giovedì 21 Agosto 2025

L’Italia dei pescatori e la ricerca di un delicato equilibrio

Il mare europeo si estende per più di undici milioni di chilometri quadrati. Dalla sua esistenza e condizione di salute dipendono moltissime cose: la nostra qualità della vita, i mezzi di sussistenza, le economie e i servizi ecosistemici vitali – come cibo, energia, aria pulita e mitigazione del clima. Il suo benessere è però in pericolo: l’acqua sta cambiando la sua composizione fisico-chimica e non riesce più ad adattarsi ai cambiamenti. Al punto che anche la biodiversità dei fondali si sta via via indebolendo.

Buona parte di quello che sta accadendo è conseguenza indiretta del sistema economico e produttivo capitalistico che, oltre a immettere sostanze inquinanti nell’ambiente, continua a sfruttare in maniera sregolata ed eccessiva le risorse naturali a disposizione. L’Agenzia europea dell’ambiente – organismo della UE che monitora le condizioni ambientali del territorio – stima che nel Mediterraneo il 96% degli stock ittici sia sovrasfruttato e pescato principalmente utilizzando reti a strascico. Un guaio, se si tiene conto che i suoi ecosistemi ospitano fino a circa il 18% della biodiversità marina del mondo e che solo una piccolissima parte di questa è catturata in modo sostenibile – sia dal punto di vista del metodo di pesca che del quantitativo di pescato. L’UE dice che, nello scenario peggiore, circa il 90% di tutta la vita marina potrebbe scomparire entro il 2100 e le prime a soccombere sarebbero proprio quelle specie ittiche legate ad aree ad intesa attività di pesca. Non serve varcare i confini italiani per accorgersi che quest’ipotesi è più vicina – geograficamente – e possibile di quanto si possa pensare.

La questione emblematica dei ricci di Gallipoli

Gallipoli – ovvero città bella, nome che le diedero i greci che la abitarono – oltre ad essere meta turistica per via dei divertimenti estivi che offre – il litorale ospita decine di locali diversi – «è una città di mare, che vive di pesca», come l’ha descritta a L’Indipendente il suo sindaco, Stefano Minerva. Quando i pescatori scaricano in porto, al tramonto, di rientro da una lunga giornata in barca, decine di persone si accerchiano attorno alle casse bianche fatte di polistirolo, alla ricerca di prodotti unici, locali, come i gamberi viola. Una specie pregiata e costosa, che si raccoglie in profondità, al largo della costa gallipolina: in agosto, nel periodo di alta stagione, la sua richiesta schizza alle stelle e si muove in maniera proporzionale all’aumentare della mole di turisti. Un meccanismo che Paolo Pagliaro, consigliere della regione Puglia, ci ha detto contribuire a un «progressivo e allarmante depauperamento della flora e della fauna marina», che può essere arginato in parte con il «ripristino degli stock delle specie più a rischio». Come i ricci di mare. È stato infatti lo stesso Pagliaro a proporre la legge regionale – poi approvata a larga maggioranza ed entrata in vigore lo scorso maggio – sul fermo pesca per tre anni di questa specie marina, così da consentire il ripopolamento dei fondali a rischio desertificazione a causa del prelievo massiccio degli ultimi anni. La normativa prevede, nello specifico, il divieto di prelievo, raccolta, detenzione, trasporto, sbarco e commercializzazione degli esemplari di riccio di mare e dei relativi prodotti derivati freschi in tutta l’area territoriale della Puglia. Questi non spariranno completamente dalle tavole pugliesi: è prevista la possibilità di continuare a commercializzare i ricci provenienti da aree extra regionali – principalmente Spagna, Grecia, Portogallo, Croazia e Albania – a patto che la loro provenienza sia certificata. Una decisione presa perché, a detta del consigliere, la situazione è piuttosto critica e «il periodo di fermo biologico nei mesi di maggio e giugno», introdotto nel 1995 su pressione di alcune associazioni ambientaliste, «non bastava più».

