martedì 23 Dicembre 2025

Dark Winds: la serie sul colonialismo americano che merita di essere vista

Di fronte alle distese aride della Monument Valley, un panorama classico delle pellicole americane, il cinema ci ha abituati per decenni a uno sguardo univoco: quello del cowboy, del pioniere o dello sceriffo bianco. Con Dark Winds, la serie prodotta da AMC, questo paradigma viene ribaltato radicalmente. Basata sulla celebre saga letteraria Leaphorn & Chee di Tony Hillerman, la serie si muove sulle coordinate del noir classico, ma lo fa dall’interno della nazione Navajo, o più correttamente Diné, e dalla riserva in cui sono stati confinati, trasformando il paesaggio da sfondo estetico a protagonista politico e spirituale. Una storia non più raccontata dal punto di vista dell’uomo bianco, con l’indiano al massimo nel ruolo di co-protagonista, ma dagli occhi di chi vive un dramma personale e che porta con sé un trauma collettivo, intergenerazionale, storico. Sotto la tinta del racconto thriller/giallo, Dark Winds parla della colonizzazione, della sua brutalità e delle sue ferite, quelle passate e quelle attuali.

Ambientata negli anni ’70, quando la popolazione Diné affrontò il dramma degli effetti dell’estrazione di uranio, la narrazione segue il veterano Joe Leaphorn (Zahn McClarnon) e la giovane recluta Jim Chee (Kiowa Gordon). La trama gialla è il motore che permette di esplorare una realtà stratificata. Dark Winds, che tra i produttori ha personaggi del calibro di George R. R. Martin e Robert Redford, tra i suoi punti di forza ha il coinvolgimento massiccio di talenti nativi, da Graham Roland alla sceneggiatura fino alla regia e al cast. Questo garantisce un’autenticità che rifugge il “turismo culturale”.

Sotto la “patina” del thriller, la serie affronta temi brucianti della storia americana. Uno dei più potenti è quello della sterilizzazione forzata delle donne native, una pratica documentata che il governo statunitense ha attuato per decenni attraverso l’Indian Health Service e caduta via via in disuso dopo alcune riforme apportate in quel decennio. Nella serie, questo trauma non è un semplice espediente narrativo, ma una ferita aperta che definisce il rapporto di sfiducia tra la popolazione locale e le autorità federali (FBI), rappresentate come un corpo estraneo, spesso arrogante, sistematicamente cieco di fronte alle dinamiche della riserva e spiccatamente razzista.

Il thriller diventa quindi uno strumento per parlare di giustizia negata. Se nel noir tradizionale il detective è una sorta di eroe che cerca di ristabilire l’ordine in un mondo corrotto, in Dark Winds l’ordine non è mai esistito per i Diné. La legge stessa è lo strumento con cui l’oppressore commette e giustifica i propri crimini. Questi elementi, insieme alla sterilizzazione e all’estrattivismo, sono tutti parte del grande mosaico di ingiustizie che ha rappresentato la scenografia della storia del Nordamerica. 

Un altro asse critico fondamentale è lo scontro generazionale e identitario tra i due protagonisti. Leaphorn rappresenta l’equilibrio pragmatico, un uomo disilluso che ha imparato a navigare nel sistema dei bianchi senza dimenticare le proprie radici, mentre Chee incarna la tensione di chi è stato istruito fuori dalla riserva e deve “reimparare” a vedere il mondo attraverso la lente della propria cultura.

La serie affronta con rispetto il tema del “sovrannaturale” e della spiritualità Navajo. Il “vento oscuro” del titolo non è solo un riferimento atmosferico, ma un concetto metafisico legato al male che corrompe l’armonia (Hózhó). Tuttavia, la serie evita sapientemente di cadere nel misticismo stereotipato: le credenze tradizionali sono trattate con la stessa dignità e concretezza con cui un noir urbano tratterebbe questioni differenti.

Visivamente, la serie utilizza il territorio non come una cartolina turistica, ma come un labirinto emotivo. La vastità degli spazi, anziché suggerire libertà, accentua l’isolamento della riserva, una terra confinata dove il tempo sembra essersi fermato. È qui che il genere “Western” muore per rinascere come “Native Noir”. Come sottolineato da diverse critiche, la serie riesce a restituire ai nativi la facoltà di raccontare il proprio trauma senza mediazioni esterne.

Dark Winds non è solo un’ottima serie di genere, ma è un atto di riappropriazione culturale. Il crimine, in questa narrazione, non è solo l’omicidio su cui indagano Leaphorn e Chee, ma l’oblio sistematico a cui un intero popolo è stato condannato per secoli. Affrontando la violenza del passato attraverso i codici del giallo, la serie riesce nell’impresa più difficile: intrattenere il pubblico mentre lo costringe a guardare nelle ombre più profonde e meno esplorate della storia americana. È una serie necessaria, capace di dimostrare che il vero mistero da risolvere non è “chi è stato”, ma “come siamo arrivati fin qui”.

Avatar photo

Michele Manfrin

Laureato in Relazioni Internazionali e Sociologia, ha conseguito a Firenze il master Futuro Vegetale: piante, innovazione sociale e progetto. Consigliere e docente della ONG Wambli Gleska, che rappresenta ufficialmente in Italia e in Europa le tribù native americane Lakota Sicangu e Oglala.

L'Indipendente non riceve alcun contributo pubblico né ospita alcuna pubblicità, quindi si sostiene esclusivamente grazie agli abbonati e alle donazioni dei lettori. Non abbiamo né vogliamo avere alcun legame con grandi aziende, multinazionali e partiti politici. E sarà sempre così perché questa è l’unica possibilità, secondo noi, per fare giornalismo libero e imparziale. Un’informazione – finalmente – senza padroni.

Ti è piaciuto questo articolo? Pensi sia importante che notizie e informazioni come queste vengano pubblicate e lette da sempre più persone? Sostieni il nostro lavoro con una donazione. Grazie.

Articoli correlati

Iscriviti a The Week
la nostra newsletter settimanale gratuita

Guarda una versione di "The Week" prima di iscriverti e valuta se può interessarti ricevere settimanalmente la nostra newsletter

Ultimi

Articoli nella stessa categoria