La Corte di Cassazione ha ufficialmente chiuso l’importante processo “Grimilde”, confermando l’egemonia della cosca ‘ndranghetista Grande Aracri a Brescello, in Emilia-Romagna. Dichiarato inammissibile il ricorso di Francesco Grande Aracri, condannato a 19 anni e 6 mesi e inasprito a 24 anni in appello nel 2024, riconosciuto come vertice del sodalizio. La Corte ha ritenuto provato, con un «imponente quadro probatorio», il radicamento della famiglia nel tessuto socio-politico ed economico emiliano: appalti affidati a società di comodo, frodi fiscali, riciclaggio e relazioni con amministratori locali che portarono allo scioglimento del consiglio comunale nel 2015.
Nel respingere i motivi di appello della difesa, gli ermellini hanno ribadito la differenza chiave tra una comune associazione a delinquere – motivata dal profitto – e un’organizzazione mafiosa, che usa il reato come mezzo per imporre controllo sociale, consolidare potere e trarre vantaggi economici parassitari. È proprio la forza intimidatoria, evidenzia la pronuncia della Suprema Corte, che permette l’assoggettamento del territorio. Questo modello operativo, già emerso in altri processi come Edilpiovra e Aemilia, si ritrova pienamente anche nel contesto emiliano: la Cassazione parla di un corpus probatorio «imponente» che individua l’attività del gruppo fin dai primi anni Duemila, con Francesco Grande Aracri a rappresentare il fulcro di una rete di imprese, prestanome e influenze politico-amministrative capaci di profonde infiltrazioni nel tessuto locale. A lui vengono ricondotte iniziative economiche e immobiliari nel Reggiano, appalti ottenuti tramite canali privilegiati, la realizzazione del quartiere “Cutrello” e l’ingresso in locali simbolici come la discoteca Italghisa, ritenuta luogo di incontri e affari. Il quadro, arricchito da false fatturazioni, società cartiere e meccanismi di riciclaggio, ha dipinto una criminalità moderna e insidiosa, meno appariscente ma molto penetrante.
L’infiltrazione era tale da aver provocato lo scioglimento del Comune di Brescello nel 2015. Coordinata dalla Direzione distrettuale antimafia di Bologna, “Grimilde” era nata da un’operazione effettuata il 25 giugno 2019, con 16 arresti eseguiti dalla Polizia ai danni degli uomini della cellula dei Grande Aracri, attiva nei territori di Brescello, Parma e Piacenza. Da lì si era dipanata una lunga vicenda giudiziaria che aveva portato la stessa Cassazione ad attestare, nel 2023, l’egida della famiglia Grande Aracri in Emilia come struttura autonoma dalla Calabria, potendo contare su importanti radicamenti in tutta la provincia reggiana. La Suprema Corte aveva pronunciato diciotto condanne divenute definitive, mandando sei imputati ad affrontare un nuovo processo d’Appello.
Un capitolo rilevante del processo ha riguardato l’ex presidente del consiglio comunale di Piacenza ed ex funzionario dell’Agenzia delle Dogane, Giuseppe Caruso, per il quale era stata confermata una pena a 12 anni e 2 mesi di carcere: 8 anni e 2 mesi per mafia – era stata ufficialmente attestata la sua appartenenza alla cosca dei Grande Aracri –, più 4 anni per un’ulteriore truffa all’Agea. L’uomo era stato inoltre condannato a risarcire il comune di Piacenza con un milione di euro. Ai tempi, Caruso era membro di Fratelli D’Italia, ma il partito provvide subito ad espellerlo. Insieme a lui era alla sbarra anche il fratello Albino Caruso, condannato a sei anni e dieci mesi di carcere per associazione mafiosa.
Con “Grimilde” si è dunque pervenuti alla piena conferma della pervasività con cui la ‘ndrangheta si è insediata nel contesto politico, economico e sociale dell’Emilia-Romagna, già descritta in maniera perentoria negli anni precedenti dalle risultanze giudiziarie del Maxiprocesso Aemilia, in cui piovvero ingenti condanne e si comprovò l’“articolato e differenziato programma associativo” di un’organizzazione dotata di propri uomini e mezzi, autonoma rispetto alla “cosca madre” calabrese.




