domenica 26 Ottobre 2025

Tra le comunità berbere del Marocco che lottano contro la siccità e le alluvioni

Zagora – Alle porte del deserto l’aria impregna il volto di terra e sabbia e le folate di vento rendono impossibile tenere gli occhi aperti. Durante il giorno la temperatura non si schioda dai quarantacinque gradi, per poi calare, di notte, senza mai scendere sotto i trenta. Ogni attività, in quel lasso di tempo che in alcune aree d’Italia viene definito come “controra”, è rigorosamente ferma, per poi ricominciare intorno alle 17.00 e attendere il fresco della sera. 

Il Sud-est marocchino da più di un lustro soffre una grave siccità. Negli ultimi dieci anni, quelle coltivazioni che hanno caratterizzato il lavoro nelle aree rurali del Paese, focalizzate in special modo sulla produzione di cereali, sono state spazzate via dalla penuria d’acqua. Sono quindi numerose le persone che si sono viste obbligate a lasciare la propria terra e così sommarsi al fenomeno della diaspora marocchina. Dalle latitudini estreme del Marocco, sempre più persone si sono messe in viaggio per trasferirsi nelle principali metropoli del Paese e provare a cambiare il destino della propria vita. A questa situazione già drammatica, per la quale il governo di Rabat cerca di attuare programmi di salvaguardia delle poche coltivazioni rimaste, si è aggiunta l’alluvione che nel settembre del 2024 si è abbattuta sull’area e ha portato via con sé i pochi campi, molte case e, secondo le stime del governo, più di venticinque vite.

Immaginari cinematografici 

L’ingresso della Kasbah, Ouarzazate

La regione del Draa-Tafilalet è una tra le più estese del Paese e ospita uno dei tratti di frontiera più delicati tra il Marocco e l’Algeria. Il confine che attraversa il deserto è presidiato dalle forze militari marocchine e il suo accesso è praticamente invalicabile a causa del pattugliamento militare e delle migliaia di mine antiuomo disseminate lungo tutto il perimetro della frontiera. La stessa regione è a sua volta divisa in due parti: l’area a sud confinante con l’Algeria è prettamente desertica, mentre la parte nord è attraversata dalla catena montuosa dell’Alto Atlante con cime che superano i tremila metri. Qui sono evidenti i tratti emblematici della cultura berbera, fortemente radicata nella regione. 

Raggiungere da Marrakech la città di Zagora, capoluogo dell’omonima provincia e ultimo grande centro urbano prima della frontiera, può essere faticoso: due autobus partono ogni giorno dalla stazione della Città Rossa e tagliano la catena montuosa dell’Atlante attraverso il passo del Tizi n’Tichka. I tornanti che si susseguono per ore mettono a dura prova i passeggeri, mentre dal finestrino scorrono le immagini delle vallate, delle distese rocciose che si fanno spazio tra i picchi e, in alcuni punti, compaiono dei piccoli negozi di artigianato o delle tende gestite dagli apicoltori della zona.

Non appena si raggiunge Zagora, sul calar della sera, ci si accorge rapidamente che i pochi turisti che fanno capolino nei riad (le abitazioni tradizionali marocchine con giardino interno spesso adibite ad alberghi) e nei ristoranti adiacenti, raggiungono l’area per usufruire dei tour organizzati tra le dune del Sahara dalle agenzie turistiche. Per i turisti la città sembra essere una semplice tappa di passaggio: dopo l’arrivo e il pernottamento, si raggiunge il deserto, si trascorre una notte in tenda e si ritorna nelle città principali. 

Il senso di abbandono è palpabile. Nonostante l’afflusso dei visitatori sia basso, come dimostra la presenza di poche strutture destinate all’accoglienza turistica, il costo della vita sembra essere più alto rispetto ad altre aree del Paese più popolate e maggiormente interessate dal turismo. A questo modello, che tenta di inseguire un mercato ancora troppo sfuggente, si aggiunge il business delle produzioni cinematografiche. A centocinquanta chilometri di distanza da Zagora sorge la città di Ouarzazate, luogo in cui sono stati girati alcuni tra i più noti colossal di Hollywood e che ospita numerose produzioni audiovisive. «Ho collaborato con Bernardo Bertolucci» ci spiega Alì, artista dell’area, che, tra un racconto e l’altro, prova a fare pubblicità alla sua galleria d’arte. «Accompagnavo la produzione nella ricerca dei luoghi migliori per il film Il tè nel deserto» racconta all’interno del Cafè Littéraire Zagora. Fondato dieci anni fa, questo spazio accoglie varie opere artistiche e una piccola biblioteca con tomi in arabo e in francese. Anche in questo caso, il locale sembra essere spesso deserto. 

Percorrendo la route 9 che porta fino all’ultimo paese prima della frontiera, si raggiunge Tagounit. Il centro urbano è un agglomerato di abitazioni ed esercizi commerciali a ridosso della stessa via principale. Il paese, secondo l’ultimo censimento del 2024, conta più di 15.000 abitanti, solo dieci anni fa, all’inizio della crisi idrica, la popolazione superava i 17.500 individui. 

Palmeria a Zagora

«Provengo da una famiglia berbera nomade» mi spiega Karim, un uomo di quarant’anni nato a Tagounit. Karim rappresenta perfettamente il fenomeno che anno dopo anno sta spingendo un numero sempre maggiore di persone a lasciare le aree periferiche del Sud-est marocchino, per spostarsi verso le grandi città a nord e sulle coste del Paese. «Per sette anni ho vissuto a Casablanca, ho lavorato in un supermercato» ci spiega, mentre mostra alcune foto dell’epoca. Dopo l’esperienza che lo ha tenuto lontano dalla sua terra d’origine, Karim ha scelto di tornare a casa. «Odiavo quella città. È pericolosa, troppo frenetica; qui si sta bene, è tranquillo e ci conosciamo tutti». Nel paese Karim ha la sua famiglia: oltre ai genitori, una sorella è rimasta qui con il marito e i figli, l’altra, invece, si è stabilita definitivamente a Casablanca. 