Infatti se cinquant’anni fa si potevano contare fino a dieci esemplari per metro quadrato, oggi il numero può scendere fino a toccare lo zero. D’altronde come spiega Pagliaro, «da alimento per pochi, radicato nella sola cultura enogastronomica locale, il riccio di mare», che con la sua azione ripulisce i fondali rocciosi dalle alghe, contribuisce a creare l’habitat ideale per molte specie ittiche e funge da nutrimento per altri pesci, «è diventato una moda sempre più diffusa, alimentando un mercato ormai fuori controllo». Per un solo piatto di spaghetti ne servono almeno 25 esemplari, pescati spesso prima di raggiungere la taglia minima consentita – cioè sette centimetri di diametro. Praticamente «il prelievo massiccio ed incontrollato li ha quasi azzerati: ne restano esemplari molto piccoli che hanno bisogno di molto tempo per raggiungere la dimensione adatta» e cinque anni per arrivare alla piena maturità riproduttiva. Se finiscono quindi per essere pescati prima, è inevitabile che si arrivi alla totale scomparsa della specie e di quella di tutti quei pesci che di loro si cibano: questi ultimi migrerebbero per cercare nutrimento altrove, causando enormi danni economici al settore della pesca locale. Difatti, a detta di Pagliaro, «i pescatori sono stati i primi a rendersi conto della necessità di porre un freno», ma a dirla tutta a guardarsi intorno non sembra esserci tutto questo consenso. A questo punto il consigliere specifica di stare riferendosi «naturalmente ai pescatori professionisti e con licenza, che in tutta la regione sono appena 180 e che hanno un atteggiamento consapevole e responsabile e hanno tutto l’interesse a non desertificare il mare da cui traggono sostentamento per vivere. Poi purtroppo ci sono i pescatori della domenica e di frodo, con i quali non c’è interlocuzione e che sono i veri predoni della risorsa ittica, benché anche loro si siano resi conto che c’è ben poco da pescare, ormai».

Di tutt’altro avviso Stefano Minerva, sindaco di Gallipoli, che senza mezzi termini ci dice di essere stato fin da subito contrario alla legge in questione. Perché se «è vero che è necessario tutelare l’ambiente e l’intero ecosistema», allo stesso tempo «occorre fare i conti con quelle che sono le professionalità e le economie di un Paese. Credo che per non danneggiare chi di pesca vive, come le famiglie gallipoline, occorra trovare un punto d’incontro», che per molti potrebbe incarnarsi in consistenti aiuti economici. Anche perché, come sottolineato dalla Confederazione Italiana Sindacati Lavoratori (CISL), «i pescatori professionali di ricci sono in possesso di regolare licenza che permette loro solo questo tipo di pesca»: in altre parole, «queste persone non percepiranno reddito per i prossimi tre anni».

Ma quindi non esiste alcun tipo di sussidio?

[Gallipoli. Foto di Gloria Ferrari.]
In pratica sì. In teoria, invece, sebbene nella proposta di legge originaria fossero previsti ristori e misure di sostegno al reddito per i pescatori autorizzati, dello stanziamento – che spetta al governo regionale quantificare ed erogare – non si è mai discusso. Perché, sostanzialmente, non ci sono i fondi necessari. «Come si dovrebbero sentire le persone che vedono bloccato il proprio lavoro? Io sono sempre dalla parte delle persone perbene, di chi lavora con onestà e così sarà sempre», incalza Minerva, ricordando quei 35 sub residenti in provincia di Lecce e autorizzati alla pesca dei ricci rimasti d’improvviso senza lavoro. È uno di loro a rimarcare il fatto che «avrebbero potuto fare scelte diverse, allungare magari il periodo di fermo di qualche mese in più», sempre prevedendo dei ristori. Perché se da una parte «siamo d’accordo che i ricci sono a rischio di estinzione», dall’altra «hanno fatto finta di non accorgersene per decenni. E ora, all’improvviso, si svegliano e decidono di prendere una decisione così drastica», senza le dovute valutazioni e senza tenere in considerazione delle alternative – come prevedere affiancamenti nella pesca o limiti di età stringenti, visto che, secondo i più anziani sono i sub più giovani a non riconoscere un riccio pronto alla presa da quello che non lo è. I pescatori spiegano inoltre che, se ci fossero state sovvenzioni, molti di loro non si sarebbero opposti in questo modo alla legge. In questo modo, invece, il divieto non fa altro che penalizzare i professionisti per favorire gli abusivi. Uno dei grossi problemi con cui la normativa deve fare i conti è che quando si parla di mare aperto è difficile tenere tutto sotto controllo. Già negli ultimi anni, infatti, migliaia di ricci illegali, venduti nei ristoranti, sono finiti sotto sequestro. Nonostante gli sforzi della capitaneria di porto, eludere la sorveglianza non è così complicato: solitamente, i pescatori non autorizzati prendono accordi con piccole imbarcazioni che segnalano loro l’arrivo delle forze dell’ordine. E quando succede, abbandonare tutto quello che si ha sul fondo del mare – attrezzatura e pescato – è sufficiente a cancellare le tracce.

La difficoltà tutta italiana di abbandonare la pesca a strascico

C’è tuttavia una questione che, al contrario di quella dei ricci, mette d’accordo più o meno tutti, tra amministrazioni e pescatori locali: l’importanza della pesca a strascico. Lo scorso giugno il Consiglio Agricoltura e Pesca, che riunisce tutti i ministri del settore dei 27 Stati membri dell’Unione europea, ha deciso di adottare il pacchetto per la pesca sostenibile proposto dalla Commissione europea che, tra le altre misure, prevede lo stop definitivo alla pesca a strascico a partire dal 2030. Il testo è stato approvato quasi all’unanimità (26 favorevoli su 27): ad aver votato contro è stata solo l’Italia.

