giovedì 11 Settembre 2025

Uno studio quantifica l’impatto ambientale definitivo delle mascherine anti-Covid

Durante la pandemia di Covid-19 erano ovunque in quanto, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), avrebbero dovuto ridurre i contagi. Oggi, uno studio ne dimostra l’impatto sull’ambiente: le mascherine facciali rilasciano microplastiche, additivi chimici e interferenti endocrini, contribuendo all’inquinamento di suolo e acque. La ricerca è stata condotta dal Centro per l’Agroecologia, l’Acqua e la Resilienza della Coventry University, sottoposta a revisione paritaria e pubblicata sulla rivista scientifica Environmental Pollution. Analizzando tramite tecniche di laboratorio avanzate le sostanze rilasciate dalle mascherine, i ricercatori hanno scoperto che, anche senza essere indossate o sottoposte a movimento, queste rilasciano centinaia di particelle di microplastica, per lo più inferiori a 100 micrometri (ovvero lo spessore di un capello umano). «Non possiamo ignorare il costo ambientale delle mascherine monouso», avverte la coordinatrice dello studio Anna Bogush, aggiungendo che «dobbiamo sostenere lo sviluppo di alternative più sostenibili e fare scelte consapevoli per proteggere la nostra salute e l’ambiente».

Durante il picco della pandemia, l’uso globale di dispositivi di protezione individuale – cioè gli strumenti impiegati per ridurre l’esposizione a rischi per la salute – aveva raggiunto cifre impressionanti. Secondo le stime dell’OMS, servivano ogni mese circa 89 milioni di mascherine mediche per il solo settore sanitario, mentre ricerche indipendenti hanno calcolato un consumo globale di 129 miliardi di pezzi al mese. Il tutto nonostante esistessero un numero discreto di dubbi e critiche sulla loro efficacia – e che, col passare del tempo, hanno trovato sempre più riscontro con l’evidenza scientifica. Inoltre, si tratta di prodotti realizzati in gran parte con plastiche come polipropilene, polietilene, poliestere o nylon: materiali che, come spiegano gli autori della ricerca, non erano riciclabili con i metodi convenzionali e si sono accumulati come rifiuti in discariche, strade, spiagge e corsi d’acqua. Diversi studi avevano anche già mostrato come i processi di degrado – esposizione al sole, abrasione meccanica, variazioni di temperatura o di pH – favorissero il rilascio di microplastiche, particelle di dimensioni inferiori a cinque millimetri che possono penetrare negli ecosistemi e negli organismi viventi. La novità dello studio della Coventry University, invece, è aver quantificato in modo comparativo quanto inquinante può fuoriuscire dalle diverse tipologie di mascherine anche senza tali condizioni esterne. Per farlo, i ricercatori hanno immerso mascherine nuove in contenitori di acqua ultrapura per 24 ore, filtrando poi i liquidi e analizzandoli con tecniche avanzate come la spettroscopia infrarossa e la spettrometria di massa, controllando attentamente le possibili contaminazioni.

I risultati hanno mostrato che ogni mascherina rilascia microplastiche già dalla fase di produzione. Le chirurgiche standard ne emettono in media circa 250 particelle, mentre le FFP2 arrivano a oltre mille, con dimensioni variabili tra 10 e 2.082 micrometri, ma con una predominanza netta di frammenti inferiori a 100 micrometri. La composizione è risultata per lo più in polipropilene, con percentuali comprese fra l’82 e il 97%, ma nei facciali filtranti sono state individuate anche quantità maggiori di altre plastiche, come polietilene, poliestere e PVC. Oltre alle particelle solide, le analisi hanno evidenziato la presenza di diverse sostanze chimiche, tra cui in particolare il bisfenolo B, considerato un interferente endocrino capace di alterare il funzionamento degli ormoni, e 1,4-bis(2-etilesil) solfosuccinato, un composto usato come additivo industriale. Secondo le stime, la massa enorme di mascherine prodotte durante la pandemia avrebbe comportato il rilascio nell’ambiente di 128-214 chilogrammi di bisfenolo B. «Non possiamo ignorare il costo ambientale delle mascherine monouso, soprattutto quando sappiamo che le microplastiche e le sostanze chimiche che rilasciano possono avere effetti negativi sia sulle persone che sugli ecosistemi. Mentre andiamo avanti, è fondamentale sensibilizzare l’opinione pubblica su questi rischi, sostenere lo sviluppo di alternative più sostenibili e fare scelte consapevoli per proteggere la nostra salute e l’ambiente», concludono gli autori.

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Roberto Demaio

Laureato al Dipartimento di Matematica pura ed applicata dell’Università di Modena e Reggio Emilia e giornalista iscritto all'Ordine. È tra i più giovani in Italia con tale doppio titolo. Autore del libro-inchiesta Covid. Diamo i numeri?. Per L’Indipendente si occupa principalmente di scienza, ambiente e tecnologia.

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