverse orchidee selvatiche tutelate dalla Convenzione di Washington. Volendo azzardare delle stime, poiché l’incendio ha riguardato il settore sudorientale del Parco, le comunità vegetazionali di interesse conservazionistico più compromesse coinciderebbero con pinete mediterranee di pini mesogeni endemici e, in misura minore, quelle dei campi di lava e delle cavità naturali (entrambe habitat di direttiva comunitaria), nonché alcuni boschi di leccio. Guardando alla fauna, fattori come la vicinanza alla fascia costiera, il fatto di essere l’unico rilievo posto al centro della pianura nolana, e la grande eterogeneità ambientale, fanno del Vesuvio una importante area di sosta e rifugio per specie migratorie ed hanno contribuito all’insediarsi, in un territorio di modesta estensione, di una interessante comunità faunistica, arricchita di specie legate a peculiari microhabitat tipiche di ambienti rurali di limitata estensione. In generale, le comunità faunistiche, protagoniste al pari della vegetazione di cicliche ricolonizzazioni, contano uccelli migratori, medi e piccoli mammiferi, rettili e anfibi, i quali hanno sicuramente visto ridursi gli habitat e le zone di sosta a seguito dei roghi, con le specie più vulnerabili probabilmente andate in contro a forti cali di popolazione. Ma è presto per dirlo. La buona notizia è che – stando ad una recente valutazione della letteratura scientifica – una percentuale relativamente bassa di animali (in media circa il 3%) viene uccisa durante gli incendi a livello globale grazie alla spiccata e innata spinta alla sopravvivenza che caratterizza ogni esemplare. La cattiva notizia è che gli effetti ambientali non si fermano solo alle fiamme. Vanno infatti considerati gli effetti tossici del fumo e in generale la riduzione della copertura di habitat già di per sé esigui. Inoltre, tornando sul fronte vegetale – come affermato da esperti del CNR – la perdita della copertura vegetale e il deposito di cenere rendono il terreno impermeabile, aumentando nei mesi successivi il rischio di frane e colate detritiche in caso di piogge intense, come accadde dopo l’incendio del 2017. Senza contare che il disturbo provocato dagli incendi comporta il successivo insediamento di specie vegetali pioniere, naturalmente adibite alla ricolonizzazione, ma che spesso, in contesti fortemente antropizzati, potrebbero coincidere con specie alloctone invasive, come robinia e ailanto, le quali potrebbero potenzialmente insediarsi a discapito di specie locali.

Aree protette in fumo

Dal 15 giugno, solo in Campania sono andati in fumo oltre 2.500 ettari

Il Vesuvio non è comunque un caso isolato. Dal 15 giugno, solo in Campania sono andati in fumo oltre 2.500 ettari. Secondo Legambiente, nei primi sette mesi del 2025, in Italia si sono registrati 851 incendi, che hanno bruciato quasi 31mila ettari di territorio, di cui più di 18.700 in siti della rete Natura2000, aree protette a livello UE. Ciononostante, solo 8 parchi nazionali italiani su 24 dispongono di un Piano Antincendio Boschivo aggiornato, mentre in molte riserve naturali i piani sono scaduti o incompleti. Risulta quindi assente un documento essenziale per rispondere ad un’emergenza che ha cadenza annuale e spesso origine dolosa o colposa. A detta dell’ultimo Rapporto Ecomafia, nel 2024 sono stati 3.239 i reati di “incendi boschivi e di vegetazione, dolosi, colposi e generici in Italia” contestati dalle forze dell’ordine, Carabinieri forestali e Corpi forestali regionali. Un problema cronico, esacerbato da disattenzione e inciviltà (è sufficiente un mozzicone di sigaretta ad innescare un grave incendio), per cui sono necessarie nuove tecnologie investigative, maggiori risorse e una visione integrata e orientata alla prevenzione.

Migranti, naufragio a Lampedusa: almeno 20 morti

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Una imbarcazione con a bordo 97 persone migranti è naufragata a circa 20 chilometri dalle coste di Lampedusa. A dare la notizia è l’Agenzia dell’ONU per i rifugiati, che comunica che il decesso di almeno 20 persone e 27 dispersi. Una cinquantina di persone sono invece state soccorse dalla Guardia Costiera e dalla Guardia di Finanza, per poi essere trasferite nella struttura di accoglienza dell’isola. Ancora ignoto il luogo di partenza dell’imbarcazione.