Francesco Lollobrigida, ministro dell’Agricoltura italiano, ha spiegato che «abbiamo il dovere di tutelare un settore strategico per la nostra nazione». Una linea di pensiero che Pagliaro ci ha detto corrispondere alla sua. «In Puglia la tecnica della pesca a strascico viene praticata da circa 500 pescherecci che resterebbero fermi. Vietare una tecnica così diffusa senza prevedere risorse adeguate per la riconversione significa affondare la nostra pesca. Tanto per fare un esempio, sparirebbe dai mercati e dalle tavole uno dei prodotti più identitari dell’economia ittica salentina: il gambero gallipolino. Quindi siamo contrari ad uno stop imposto dall’alto», dice. Esattamente quanto riferito dal ministro, per cui l’Italia ha il diritto di chiedere «che vengano valutate le ripercussioni socio-economiche ed occupazionali delle misure», e quanto sostenuto dalla maggior parte dei pescatori, scesi in piazza o nei porti per esprimere dissenso verso Bruxelles. Si sono radunati anche gli oltre 50 pescherecci a strascico della marineria di Gallipoli, sostenuti dal sindaco Minerva, per cui «qualsiasi attività, se fatta con intelligenza e cura, può non rappresentare un danno». Quindi sì alla pesca a strascico, a patto che ci si dia un contegno.

Secondo gli addetti ai lavori, impedire questa modalità di cattura del pesce significherebbe mettere a rischio l’occupazione di circa 7mila persone e gli introiti del 20% della flotta peschereccia italiana, tagliando del 50% i ricavi ottenuti dal mare. Altrettanto allarmistico è il pensiero di Fedagripesca per cui, mentre l’Europa blinda i suoi fondali per i pescherecci del continente, le navi estere (come quelle nordafricane) continueranno a muoversi liberamente – e a vendere il frutto della pesca a strascico nei mercati italiani. «In ginocchio andrebbe l’intera filiera, comprese le forniture di pesce fresco ai ristoranti e ai privati, con un vertiginoso aumento dei prezzi di quel poco disponibile».

Ma se la questione economica è stata al centro delle preoccupazioni di tutte le voci sentite fino ad ora, lo stesso non si può dire di quella ambientale, a cui nessuno si è mostrato interessato. La pesca a strascico, ampiamente diffusa in tutto il mondo, prevede che una grande rete venga trascinata sul fondo del mare, così da catturare quanti più pesci possibili in un colpo solo. Il problema principale è che il sacco, soprattutto a basse profondità e a prescindere dalla sua dimensione o dalla ampiezza delle maglie, raccoglie tutto ciò che trova: strappa indistintamente via dall’ecosistema marino anche alghe, specie non commerciabili, animali ancora troppo piccoli per essere raccolti e numerosi organismi essenziali per l’equilibrio della vita in mare. Tutto quello che si incaglia nella rete, ma che non è di interesse per il mercato – capita che rimangano intrappolate anche delle tartarughe, ad esempio, e che soffochino nella calca con gli altri pesci – finisce per essere ributtato in mare. Spesso, però, accade quando ormai è troppo tardi.

Com’è intuibile, oltre alle specie viventi, lo strascico non risparmia neppure i fondali, in alcuni casi devastati a tal punto da non riuscire più a riprendersi. E ogni qualvolta che una certa parte di questi viene completamente distrutta, i pescherecci si spostano sempre più in profondità, perpetrando un circolo che potenzialmente potrebbe durare fino al totale annientamento dell’ecosistema e della biodiversità. Fino ad ora nelle acque sottoposte alla legislazione europea la pesca a strascico è stata vietata a meno di tre miglia nautiche dalla costa, o ad una profondità compresa tra zero e 50 metri, e oltre gli 800 metri. Ma eludere i controlli è piuttosto semplice: spesso questi ultimi sono affidati alle autorità locali, complici in certi casi dello strazio che avviene nei mari. I dati dicono che la pesca massiccia con reti a strascico e con altri metodi non sostenibili pone il 75% delle specie ittiche in pericolo poiché fortemente sovrasfruttate, soprattutto in un Paese come l’Italia, che conta circa 7.500 chilometri di coste.

Eppure, è ancora difficile capire che la risposta ambientale è sempre quella più conveniente, anche dal punto di vista economico. E che salvare i fondali marini dalla devastazione significa salvare anche le specie che li abitano. E che vietare la pesca di ricci ma lasciare che questi s’impiglino comunque nelle reti che raschiano il fondo, non risolverà il problema della loro decimazione.

[di Gloria Ferrari]

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