giovedì 13 Novembre 2025

“Guardaci morire”: il prezzo di farsi ascoltare

A Gaza sono le stesse vittime a documentare la propria sofferenza. Un sacrificio che ci chiama in causa.

Qualche mese fa, durante una pausa caffè, mi sono fermata a chiacchierare con un cameriere di vent’anni. Mi ha chiesto cosa facessi nella vita. Gli ho parlato del mio lavoro a Still I Rise, nato dalla lotta per i diritti dei migranti in Europa e poi esteso ad altri contesti dimenticati. 

Sono stata sintetica. Un po’ perché tendo a dilungarmi su ciò che mi appassiona, un po’ perché avevo capito che fosse una domanda di circostanza. Invece, con estrema apertura e onestà, mi stupì rispondendomi: «Brava, complimenti. Io sto facendo davvero fatica. Apro i social e vedo bambini morti, bombe che esplodono. Poi un balletto. Poi il calcio. Poi di nuovo bambini morti. Mi sento in colpa a passare oltre. Ma anche a guardarli fino in fondo. Mi sento così impotente di fronte a tutto questo orrore». Credo sia un sentimento molto diffuso, forse per alcuni un po’ mitigato dalla possibilità di trasformare l’indignazione personale in azione collettiva, come successo con le manifestazioni e gli scioperi di ottobre.

Sto scrivendo queste righe nel giorno in cui sono stati rilasciati ostaggi israeliani e prigionieri palestinesi. Donald Trump è in visita a Tel Aviv, celebrato come “costruttore di pace”. Non ho la pretesa di fare previsioni, ma mi chiedo: tra un mese parleremo ancora di Palestina, o la nostra attenzione sarà stata risucchiata da altro?

Chi lavora nel settore umanitario lo sa bene: l’attenzione dell’opinione pubblica è volatile. L’informazione vive di emergenze e ogni finestra si chiude in fretta. Lo abbiamo visto, ad esempio, con la presa dei talebani di Kabul nel 2021 o con il terremoto in Siria e Turchia nel 2023. Emozione intensa per qualche settimana, poi silenzio. Figuriamoci per i conflitti protratti nel tempo, come quello in Siria (14 anni, oltre 650.000 morti) o in Yemen (più di 350.000 morti), tuttora in corso ma ormai fuori dai radar mediatici.

La Palestina è un’eccezione. Sicuramente a momenti alterni e con diversa intensità, ma per gli ultimi due anni è stata al centro dell’attenzione e del dibattito mondiale. Certo, verrebbe da pensare che sia una reazione normale. Scene impensabili sono diventate routine sui nostri schermi: fame, bombardamenti, corpi smembrati. Come potrebbe non scuotere le coscienze? Ecco, le coscienze sono state scosse grazie soprattutto a queste immagini. Crude e immediate, che non ci arrivano grazie al lavoro di giornalisti stranieri (a cui non è permesso l’accesso a Gaza), ma grazie ai civili e giornalisti palestinesi, che sono stati costretti a diventare cronisti del proprio massacro. 

People connect with people 

Nonostante la tregua Israele continua a commettere crimini nei confronti dei palestinesi a Gaza

È diverso leggere un bollettino di vittime e vedere un padre che corre tra le macerie e trova il corpo dei figli. O una madre che stringe un bambino scheletrico. O gli occhi vuoti e traumatizzati di chi è sopravvissuto. Quelle immagini ci attraversano. Ci restano addosso.

Per gli ultimi due anni sono state le stesse vittime a farsi reporter. Con una consapevolezza impressionante: filmare l’orrore, anche quello più intimo, nella speranza che mostrarlo al mondo serva a ottenere giustizia. Pensiamoci un attimo: non filmeremmo mai un padre che corre verso il corpo senza vita del figlio dopo un incidente. Sarebbe considerato un atto di violenza, di voyeurismo. Figuriamoci postarlo online. Invece i palestinesi lo fanno, e lo fanno per noi, per farci vedere. Rinunciando al proprio dolore intimo, al proprio lutto, nella speranza che possa servire a qualcosa.

Non dovrebbe mai spettare alle vittime il compito di dimostrare la propria umanità. Eppure, è esattamente ciò che i palestinesi di Gaza sono stati costretti a fare: mostrare il proprio dolore, filmarlo, divulgarlo. Non per esibizionismo, ma perché sanno che, senza immagini, il mondo non ascolta.

E, oggettivamente, ha funzionato. Hanno sacrificato l’intimità del lutto, la dignità della morte, la possibilità di vivere in privato il trauma per smuovere le nostre coscienze. Questo indicibile sacrificio deve esserci d’insegnamento, e lasciarci una responsabilità semplice e spietata: combattere la disumanizzazione dell’altro

La disumanizzazione è ciò che rende possibili le guerre, le frontiere, i muri. Combatterla è un dovere: significa rifiutare le narrazioni che dividono tra “noi” e “loro”, scegliere l’empatia come forma di azione, pensare a cosa ci unisce come esseri umani prima di ciò che ci divide.

Informarsi, sostenere chi racconta dal campo, mobilitarsi quando serve. Restituire umanità dove viene negata. È così che, anche da lontano, si smette di essere spettatori.

Forse non possiamo cambiare tutto, ma possiamo scegliere da che parte stare.

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Still I Rise

Still I Rise è un’organizzazione no-profit internazionale, che offre istruzione di eccellenza ai bambini profughi e vulnerabili in vari Paesi, con l’obiettivo di porre fine alla crisi scolastica globale. Completamente indipendente, Still I Rise è stata fondata nel 2018 ed è guidata da Nicolò Govoni.

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