L’Estonia installa cancelli e barriere a tutti i valichi di frontiera con la Russia

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Nel contesto di generale ostilità che oppone i Paesi baltici alla Russia, l’Estonia ha aggiunto un ulteriore tassello nelle azioni contro la Nazione eurasiatica confinante. Ha infatti deciso di installare cancelli scorrevoli e blocchi stradali nei tre valichi di frontiera estoni con la Russia per bloccare la circolazione di persone e veicoli in pochi secondi. Le barriere sono state installate al valico di frontiera di Narva, nel nord del Paese, e ai valichi di Koidula e Lujamaa, nel sud, per un costo complessivo di circa tre milioni di euro. Il governo estone ha giustificato la nuova misura citando l’ingresso di trenta migranti irregolari provenienti dal territorio russo. Secondo le guardie di frontiera, grazie alle nuove installazioni, ora saranno sufficienti circa tre secondi per chiudere i posti di controllo. «Non possiamo mai escludere completamente un attacco migratorio ai nostri confini», ha dichiarato Peter Maran, responsabile del valico di frontiera sud-orientale.

Il problema dei flussi migratori illegali coinvolge anche cittadini estoni che tentano di entrare senza documenti in Russia: negli ultimi anni, infatti, diverse persone hanno provato ad attraversare illegalmente il confine aggirando i posti di blocco. A Lujamaa, ad esempio, recentemente un conducente lettone ubriaco alla guida di uno scooter ha tentato di attraversare il valico per entrare in Russia senza fermarsi al posto di blocco, ma è stato ostacolato grazie al nuovo sistema.

Al di là del problema migratorio, il nuovo provvedimento del governo estone riflette in realtà una più profonda avversione storica non solo nei confronti della Russia, ma anche dei suoi cittadini: i Paesi baltici, infatti, al momento dell’indipendenza dall’Unione sovietica non hanno riconosciuto la cittadinanza ai cittadini russi che vivevano sul loro territorio e, ancora oggi, in Estonia e Lettonia la minoranza russa – costituita da migliaia di persone – vive senza essere riconosciuta da alcuna madrepatria. Si tratta dei cosiddetti russi “apolidi”, che ancora oggi posseggono i passaporti grigi per non-cittadini e non hanno accesso al diritto di voto o al pubblico impiego. Quest’anno, inoltre, con il pretesto di invasione da parte di Mosca, il governo estone ha deciso, attraverso una riforma del sistema scolastico, di abolire la lingua russa dalle scuole entro il 2030, sostituendola con l’uso esclusivo dell’estone e rendendo il russo una lingua «straniera». Una decisione che rischia di esasperare le discriminazioni etniche fomentando l’attrito tra russi e estoni.

La decisione di installare barriere ai valichi di frontiera si inserisce in questo contesto e avviene proprio in un momento in cui gli Stati Uniti e la Russia stanno cercando una possibile strada per avviare i negoziati, attraverso l’incontro tra Trump e Putin previsto in Alaska il prossimo 15 agosto. Rispetto alla volontà di Washington di instaurare quantomeno un dialogo con il Cremlino, l’Ue e in particolare i Paesi baltici continuano a prepararsi per quella che definiscono una sempre più probabile guerra contro la Russia. Per questa ragione, le tre Repubbliche baltiche, insieme a Finlandia e Polonia, hanno deciso di ritirarsi dalla convenzione di Ottawa, che vieta l’uso di mine antiuomo, pianificando di disseminare i territori al confine con la Federazione russa con milioni di mine. Oltre a questo, in molte nazioni nordiche sono state incrementate esercitazioni e simulazioni di guerra per prepararsi a quella che considerano una possibile invasione.

L’attuale decisione di bloccare i valichi non fa altro che inasprire le relazioni già tese con la Russia, confermate anche dall’annunciata espulsione di un diplomatico russo dall’ambasciata estone, definito «persona non grata». I Paesi baltici sono saldamente schierati a fianco dell’Ucraina e non sono inclini a concessioni o negoziati per risolvere il conflitto che da tre anni si svolge nel cuore dell’Europa. Pochi giorni fa, infatti, hanno dichiarato in una nota – insieme a Danimarca, Norvegia, Finlandia, Islanda e Svezia – di «riaffermare il principio secondo cui i confini internazionali non possono essere modificati con la forza». Il tutto mentre, in vista dell’incontro tra Trump e Putin, diversi funzionari e politici cominciano a parlare della necessità di uno scambio di territori. Similmente, il capo della politica estera dell’Unione europea, l’estone Kaja Kallas, ha dichiarato domenica che qualsiasi accordo tra Washington e Mosca per porre fine alla guerra in Ucraina deve includere l’Ucraina e l’UE, aggiungendo che «tutti i territori temporaneamente occupati appartengono all’Ucraina». L’installazione delle barriere ai valichi di frontiera con la Russia non solo inasprisce le tensioni con la Russia, ma riassume anche la fondamentale chiusura verso ogni soluzione diplomatica, che non lascia altra via di risoluzione delle controversie se non la guerra.