A Tagounit la carenza d’acqua è tangibile. Il sole del giorno rende ogni attività asfissiante e le stesse case, caratterizzate da poche finestre striminzite, lasciano intuire una vita che scorre tranquilla nella penombra. Le poche attività che animano il paese sono servizi di ristorazione e mercati; qui, tra i banchi, fanno capolino le angurie, specialità dell’area. «Bisogna assolutamente provare le angurie, vengono coltivate qui e sono deliziose» mi spiegano. Per quanto questi frutti rappresentino un vanto della zona, la loro coltivazione si somma ai problemi che stanno attanagliando il Sud-est del Paese. Il loro abbondare è infatti dovuto alla monocoltura intensiva, che ha sostituito la coltivazione dei cereali e che, per mantenere il ritmo delle esportazioni, necessita di una grande quantità d’acqua che, di conseguenza, viene levata alla popolazione locale.  

Villaggio nella catena montuosa dell’Alto Atlante

«Da un po’ di anni non abbiamo accesso costante all’acqua pubblica» mi spiega Karim mentre indica una cisterna in costruzione «è comune, infatti, che ogni casa abbia l’allaccio a un pozzo o un sistema indipendente di accumulo idrico. Ogni settimana viene quindi riattivato l’acquedotto pubblico e chi può fa la scorta».

Dalla siccità alle alluvioni 

Al problema della siccità si sono sommate le alluvioni dello scorso anno, che hanno colpito, oltre al Sud-est marocchino, l’area sudoccidentale dell’Algeria e le parti interne del Sahara Occidentale, compresi gli accampamenti algerini di Tindouf. Secondo gli esperti questi fenomeni, un tempo impensabili, con il tempo saranno sempre più frequenti e con maggiore intensità. Le piogge, che si sono riversate su tutto il Paese e che nella provincia di Zagora hanno raggiunto i 200 millimetri d’acqua in soli due giorni, fortunatamente non hanno portato alla fuoriuscita dagli argini del fiume Draa, che attraversa tutta la regione e segna il confine con l’Algeria. Anche Karim ha subìto i danni della devastazione dell’acqua. «Questa era la mia casa» mi dice, indicandomi una distesa di rocce poco lontana dal paese sulla quale adesso sorge una capanna. «Sono rimaste in piedi solo le colonne che affiancavano il cancello, se le osservi puoi intuire che altezza raggiungeva la casa».

Da quel momento Karim, insieme a un suo amico, ha dato vita a un progetto di volontariato che accoglie persone provenienti da ogni parte del mondo per dare una mano nella ricostruzione. In cambio dell’alloggio, le persone volontarie lavorano per tre ore al giorno, la mattina o il tardo pomeriggio, e apprendono la tecnica tradizionale della costruzione dei mattoni. L’obiettivo è indubbiamente ambizioso: prima di procedere con l’edificazione, è necessario rimuovere tutti i detriti della precedente casa e procedere con la fabbricazione dei mattoni. Questi vengono creati attraverso un impasto di fango e terra e vengono poi lasciati essiccare al sole e in seguito accumulati.  

Detriti e mattoni in costruzione, Tagounit

«Lavorare per questo progetto non è troppo pesante» spiegano Jaimie e Louis, due giovani di diciannove anni di Manchester. «Abbiamo finito le scuole superiori quest’estate e prima di iniziare l’università abbiamo deciso di trascorrere qui un mese». In alcune occasioni Karim accompagna le persone accorse per il progetto a visitare Tagounit e cerca di trasmettere alcuni tratti della cultura berbera dell’area. «È la quinta volta che vengo in Marocco» spiega Alba, una ragazza di vent’anni di Barcellona. «In Catalogna ho iniziato a studiare arabo da un anno, qui provo a metterlo in pratica. Mi piace stare qui, ho conosciuto la famiglia di Karim e amo stare in mezzo alla gente». Il progetto vede un flusso di persone quasi costante: la sera, vari volontari da ogni parte del mondo raggiungono Tagounit con l’unico autobus che, una volta al giorno, collega il paese a Marrakech.

Il richiamo del muezzin scandisce il ritmo della vita locale. La seconda preghiera del mattino dà il via al lavoro e, ancora una volta, è la quarta preghiera a sancire la fine della canicola pomeridiana. A quest’ora le persone volontarie raggiungono, a volte in moto, altre volte in autostop, il progetto. A sera, le volte in cui non si rimane a dormire nella capanna e si rientra a casa, si condivide un pasto cucinato insieme, mentre si chiacchiera con i nuovi arrivati. Quando si raggiunge la provincia di Zagora, ci si accorge che l’aridità avvolge ogni cosa. Il vento caldo leva il respiro e alza la terra a tal punto da non poter aprire più gli occhi. Un tempo, quest’area era puntellata da svariate oasi, le coltivazioni di cereali e datteri davano lavoro e nutrimento. Ci si chiede cosa il futuro potrà destinare a questa terra affacciata sul deserto del Sahara e se la sua popolazione avrà ancora la forza di restare e ricostruire.

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Armando Negro

Laureato in Lingue e Letterature straniere, specializzato in didattiche innovative e contesti indipendentisti. Corrispondente da Barcellona, per L’Indipendente si occupa di politica spagnola, lotte sociali e questioni indipendentiste.

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