Una sentenza del Consiglio di Stato fa tremare i Centri di Permanenza per il Rimpatrio (CPR), stabilendo che lo schema di capitolato d’appalto utilizzato per la loro gestione non tutela a sufficienza il diritto alla salute e la dignità delle persone che vi sono recluse. I giudici amministrativi hanno accolto il ricorso di Asgi e Cittadinanzattiva, annullando il decreto ministeriale del 4 marzo 2024 e imponendo al Ministero dell’Interno di rivedere le norme che regolano l’assistenza sanitaria e la prevenzione del rischio suicidario. La pronuncia denuncia un «difetto di istruttoria» per il mancato coinvolgimento del Ministero della Salute e del Garante nazionale dei detenuti, e chiede di adeguare «scrupolosamente» il capitolato alla direttiva Lamorgese del 2022, superando le attuali «discrasie». Intanto, però, è proprio su quello schema annullato che si basano gli appalti per la gestione dei CPR in tutta Italia.
La decisione del Consiglio di Stato ha ribaltato la sentenza del TAR Lazio che aveva respinto il ricorso e riconosciuto la fondatezza delle censure mosse dalle associazioni: il capitolato non garantisce standard adeguati per le persone con vulnerabilità psichiatrica o in trattamento farmacologico, non prevede un piano anti-suicidiario, procedure di osservazione all’ingresso, né la necessaria formazione del personale. I giudici hanno evidenziato come, in assenza di una legge che disciplini dettagliatamente i «modi» del trattenimento – come recentemente rilevato anche dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 96 del 2025 –, sia ancor più cruciale che l’amministrazione si avvalga del contributo di tutti i soggetti competenti, a partire dal Ministero della Salute e dal Garante nazionale.
La sentenza si basa anche su rapporti allarmanti, come quello del Garante nazionale dei detenuti del 2023 e del Comitato europeo per la prevenzione della tortura (CPT) del 2024, che descrivono «situazioni assai problematiche» nei CPR: somministrazione diffusa di psicofarmaci non prescritti, mancanza di controllo sulla distribuzione dei farmaci, valutazioni superficiali sull’idoneità alla permanenza, carenza di assistenza psicologica e assenza di protocolli strutturati per prevenire l’autolesionismo e il suicidio. Inoltre, in alcuni centri è stata rilevata la «cronica mancanza di sistemi di chiamata all’interno delle aree detentive», con casi emblematici di decesso per soccorso tardivo.
Il Consiglio di Stato, pur non imponendo l’equiparazione integrale tra CPR e strutture carcerarie – per evitare di attribuire una connotazione sanzionatoria al trattenimento amministrativo –, ha affermato che le norme penitenziarie «possono essere presi come riferimento quando permettono di innalzare gli standard dell’assistenza sanitaria e psicologica». Ha inoltre indicato precise disposizioni della direttiva del 2022 che devono essere integrate nel capitolato, tra cui il diritto alla copia della scheda sanitaria in ogni momento, l’obbligo di una nuova valutazione medica in caso di emersione di incompatibilità e la tenuta di un registro degli atti autolesionisti e suicidari.
La pronuncia segna dunque una svolta, riconoscendo che il sistema attuale, delegato a soggetti privati orientati al profitto e privo di standard unitari, non garantisce i livelli minimi di tutela richiesti dalla Costituzione e dalle norme internazionali. Come ha scritto il Collegio, «Nelle more dell’indispensabile intervento del legislatore, le Amministrazioni competenti sono chiamate ad un attento esame della situazione fattuale nei Centri, affinché la riformulazione delle disposizioni impugnate del capitolato possa tener conto di ogni elemento rilevante, nella prospettiva di garantire livelli di assistenza socio-sanitaria in linea con le previsioni costituzionali e sovranazionali». Una condanna senza appello per un modello di detenzione amministrativa che continua a negare, nei fatti, il rispetto della dignità umana.
A far scattare l’allarme era stato, già lo scorso dicembre, quanto emerso dal rapporto del Comitato Europeo per la Prevenzione della Tortura, che ha dipinto un quadro agghiacciante delle condizioni all’interno dei CPR italiani. Esaminando i Centri di Milano, Gradisca d’Isonzo, Potenza e Roma, il Comitato ha denunciato misure di sicurezza eccessive (finestre con tripla rete, strutture a “gabbia”), la mancanza di attività ricreative e personale formato per gestire situazioni di forte stress, oltre a cibo avariato, scarse condizioni igieniche e carenza di beni di prima necessità. È stato inoltre criticato il ricorso a reparti antisommossa a rotazione anziché a figure professionali specializzate, la limitazione dei diritti fondamentali (accesso a un avvocato, informazioni sul trattenimento, notifiche a terzi) e la frequente inadempienza dei gestori rispetto ai capitolati d’appalto, con numerose indagini penali in corso. Il dossier fa riferimento a casi eclatanti — come il sequestro della gestione del CPR di via Corelli a Milano e le indagini su Palazzo San Gervasio —, dove sarebbero stati documentati abusi e la somministrazione segreta di psicofarmaci per “neutralizzare” le proteste.