 

Do Kwon confessa la frode dietro le criptovalute TerraUSD e Luna

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Chi segue le criptovalute se lo ricorderà bene: nel 2022, il crollo delle monete digitali controllate dalla startup singaporiana Terraform Labs — TerraUSD e Luna — ha innescato un effetto domino che ha travolto l’intero ecosistema blockchain, causando perdite stimate in oltre 40 miliardi di dollari per gli investitori. Ora, Do Kwon, il magnate sudcoreano dietro al progetto, si è dichiarato colpevole di molteplici capi d’accusa e rischia fino a 25 anni di carcere.

In qualità di cofondatore e dirigente di Terraform Labs, Kwon ha ammesso di aver cospirato per commettere frodi su materie prime, frodi sui titoli e frodi telematiche. La dichiarazione di colpevolezza è stata presentata martedì — mercoledì, in orario italiano — presso il tribunale del distretto meridionale di New York, nell’ambito di un accordo di patteggiamento. Solo lo scorso gennaio, l’imprenditore si era dichiarato non colpevole; tuttavia, secondo la procuratrice Kimberly Ravener, l’accusa ha accettato di limitare la richiesta di pena qualora Kwon si fosse assunto la piena responsabilità dei suoi crimini. In caso contrario, sarebbero stati presi in esame tutti e nove i capi di imputazione originali, con un potenziale massimo di 135 anni di carcere. I pubblici ministeri riferiscono che il criptomanager ha accettato di rinunciare a 19,3 milioni di dollari di proventi illeciti. Già nel 2024, Kwon aveva affrontato una causa civile conclusasi con una multa di 80 milioni di dollari e il divieto di effettuare transazioni in criptovalute, come parte di un accordo da 4,55 miliardi di dollari che lui e Terraform hanno raggiunto con la Commissione per i Titoli e gli Scambi (SEC) degli Stati Uniti.

Kwon è accusato di aver ingannato gli investitori presentando TerraUSD come una stablecoin in grado di mantenere il valore di un dollaro senza interventi esterni: tutto sarebbe stato gestito da un algoritmo avanzato. In realtà, la start-up avrebbe stretto un accordo con una società di trading al fine di drogare il mercato e sostenere artificialmente il valore di TerraUSD e del suo token satellite, Luna. “Do Kwon ha sfruttato la promessa tecnologica e l’euforia degli investitori verso la criptovaluta per mettere in atto una delle più grandi frodi della storia”, ha dichiarato il procuratore statunitense Jay Clayton. “Ha attirato decine di miliardi di dollari nell’ecosistema di Terraform, promettendo una stablecoin autostabilizzante. Quando i mercati hanno capito che il sistema era instabile, era ormai troppo tardi: tutto è crollato e investitori in tutto il mondo hanno subito perdite miliardarie.”

Dopo il tracollo, sono state avviate class action milionarie e nel settembre 2022, le autorità sudcoreane hanno emesso un mandato di arresto nei confronti di Kwon e ha avviato la procedura per la revoca del suo passaporto, segnalandolo all’Interpol. Nel frattempo, l’imprenditore si è dato alla fuga per evitare l’estradizione. Nel marzo 2023, è stato infine arrestato all’aeroporto di Podgorica, in Montenegro, mentre tentava di raggiungere Dubai con documenti falsi, tra cui passaporti contraffatti della Costa Rica e del Belgio.

Sebbene i procuratori abbiano accettato di chiedere un massimo di 12 anni di carcere, il giudice distrettuale statunitense Paul Engelmayer potrebbe infliggergli fino a 25 anni di reclusione, una pena paragonabile a quella comminata a Sam Bankman-Fried, l’imprenditore crypto responsabile del collasso di FTX e Alameda Research. La sentenza è attesa per l’11 dicembre.